Viviamo un’epoca paradossale: mai come oggi si è parlato di gestione dei progetti, di Agile, di certificazioni, di metodologie.
Eppure, mai come oggi il project management rischia di svuotarsi del suo significato più autentico: essere un’arte pratica, imperfetta e profondamente umana.
I cosiddetti “daily stand-up” — nati per favorire la sincronia e il flusso di lavoro — si sono trasformati, troppo spesso, in rituali vuoti, ripetizioni stanche in cui si comunica senza ascoltare e si parla senza cambiare nulla. Il tempo, anziché essere valorizzato, viene sacrificato sull’altare di un’efficienza apparente.
Non va meglio con la formazione Agile. Aule piene di futuri “certificati” che apprendono nozioni teoriche, ripetono formule, superano test. Poi, tornano nei loro ambienti di lavoro e tutto rimane com’era: backlog confusi, riunioni inutili, retrospettive trasformate in sedute di sfogo collettivo.
Il motivo è semplice e antico: la conoscenza non si trasferisce per osmosi. La conoscenza è un atto pratico, esige esperienza, fallimento, consapevolezza. È come imparare a nuotare leggendo un manuale: senza il rischio di affondare, il sapere resta sterile.
Anche le certificazioni, come il PMP, non sfuggono a questa deriva. Se da un lato aprono porte burocratiche, dall’altro rischiano di diventare meri simulacri di competenza, segni vuoti che nascondono l’assenza di un’autentica esperienza progettuale.
Si certifica chi possiede il linguaggio, non chi conosce la fatica e la responsabilità del governare il divenire.
Alla radice di questi fenomeni c’è un errore più profondo: trattare il project management come un processo meccanico, prevedibile, lineare.
Un errore che la filosofia della scienza ha da tempo smascherato: il reale è complesso, incerto, irriducibile a un algoritmo.
Progettare significa abitare l’incertezza, assumere decisioni senza garanzia, costruire nel mutamento continuo.
Un project manager non è un gestore di procedure: è un artigiano del possibile, un custode di spazi fragili in cui si tenta, sempre imperfettamente, di trasformare un’intenzione in un’opera.
L’intelligenza artificiale, gli strumenti digitali, le metodologie possono essere alleati preziosi.
Ma nessuna tecnologia potrà mai sostituire il giudizio, l’intuizione, la capacità di cogliere il momento opportuno. Nessuna macchina saprà mai percepire quella sottile vibrazione, tra le pieghe del tempo e degli uomini, che segna il confine tra il successo e il fallimento di un progetto.
La vera sfida non è “automatizzare” il project management, né affidarlo a nuove liturgie di carte e metriche.
La vera sfida è ritrovare la sua natura originaria: un’arte di relazione, di responsabilità, di coraggio.
Finché ci sarà bisogno di costruire insieme qualcosa che ancora non esiste, finché ci sarà bisogno di immaginare e di rischiare,
finché ci sarà bisogno di rimanere umani, il project management resterà, come la navigazione antica, un gesto di intelligenza fragile e necessaria, un atto di resistenza contro l’illusione della perfezione.