La vita ha senso perché ‘ce la raccontiamo’
La narrazione rappresenta un potentissimo strumento di organizzazione del senso. La vita ha senso perché ‘ce la raccontiamo’.
Guardiamo alle storie che si raccontano le persone che lavorano insieme. Queste storie sono la prima fonte del Knowledge Management. Attraverso storie, narrazioni -conversando, raccontando barzellette o scrivendo e-mail- portiamo alla luce le esperienze, le conoscenze di cui non sappiamo parlare altrimenti.
Attraverso le narrazioni trasformiamo ciò che è tacito e latente in qualcosa di vivo.
Eppure accade di frequente che chi si occupa di Knowledge Management trascuri del tutto le narrazioni. E accade anche che si intenda per storytelling non le narrazioni spontanee di persone che vivono nell’organizzazione, ma narrazioni create ad hoc da pretesi esperti, tese a convincere i lavoratori di qualcosa. Le narrazioni aziendali sono così ridotte ad una nuova forma di propaganda o di indottrinamento.
Beninteso, il punto di vista dell’interprete, dell’esperto, dell’osservatore ‘professionista’, non è certo privo di importanza. Eppure, lo sguardo dell’osservatore ‘professionista’ non è che uno sguardo in una pluralità di sguardi. Dovremmo sempre ricordare che lo sguardo dell’osservatore ‘professionista’ rischia sempre di essere viziato dalla pretesa di pensare a nome degli altri, di sussumere la comunità dei parlanti e dei viventi a una non richiesta guida. Dovremmo sempre chiederci se l’esperto ‘professionista’ rispetta la libertà di autori e lettori. O se pretende invece di imporre loro un proprio controllo.
Wittgestein, in una prefazione da lui stesso preparata per le Ricerche filosofiche -libro, come si sa, che l’autore non riuscì in realtà a scrivere pienamente, a organizzare, a terminare- afferma: “Non vorrei, con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare. Ma, se fosse possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé”.1
Dobbiamo credere che le interpretazioni autorevoli aggiungano conoscenza, ma dobbiamo anche porci, in quanto ricercatori sociali, il problema del limite: la nostra autorevole lettura può finire col fornire agli altri l’alibi per non pensare da sé.
Pensare, costruire conoscenza, narrare: questo è il nucleo generatore.
Pensare, costruire conoscenza, narrare: questo è il nucleo generatore. Ricordiamo come l’etimo lega narrazione a conoscenza, knowledge, können, ci parla dell’‘accorgersi’ ciò che osserviamo ed accade, e ci permette di considerare la carenza di narrazioni come ignoranza.
Di fronte a questo nucleo generatore, l’accanimento definitorio non aggiunge poi molto. Si può certo, volendo, distinguere storytelling e narrative argomentando che narrative guarda a testi canonizzati, organizzati in una forma ritenuta definitiva; mentre storytelling guarda a storie che non hanno ancora l’organizzazione e la coerenza di una narrazione, storie ancora provvisorie, che stanno venendo alla luce. Ma già la distinzione assume un senso diverso se passiamo dall’inglese all’italiano. Come possiamo tradurre storytelling?
Il termine inglese può ben denominare un prodotto che il consulente può vendere a qualche azienda. Ma la distinzione tra narrative e storytelling perde senso se appena allarghiamo lo sguardo oltre le discipline manageriali e guardiamo alla storia e alla teoria della letteratura.
Ciò che può apparire nuovo nell’ambito del management, era già stato detto da studiosi di critica del testo e teoria della letteratura. E non c’è nemmeno bisogno, per trovare studiosi che ci forniscano le chiavi interpretative, di restare nell’ambito di contemporanei esegeti, legati allo strutturalismo e alla semiotica. Tutto era già chiaro agli occhi di studiosi che alla moderna critica à la page piace considerare superato vecchiume. Penso a Ramón Menéndez Pidal: “tradizione è la trasmissione di conoscenze e pratiche di interessi sociale o collettivi fatta in tutto o in gran parte oralmente, dai vecchi ai giovani, di generazione in generazione”. Ogni narrazione è trasmissione di conoscenze e pratiche, trasmissione di interessi sociale o collettivi fatta in tutto o in gran parte oralmente. Di fronte a un testo preesistente ognuno “inventa ciò che non ricorda più bene”, “rifà ciò che non gli piace”, e “in questa rielaborazione rapida e quasi involontaria, ognuno può avere un momento creatore felice”.2
Come nel Libro del buen amor la narrazione, sia orale che scritta, va di mano in mano, come palla nelle mani di ragazze che giocano; bravo chi saprà afferrarlo, aggiungendoci magari qualcosa di suo: “Chiunque sia che lo ascolti/ può aggiungere dell'altro/ vada di mano in mano/ come palle alle ragazze/ se ben cantare sapesse,/ e emendare quello che volesse;/ a chiunque lo chiedesse,/ lo prenda chi ci riesca.”3
Ciò che conta è il modo di osservare il mondo e di vivere la produzione di conoscenza. Si distingueva già prima del 1500 tra mester de juglaría e mester de clerecía: due tipi di 'mestiere', tra loro contrapposti. Da un lato il cantore per lo più anonimo, o comunque disinteressato ad affermare l'univocità della propria voce, legato a radici popolari, a suo agio nel ruolo di erede del giullare, trovatore, cantastorie. E dall'altro il chierico, che afferma in partenza la propria diversità dal mondo degli altri, i fruitori, gli ascoltatori o lettori, e considera elemento fondante della letteratura il proprio intervento dotto ed elaborato.
Ritroviamo la divaricazione tra i due ‘mestieri’ in ambiti diversissimi. Prendiamo ad esempio un classico della sociologia del Ventesimo Secolo. Il Polish Peasant,4 di Thomas e Znaniecki, è un testo unico nel suo genere. Si pone lo scopo di narrare la storia dell’emigrazione polacca negli Stati Uniti. Lo scopo potrebbe essere raggiunto nel mondo consueto: il ricercatore lavora su fonti e materiali documentari, cita le fonti, ma espone al lettore solo la sua interpretazione. Invece, il Polish Peasant ci presenta una grande novità narrativa: offre in lettura i documenti, e cioè una ricchissima raccolta di narrazioni: lettere di emigrati e di loro familiari, storie di vita autografe, norme e procedure amministrative, articoli giornalistici, ecc.
Qui ciò che hanno saputo dare i due studiosi è precisamente porre limiti al proprio ruolo. Ben prima dell’interpretare e dell'inquadrare, per loro veniva il raccogliere le lettere degli emigranti, l’offrirle alla nostra lettura. Anche se Znaniecki non le avessero lette accuratamente tutte le lettere, come qualche ‘esperto’ commentatore afferma, non sarebbe poi un gran danno. Perché la narrazione arriva sotto i nostri occhi. Noi che leggiamo possiamo prendere per buona l’interpretazione di Thomas e Znaniecki. Ma in ogni caso, possiamo ‘farci una nostra idea’. Insomma: leggendo il Polish Peasant, non soffriamo di nessuna ‘nostalgia del testo’, perché il testo c’è.
Allargando di nuovo lo sguardo, potremmo dire che la cura filologica ed i commenti di Gianfranco Contini e di Giorgio Petrocchi e ci aiutano certo a leggere la Divina Commedia. Ma la loro resta una interpretazione, una delle interpretazioni possibili. Nessuna autorevole interpretazione è tanto buona da rendere inutile la personale lettura di ognuno di noi. E sopratutto, nessuna interpretazione può sostituire il testo dantesco, la fonte che veramente ci arricchisce.
Nessuna autorevole interpretazione è tanto buona da rendere inutile la personale lettura di ognuno di noi.
Bibliografia
1Ludwing Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford, 1953; cito dal Ludwig Wittgenstein, Werkausgabe, Band I, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1989. Vorwort, p. 231-232; trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, 1967. Prefazione dell'autore, pp. 3-4.
2 Ramón Menéndez Pidal, Poesía juglaresca y orígenes de las literaturas románicas, Madrid, 1957, p. 364. (Sesta ed ultima ed. di Poesía juglaresca y juglares, Madrid, 1924).
3 "Qualquier omne que lo oya,/ puede más añadir/ ande de mano en mano/ como pella a las dueñas/ si ben trobar sopiere,/ è enmendar lo que quisiere;/ a quien quier quel pidiere,/ tómelo quien podiere." Juan Ruiz Archipreste de Hita, El libro del buen amor, ed. di Joan Corminas, Madrid, Gredos, 1967.
4 William I. Thomas, e Florian Znaniecki, The Polish Peasant in Europe and America, 5 voll. Boston, Richard G. Badger, 1918-20 (vol. I e II originariamente pubblicati da The University of Chicago Press, 1918; seconda ed., 2 voll., New York, Alfred A. Knopf, 1927); trad. it. Il contadino polacco in Europa e in America, Milano Comunità, 1968.