Heidegger ha compreso, prima di chiunque, che la tecnica non è un insieme di strumenti ma un modo in cui l’essere si manifesta.
Nel cuore della modernità tutto ciò che esiste è chiamato a mostrarsi come risorsa, come ciò che può essere calcolato, gestito, ottimizzato. È questa la struttura del Gestell: un impianto che ordina il reale sotto la legge della disponibilità. La tecnologia non è più un mezzo a disposizione dell’uomo, ma un dispositivo ontologico che definisce l’orizzonte stesso di ciò che può apparire. Essa decide che cosa è visibile, che cosa è vero, che cosa merita attenzione.
In questo orizzonte l’uomo non domina la tecnica, ma vi abita. Ogni invenzione genera nuovi bisogni e ogni bisogno apre nuove possibilità di invenzione: il progresso diventa un movimento circolare, privo di misura, in cui la crescita si alimenta di se stessa. L’impianto tecnologico non espande soltanto le capacità operative, ma trasforma la struttura del disvelamento: la realtà appare unicamente come ciò che è disponibile, e l’essere stesso si riduce alla funzione. Tutto ciò che non serve scompare, espulso dal campo del visibile.
La tecnica, in questo senso, non modifica solo ciò che facciamo, ma ciò che può mostrarsi. Essa istituisce un regime di apparire che satura lo spazio dell’esperienza, riducendo la presenza al piano dell’utilizzabile. È una forma di pensiero che si è fatta mondo, una potenza che non conosce più altro scopo che la propria estensione. L’uomo la prolunga, la serve, la prolifica. Il dominio del Gestell è la compiuta oggettivazione dell’essere: il disvelamento si chiude nel suo stesso dispositivo.
È qui che diventa necessario richiamare Hegel.
Nell’estetica hegeliana l’arte costituisce il luogo in cui l’Idea si rende visibile, trasformando la sensibilità e la realtà sociale. L’apparire, per il filosofo di Stoccarda, non è mai un fatto neutro: è il momento in cui lo Spirito riconosce se stesso nella forma sensibile, trovando nel mondo la propria riconciliazione. La manifestazione, lontano dall’essere pura esteriorità, è un ritorno: attraverso ciò che appare, lo Spirito si riappropria della propria sostanza.
In Heidegger, però, questa possibilità si rovescia. L’esteriorizzazione non conduce più al riconoscimento, bensì a una proliferazione che non conosce ritorno. L’apparire tecnico è un’apparizione senza interiorità: una potenza che si espande ignorando il senso. Lo Spirito, oggettivandosi nella forma tecnologica, resta prigioniero della propria oggettività; la manifestazione non rimanda più a una profondità riconoscente, ma instaura un regime di visibilità che esclude ogni trascendimento.
Da qui l’effetto fagocitante della tecnologia. L’apparire massimale non produce verità, ma saturazione: più la tecnologia si manifesta, più restringe l’orizzonte dell’esperienza; più amplia il suo dominio, più gli altri modi di disvelamento — estetico, religioso, riflessivo — vengono ridotti a funzioni del sistema. Ciò che chiamiamo “mondo” non è più ciò che sta davanti all’uomo, ma ciò che viene prodotto e filtrato dal dispositivo tecnico. Lo Spirito non ritorna a sé nella forma tecnica, perché il ritorno è impedito dall’impianto che rende tutto disponibile e calcolabile. L’alienazione non è più una perdita psicologica, ma una mutazione ontologica: la realtà stessa si trasforma in fondo di impiego, e con essa la forma dell’umano.
Questa combinazione hegeliano-heideggeriana porta a una diagnosi: la tecnologia non si limita ad aumentare potenza produttiva, operando come apparizione dello Spirito che ha perso l’orizzonte del ritorno. È la piena manifestazione che non conduce a riconciliazione, ma a espansione senza scopo trascendente. La «volontà di potenza» nietzschiana trova qui una forma istituzionalizzata: non tanto la volontà di un soggetto quanto la dinamica strutturale di un sistema che cresce per il suo stesso accrescimento.
Se la possibilità hegeliana di riconquista si chiude perché il disvelamento è stato catturato dal Gestell, resta aperta tuttavia la domanda più radicale e pratica: che cosa chiedere alla tecnica oggi? Domandare non significa rifiutare ogni invenzione né ritrarre la modernità; significa piuttosto interrogare il tipo di visibilità che essa impone, verificare se esistono pratiche di disvelamento alternative in cui la forma sensibile torni a rimandare a senso e non soltanto a impiego. È una domanda metafisica e politica insieme: metafisica perché riguarda la maniera in cui l’essere si dà, politica perché investe le condizioni sociali e istituzionali che rendono possibile o impediscono altri modi di apparire.
Chiudere su questa domanda implica due movimenti congiunti. Il primo è diagnostico: riconoscere che la saturazione tecnologica è un fenomeno epistemico oltre che tecnico, che ridefinisce i criteri stessi di verità e valore. Il secondo è pratico: immaginare e costruire dispositivi culturali, istituzionali e artistici che riaprano spazi di disvelamento non riducibili alla disponibilità. Non si tratta di nostalgia, ma di pratica concettuale e organizzativa; non si tratta di arrestare la tecnologia, ma di sottrarre parti del mondo al dominio esclusivo del Gestell.
In ultima istanza la questione è la più hegeliana possibile: se lo Spirito si è fatto mondo fino a dimenticare di essere Spirito, quale forma di coscienza o quale pratica può ancora riconoscere nel mondo qualcosa che trascende la semplice operatività? La risposta non è scontata e non la trova una sola disciplina, perché l’orizzonte che si apre è insieme estetico, ontologico, etico e politico. La sfida consisterà nel ripensare le condizioni del manifestarsi affinché l’apparire non si esaurisca nella sua efficacia, ma torni a rimandare a significati che non siano esclusivamente misurabili.
Bibliografia essenziale
Heidegger
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Approfondimenti e letture critiche
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