“La natura del tempo resta il mistero forse più grande. Strani fili lo legano agli altri grandi misteri aperti: la natura della mente, l’origine dell’universo, il destino dei buchi neri, il funzionamento della vita” (Carlo Revelli)
Carlo Rovelli è uno studioso capace di trasformare la scienza in racconto e la fisica in filosofia, restituendo alla realtà quella profondità di senso che spesso sfugge nella modernità. Non si limita a dar voce all’universo, ma apre finestre sul mistero di ciò che siamo e di ciò che accade, facendoci attraversare i confini tra tempo, spazio e conoscenza con la curiosità di chi esplora territori inesplorati.
Nei suoi ultimi libri — Helgoland, L’ordine del tempo e Buchi bianchi — Rovelli si fa guida in un viaggio che smonta l’idea di un mondo fatto di oggetti fissi e immutabili, per mostrarci invece un universo vibrante di relazioni, dove il tempo si svela come un intreccio di eventi e la realtà si costruisce nel dialogo tra ciò che osserva e ciò che viene osservato. I suoi lavori non sono semplicemente divulgazione scientifica, ma inviti a pensare la complessità e a confrontarci con l’incertezza, riscoprendo un senso di meraviglia che si mescola con la responsabilità di chi cerca di capire.
Il prof. Rovelli emerge così come un interprete della modernità, capace di coniugare rigore e poesia, scienza e filosofia, senza mai perdere di vista il fatto che ogni conoscenza è sempre, in fondo, una storia che raccontiamo al mondo, e a noi stessi.
Partendo da questo orizzonte di pensiero, vorremmo approfondire con lei alcune questioni che intrecciano scienza, filosofia e la nostra condizione umana, provando a esplorare insieme i confini, sempre sfuggenti, di ciò che chiamiamo realtà.
“Da dove le cose hanno origine, lì hanno anche il loro dissolversi, secondo necessità; poiché esse pagano l’una all’altra il fio dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo.” In questo frammento di Anassimandro il mondo appare come un equilibrio fragile che si mantiene attraverso una forma di giustizia immanente, che regola l’emergere e il perire delle cose. Cosa resta, oggi, di questa visione? È ancora possibile pensare una giustizia che non sia solo umana, ma cosmologica?
Credo che cercare di ricostruire il pensiero di Anassimandro da un frammento così breve conduca solo a proiettare su di lui quello che piacerebbe a noi lui avesse detto…. Su Anassimandro ho scritto un libro, credo il mio libro più bello, perché era il primo. Ancora disorganico, un po’ selvaggio, ma traboccante di tanto che volevo raccontare. Pensare a una giustizia che non sia umana, ma sia cosmologica, mi sembrerebbe oggi tradire quanto di meglio hanno prodotto gli umani, i nostri fratelli maggiori. Siamo noi esseri umani che abbiamo prodotto valori alti come la giustizia. Ne siamo orgogliosi, anche se così di rado riusciamo ad essere loro completamente fedeli, e se così spesso li usiamo ipocritamente. Ma sono nostri, come sono nostri i desideri, i propositi, le emozioni, le generosità. Proiettarli fuori di noi e mettere loro garanti cosmologici è solo un modo per imporre i nostri valori agli altri. È farsi la guerra. Invece di portarci verso quello a cui io credo i valori che abbiamo dovrebbero indurci: essere umili, tolleranti. Imparare anche da chi ci sembra abbia valori diversi.
Siamo noi esseri umani che abbiamo prodotto valori alti come la giustizia.
Nel suo libro Helgoland si legge una posizione radicale: non esistono proprietà assolute, ma solo relazioni. Ciò che è, è sempre per qualcun altro. In questa prospettiva, non osserviamo il mondo da fuori: lo attraversiamo, e in qualche modo lo produciamo. Che tipo di realtà rende possibile l’osservatore contemporaneo? E con quali implicazioni?
Non credo che il mondo proprio lo produciamo. Ma certo ne siamo in interazione. Ha effetto su di noi, e noi abbiamo effetto su di lui. Come tutte le cose hanno effetto su tutte le altre cose, d’altra parte. Penso che l’“osservatore contemporaneo” (mi sembra una bella espressione) sia diverso dall'orgoglioso osservatore dell’illuminismo che pensava di poter aspirare ad abbracciare la totalità delle cose con il suo sguardo, e perfettamente comprenderla con la sua ragione. La ragione resta la nostra alleata più preziosa, ma è più consapevole dei suoi limiti, perché in fondo siamo solo animaletti, consapevole della complessità, e di come ragione, emozioni e spinte interne si mescolino in noi in maniera intrinseca e inseparabile. Penso che siamo un frammento della realtà. Di una realtà ricchissima e piena di colori.
La ragione resta la nostra alleata più preziosa, ma è più consapevole dei suoi limiti, perché in fondo siamo solo animaletti, consapevole della complessità
Se la realtà è un intreccio di relazioni, un accadere che si compone tra cose in rapporto, allora non è più qualcosa da afferrare, ma qualcosa che ci coinvolge, che ci attraversa. In questa prospettiva, non è più solo questione di verità o di conoscenza, almeno nei termini in cui la filosofia se n’è a lungo occupata. Quale forma può assumere, oggi, la domanda sul reale? E da quale posizione è ancora possibile porla?
La posizione da cui possiamo porre domande mi sembra chiara: non da un astratto empireo fuori dal mondo, ma da dentro questo mondo come siamo. Con la forza e la debolezza del nostro piccolo cervello che si è formato nel corso dell’evoluzione, con i suoi evidenti limiti, ma anche capace di fare cose che sempre ci stupiscono. Dal nostro punto di vista, dall’interno dei nostri pregiudizi, abitudini, credenze, possiamo e sappiamo imparare cose nuove sulla realtà. Ma farci domande così mal definite come “la domanda sul reale” non mi sembra una buona idea. Molte delle cose che ci confondono sono tali non tanto perché non conosciamo le risposte alle nostre domande, ma perché poniamo domande troppo confuse per avere una qualunque risposta utile. Domande come “la domanda sul reale”, oppure “il problema dell’essere” mi sembrano domande vuote, che non significano nulla. Cercare di trasformarle in domande più ragionevoli ci permette di chiarirci le idee. La più grande lezione della filosofia del secolo scorso a mio parere è quella di Wittgenstein, che tanto nel suo primo che nel suo secondo periodo non ha fatto che metterci in guardia contro le trappole del linguaggio, che ci porta continuamente a porre domande senza senso.
Non possiamo non continuare a porci delle domande, ma le domande non devono essere astratte, devono venire da dentro questo mondo come siamo
Novalis scriveva che la filosofia è propriamente nostalgia, un impulso ad essere a casa propria ovunque….
Si, lo penso anch’io. Per questo sono attratto dalla filosofia. È lo stesso sentire che mi riporta alla mia casa, o alla mia città natale, Verona. La ricerca di un senso, di un centro di riferimento.
In un tempo che ha smarrito i centri e le certezze, …
Oh, non più e non meno di altri tempi, credo! Non sono mai esistiti i tempi delle certezze condivise: sono fantasie. Quando l’Europa si dilaniava nelle guerre di religione come la Guerra dei Trent’anni, crede fosse molto diversa da come ci dilaniamo adesso per analoghe ideologie? Gli esseri umani vivono di certezze insensate e di dubbi in tutti i secoli. Ci sono sempre i cantori spavaldi delle certezze e i disperati senza àncore, in tutti i climi e tutte le stagioni…
… in cui la scienza stessa ha rinunciato a un punto d’osservazione assoluto,
ma quando mai la scienza ha davvero pensato di avere un punto di osservazione assoluto? Forse qualche sognatore esagitato in un momento di esaltazione. Si cita spesso Laplace che scrive “se una intelligenza conoscesse l’esatta posizione e velocità di tutte le particelle del mondo, e sapesse calcolare tutto, allora conoscerebbe tutto il futuro.” Sembra l’arroganza della scienza. Ma si dimentica che Laplace scrive questa cosa in un testo sulle probabilità: quello che sta dicendo è che se questo fosse possibile, allora si conoscerebbe il futuro, ma siccome palesemente è impossibile, viviamo nell’incertezza….
… quale forma può ancora assumere, per lei, l’idea di casa? È ancora possibile sentirsi a casa?
Si, credo di si. Ci si sperde, ci si dispera. La casa a cui si torna non è mai quella che si è lasciata, perché il passato non ritorna. Ma nella leggerezza del mondo, nel riconoscerci parte della natura, non estranei ad essa, nel riconoscerci mortali fra cose mortali, fratelli di tutte le cose, degli alberi, delle stelle, io credo ci possiamo rasserenare. Capire che non siamo qui per essere giudicati, non siamo qui in esilio, non abbiamo bisogno di prevalere gli uni sugli altri per conquistarci il diritto di essere amati. Siamo qui per scambiare con i nostri simili il pane, i sogni e i pensieri. E non è splendido?
La casa a cui si torna non è mai quella che si è lasciata, perché il passato non ritorna.