Donna Haraway, negli anni Ottanta del secolo scorso, sostiene la scelta di chi intende progettare se stesso al di là di ogni retaggio storico e culturale, al di là anche degli apparenti vincoli fisici.
Fino a metà del XX secolo, argomenta la filosofa, le macchine sono state nient’altro che “una caricatura del sogno riproduttivo maschilista”. Invece, scrive in 'A Cyborg Manifesto' 1985,
“le macchine di fine Novecento hanno reso del tutto ambigua la differenza tra naturale e artificiale, mente e corpo, ciò che è autosviluppato e ciò che è progettato esternamente”. Queste macchine “semoventi, autoprogettate, autonome”, realizzano “il sogno dell’uomo [man’s dream]”. “Sono piene di vita”, mentre noi siamo “spaventosamente inerti”. Quindi l'auspicio: prendiamo esempio da queste nuove macchine, o in qualche modo facciamoci macchina: Cyborg.
Che macchine aveva sotto gli occhi Haraway per dire questo? Qual è la tipica macchina “caricatura del sogno riproduttivo maschilista”, quale è la prima macchina “sogno dell'uomo”?
I Personal Computer di allora penso potessero giustificare, in parte, questa visione. Ma solo in parte: PC non erano certo macchine “semoventi, autoprogettate, autonome”. Siccome voglio pensare che l'affermazione di Haraway avesse un legame con qualche macchina esistente, o almeno immaginata o immaginabile alla metà degli Anni Ottanta, coltivo la supposizione che Haraway conoscesse quel meraviglioso, visionario, appassionato libro di Ted Nelson: 'Computer Lib/Dream Machines', 1974. Coltivo la supposizione anche se non trovo traccia di Nelson negli scritti di Haraway.
Ma forse è più corretto pensare che il richiamo di Haraway alle macchine fosse generico, metaforico. Forse Haraway utilizzava il concetto di Cyborg come mero strumento per decostruire opposizioni consuete: uomo/donna, natura/cultura, mente/corpo. E pensava che, oltre queste limitanti opposizioni, esistesse la possibilità di una autoprogettazione del proprio essere.
Sta di fatto che almeno su un punto Haraway si sbagliava di grosso. Né le nuove tecnologie degli anni ottanta né quelle di oggi offrono possibilità di autoprogettazione. Il Cyborg non progetta sé stesso. E' invece il progetto di un tecnico. Solo ai tecnici -computer scientist, ingegneri- è riservata la possibilità di ridisegnare la vita umana in ogni sua fase, dal concepimento alla morte. Solo ai tecnici è riservata la possibilità di progettare e stabilire l'ambiguo confine tra naturale e artificiale, tra essere vivente e macchina.
E, guarda caso, questi tecnici sono maschi. Le macchine progettate oggi sono -molto più delle macchine novecentesche- “caricatura del masculinist reproductive dream”.
E' ben chiaro che l'industria e la cultura dell'Intelligenza Artificiale sono dominate da una piccola manciata di tecnoscienziati maschi, bianchi, benestanti.
Haraway proponeva il Cyborg come figura tramite la quale transitare da “una realtà impossibile ma fin troppo presente ad una realtà possibile ma fin troppo assente”. Oggi purtroppo siamo siamo del tutto immersi -ed è difficile vedere via d'uscita- nella “realtà impossibile ma troppo presente”.
“Cyborgs for earthly survival!”, diceva Haraway. Oggi questo grido, mi pare, ci appare come invito a tenerci lontani dalle macchine che ci vengono proposte o imposte. A diffidarne.
Nota bibliografica
Donna J. Haraway, “A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century”, Socialist Review, 80, vol. 15, 2 (March-April, 1985), poi in Donna J. Haraway, Simians, Cyborgs, and Women. The Reinvention of Nature, Routledge, New York, 1991. Vedi in particolare p. 152.