In ogni gruppo di lavoro convivono due forze: la spinta del singolo verso obiettivi personali (sicurezza, riconoscimento, crescita) e l’esigenza collettiva di cooperare in modo coerente. Finché queste forze restano allineate, il gruppo avanza con energia. Quando si distanziano, emergono attriti che rallentano i progetti o, peggio, portano alla perdita di senso.
Gli indicatori di un disallineamento sono facili da riconoscere: calo della partecipazione attiva, riunioni dove a parlare sono sempre gli stessi, risultati formalmente “consegnati” ma privi di reale impatto. In apparenza si procede, ma il motore gira a vuoto. È in questi frangenti che la formazione — intesa come dispositivo di ascolto, confronto e rielaborazione condivisa — può fare la differenza.
Un percorso formativo efficace non si limita a trasmettere contenuti né a “motivare” in astratto. Il suo compito è creare occasioni strutturate in cui i membri del gruppo possano:
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riconoscere i propri bisogni (e legittimarli senza sentirsi egoisti);
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comprendere le necessità dell’organizzazione (e il razionale delle regole);
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negoziare un nuovo equilibrio tra interesse personale e obiettivo comune.
Progettare queste occasioni richiede competenze tecniche — didattica, piattaforme digitali, gestione del tempo — ma anche una particolare sensibilità nella lettura del contesto. La classica distinzione tra “aula” e “on-line”, per esempio, ha ormai poco senso: la vera sfida è far sì che i momenti sincroni (in presenza o in video) risuonino con la parte asincrona (contenuti, esercitazioni, forum), generando un percorso unico e fluido.
È qui che la leadership gioca un ruolo decisivo. Guidare un gruppo in apprendimento significa prestare attenzione ai segnali deboli — una battuta ironica, uno sguardo distratto, una telecamera che rimane spenta — e intervenire non con direttive rigide, ma con azioni che riattivino la partecipazione. Può trattarsi di micro-cambiamenti: accorciare un modulo d’aula, inserire un momento di co-progettazione, ricalibrare una consegna.
La letteratura sul tema converge su un punto: senza spazi di autonomia le persone si disinteressano. Ma l’autonomia, per funzionare, deve poggiare su regole chiare e condivise. È un equilibrio sottile: troppe regole e la creatività si spegne; troppe libertà e il gruppo si disperde.
Per esplorare queste dinamiche ho chiesto il parere di Alessandra Grillo, professionista che da anni si occupa di apprendimento ibrido e progettazione di percorsi per adulti. Le sue risposte — misurate, concrete — aiutano a collegare la teoria con la pratica quotidiana.
Quali accorgimenti progettuali considera essenziali per far convivere bisogni individuali e obiettivi collettivi in un percorso formativo?
“Per far convivere le due dimensioni, lascio spazio alla narrazione personale all’inizio del percorso, perché le persone hanno bisogno di sentirsi viste e riconosciute. Anche un semplice momento di condivisione guidata, permette di far emergere le motivazioni individuali e di legittimarle. Penso poi a degli obiettivi intermedi che abbiano senso sia per il singolo che per il gruppo. Se i risultati collettivi sono troppo astratti o lontani nel tempo, non generano coinvolgimento. Infine alternare momenti di autonomia con momenti di co-progettazione, dove le persone percepiscono di avere un margine di scelta – nel ritmo, nei contenuti, nelle modalità – ma al tempo stesso sanno di essere parte di una direzione comune. Infine, considero essenziale monitorare continuamente il clima, perché il bilanciamento non è mai definitivo.”
Quando avverte segnali di demotivazione, quali interventi utilizza per riaccendere l’interesse del gruppo?
“La demotivazione raramente esplode all’improvviso: arriva per piccoli segnali — una partecipazione più tiepida, un commento ironico, una telecamera che rimane spenta. Come primo passo suggerisco di fermarsi ad ascoltare: capire se il calo nasce da stanchezza, difficoltà sui contenuti o da dinamiche di gruppo non dette. Poi micro-cambiamenti mirati possono essere utili. A volte basta alleggerire un modulo, introdurre un momento di co-progettazione o dare più autonomia nella gestione di un compito. Non esiste una formula unica: ciò che conta è mantenere vivo il dialogo e far percepire che la progettazione non è rigida, ma può adattarsi alle esigenze reali del gruppo.”
In contesti collaborativi, come definirebbe oggi la figura del “leader della formazione”?
“Oggi il leader della formazione è soprattutto un facilitatore, capace di leggere il gruppo e creare contesti in cui l’apprendimento diventa azione condivisa. Le competenze essenziali? Ascolto attivo, per cogliere i bisogni reali; progettazione flessibile, che integri presenza e digitale; leadership leggera, capace di dare direzione senza togliere autonomia. In fondo, è più regista che protagonista.”
Nel lavoro on-line, quali condizioni garantiscono un’interazione che resti autentica e generativa, nonostante lo schermo?
“Online il rischio è ridurre la relazione a un flusso di informazioni. Perché l’interazione resti autentica servono spazi per il confronto reale e non solo per l’ascolto passivo, anche momenti brevi e mirati. Le condizioni minime? Ritmi chiari e sostenibili, strumenti semplici ma stabili, e un avvio che preveda sempre un momento di accoglienza, anche informale, per ‘umanizzare’ lo schermo. Infine, è fondamentale mantenere la reciprocità: dare voce a tutti, alternando plenarie, piccoli gruppi e attività asincrone che alimentino il senso di continuità.”
Il contributo di chi lavora sul campo è fondamentale. Ogni gruppo ha una sua fisionomia, ogni contesto una sua temperatura. Per questo un approccio rigido, standardizzato, non può funzionare. In un’epoca in cui si parla molto di dati e piattaforme, il punto resta semplice: senza cura delle relazioni, l’apprendimento non mette radici. E senza un apprendimento condiviso non c’è squadra capace di sostenere l’innovazione nel tempo.
In fondo, ogni percorso di apprendimento che funziona — in azienda come altrove — si regge su una dinamica semplice e difficile: imparare insieme senza smarrire le differenze. È un equilibrio che va cercato con attenzione, giorno per giorno, e che non si risolve con un metodo universale, ma con la capacità di leggere il contesto e agire di conseguenza.
Peter Senge, nel suo libro La quinta disciplina, lo ha formulato con chiarezza: un’organizzazione che apprende è quella in cui le persone, collettivamente, accrescono la propria capacità di creare ciò che davvero desiderano. È questa la posta in gioco: non solo formare, ma generare le condizioni perché un gruppo possa trasformarsi in una comunità capace di apprendere. Insieme.