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Donna Haraway e Rosi Braidotti: Che cosa resta dell’esperienza umana quando la vita si fonde con la tecnologia?

Negli ultimi anni il corpo è tornato al centro del dibattito filosofico e culturale, proprio nel momento in cui sembrava perdere importanza. La pandemia, la crisi ecologica, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e delle biotecnologie ci hanno costretto a ripensare cosa significhi “essere vivi”: chi può respirare, muoversi, connettersi? Chi ha diritto alla vita?
Dentro questo scenario emergono due figure fondamentali del pensiero femminista contemporaneo, Donna Haraway, autrice del Manifesto Cyborg, e Rosi Braidotti, teorica del Posthuman e dell’etica della relazione.
Le loro idee sono diverse ma collegate da un interesse comune: che cosa significa essere umani quando il confine tra naturale e artificiale non esiste più?


1. Il corpo come interfaccia

Per Donna Haraway, il corpo non è una realtà naturale e stabile, ma una tecnologia ibrida, un punto di incontro tra materia biologica, linguaggio e potere. Nel suo celebre Manifesto Cyborg (1985), Haraway usa la figura del cyborg non come creatura di fantascienza, ma come metafora politica.

Il cyborg serve a rompere le vecchie opposizioni che hanno dominato la cultura occidentale: organismo/macchina, maschile/femminile, umano/animale, naturale/artificiale.

Il suo gesto è rivoluzionario perché mostra che questi confini non sono “naturali”, ma costruiti socialmente. Dire che il corpo è un’“interfaccia” significa riconoscere che non è un’entità chiusa, ma una zona di scambio in cui si intrecciano biologia, tecnologia, identità e potere. In questa prospettiva, il corpo diventa un campo politico e simbolico: ciò che lo definisce non è la materia, ma il modo in cui viene rappresentato, controllato o liberato.

Rosi Braidotti riprende e amplia questa intuizione. Per lei, il corpo non è soltanto ibrido, ma soprattutto relazionale, un nodo in una rete vitale che connette umani, animali, ecosistemi e tecnologie. L’essere umano non è un individuo isolato, ma una transizione vivente tra specie, materia e intelligenze. La soggettività, in questa visione, è fluida, nasce dai legami e dalle interdipendenze, non dalla separazione.

In entrambi i casi, il corpo è un dispositivo di mediazione, una soglia attraverso cui passano informazioni, affetti, energie e relazioni. È allo stesso tempo biologico e simbolico, concreto e immaginario, materiale e digitale.

E se il corpo fosse il punto d’incontro tra biologia e cosmologia, più che la prigione dell’io? Forse il vero compito del pensiero contemporaneo è imparare a leggere il corpo non come limite, ma come luogo di connessione con il mondo vivente e tecnologico che abitiamo.

il corpo è un dispositivo di mediazione, una soglia attraverso cui passano informazioni, affetti, energie e relazioni (Rosi Braidotti)

2. Tecnologie della vita

La tecnologia non è né una salvezza né una minaccia in sé, per Donna Haraway, è piuttosto un campo di responsabilità. Nel saggio Staying with the Trouble (2016), Haraway invita a “restare con il problema”: a non fuggire davanti alla complessità del presente, ma ad abitarla. Significa riconoscere che viviamo in un mondo segnato da crisi ecologiche, disuguaglianze e intrecci tra umano, macchina e altre forme di vita, e che non possiamo “ripararlo” con soluzioni semplici o tecnologie miracolose.

Haraway propone un cambio di prospettiva, imparare a “fare parentela” con ciò che ci circonda. Non solo con altre persone, ma anche con animali, piante, algoritmi, ambienti. Nel suo lessico, parole come Chthulucene o Capitalocene indicano proprio questo, la necessità di pensare la vita come rete di interdipendenze invece che come sistema di dominio. La tecnologia, in questo senso, non è da distruggere ma da ri-orientare verso forme di coabitazione e responsabilità reciproca.

Rosi Braidotti sviluppa una visione affine ma più esplicitamente vitale. Nel suo pensiero, al centro c’è la nozione di zoe: la vita in tutte le sue forme, non solo quella umana. Zoe è un principio generativo, una forza che attraversa corpi, specie e ambienti, e che la filosofia occidentale ha spesso ignorato privilegiando la ragione o lo spirito. Per Braidotti, le tecnologie - comprese l’intelligenza artificiale e la biotecnologia - possono diventare strumenti di rigenerazione etica e sociale, a condizione di essere pensate in chiave ecologica e affermativa: non contro la vita, ma con la vita.

Entrambe, in modi diversi, ci invitano a ripensare il rapporto tra vita e tecnica, non come opposizione, ma come alleanza. Questo richiede di superare l’idea di controllo e dominio - la logica che guida oggi l’innovazione - e sostituirla con quella di convivenza, di cura, di co-evoluzione.

Possiamo immaginare una tecnologia che non domini la vita, ma la accompagni? Forse la vera innovazione non consiste nel creare nuove macchine, ma nel reinventare i nostri legami con esse.

3. Femminismo e soggettività

Il femminismo non è solo una teoria dei diritti o della rappresentazione, ma una pratica di riscrittura dei confini. Nel Manifesto Cyborg (1985), Donna Haraway, propone una figura simbolica, il cyborg, che rifiuta la purezza e celebra la contaminazione. Il cyborg è metà organismo e metà macchina, ma soprattutto è un soggetto politico ibrido, capace di sottrarsi alle classificazioni imposte dal patriarcato, dalla scienza e dal capitalismo. Haraway invita a non cercare più un’essenza femminile, ma a riconoscere che le identità sono composizioni parziali, provvisorie e situate, costruite attraverso relazioni, mediazioni, linguaggi e tecnologie. Il suo femminismo non punta a un ritorno all’autenticità, ma a un esercizio di liberazione epistemologica, imparare a vedere da prospettive multiple, incarnate, non universali.

Rosi Braidotti raccoglie questa eredità e la trasforma in un vero e proprio paradigma politico del postumano. Per lei, il femminismo non finisce con la crisi dell’identità umana tradizionale, ma si rigenera proprio grazie a questa crisi. Il pensiero postumano di Braidotti sposta l’attenzione dal soggetto individuale - autonomo, razionale, maschile - verso una soggettività relazionale e nomade, un soggetto che si costruisce nel movimento, nell’incontro con l’altro, nel riconoscimento della propria interdipendenza.

In questa prospettiva, il femminismo non riguarda solo le donne, ma tutti i corpi e le forme di vita marginalizzate o invisibili, umane e non umane, biologiche e artificiali. È un progetto etico e politico che mira a superare le gerarchie di genere, specie, razza o competenza, su cui si fonda la cultura occidentale. Braidotti parla di “politica della vita” (zoe politics): un modo di intendere la libertà non come separazione, ma come capacità di connettersi, di generare legami vitali.

In entrambi i casi, la soggettività non è più un centro fisso, ma un processo in movimento. Essere liberi, in questo senso, non significa affermare un’identità stabile, ma imparare a muoversi tra differenze, ad attraversare sistemi, linguaggi, tecnologie, mantenendo viva la possibilità del cambiamento.

Come si esercita la libertà quando l’identità non è più un centro ma una connessione? Forse la sfida del femminismo contemporaneo non è difendere i confini, ma imparare a viverci dentro, trasformandoli in spazi di relazione.

4. Etica della relazione

Per Donna Haraway, l’etica non nasce da principi astratti, ma da relazioni concrete. Nel suo pensiero, “essere nel mondo” significa costruire legami, creare alleanze impreviste tra specie, tecnologie e ambienti. In Staying with the Trouble, Haraway propone un verbo insolito: “fare parentela”. Fare parentela non indica un legame di sangue, ma una scelta di coesistenza: un modo per riconoscere che la vita - umana e non umana - è interdipendente e condivisa. Questa è la sua risposta al disincanto e al nichilismo della modernità, non fuggire dal mondo, ma restarci dentro, imparando a prenderci cura delle sue fragilità.

Per Rosi Braidotti, anche il pensiero nasce dalla coabitazione. Nelle sue opere più recenti (Posthuman Knowledge, Posthuman Feminism), l’etica diventa una forza affermativa, una capacità di generare valore e senso a partire dalle relazioni, non dalle opposizioni. Non si tratta di cancellare i conflitti, ma di trasformarli in potenza vitale, di farne occasione di crescita collettiva. La filosofia, per Braidotti, è sempre un esercizio politico, deve servire a immaginare nuove forme di convivenza, capaci di unire ecologia, tecnologia e giustizia sociale.

Entrambe rifiutano l’idea di un soggetto isolato, sovrano e autosufficiente. Haraway lo smonta dall’interno, mostrando che ogni identità è un assemblaggio di umani, macchine e altre specie. Braidotti lo supera in avanti, proponendo un’etica fondata sulla connessione e sulla reciprocità. In un mondo governato da logiche di estrazione, sfruttamento e competizione, il loro pensiero appare radicale proprio perché suggerisce un’altra direzione: pensare insieme, condividere vulnerabilità e potere, praticare la cura come gesto politico.

È possibile una politica della cura che includa macchine, ecosistemi e intelligenze artificiali? Forse è questa la domanda più urgente del nostro tempo: non come sopravvivere alla tecnologia, ma come abitare il mondo in modo più giusto, sensibile e interconnesso.

5. Speranze postumane

Né Donna Haraway né Rosi Braidotti guardano al futuro con sguardo apocalittico. Pur partendo da un’analisi critica della modernità tecnologica, entrambe rifiutano sia il pessimismo catastrofico sia l’ottimismo ingenuo del progresso. Il postumano, nelle loro riflessioni, non è la fine dell’uomo, ma l’inizio di un nuovo modo di abitare la Terra.

Per Haraway, questo significa imparare a “restare con il mondo”: non fuggire dall’incertezza, ma tessere relazioni di sopravvivenza e di cura. Viviamo in un’epoca - dice - in cui le storie umane e non umane si intrecciano a tal punto da non poter più essere separate. Per questo propone l’immagine del Chthulucene, un tempo di coesistenza in cui tutte le forme di vita sono chiamate a collaborare per continuare a esistere. Non c’è redenzione tecnologica, né ritorno alla natura incontaminata, solo la possibilità di restare nel problema, di costruire parentele e significati in mezzo al disordine.

Per Braidotti, la speranza non è un sentimento ingenuo, ma una forza affermativa. È la capacità di produrre senso anche in tempi di crisi, di coltivare forme di vita resilienti e solidali. Nel suo linguaggio, questa speranza prende il nome di “etica della gioia”, un concetto spinoziano che indica la potenza di agire e pensare in comune. Il postumano, così inteso, non rappresenta la scomparsa dell’umano, ma la sua trasformazione in una specie di soggetto planetario, consapevole di essere parte di una rete vitale più ampia.

In entrambi i pensieri, la tecnologia può diventare compagna di viaggio, non nemica né padrona, uno strumento per immaginare nuove forme di solidarietà tra umani, animali, macchine e ambienti. Il loro messaggio converge su un punto essenziale, la sopravvivenza non è solo biologica, ma anche etica e simbolica. Richiede nuove narrazioni, nuovi gesti di cura, nuovi modi di pensare insieme.

“Non esiste un futuro garantito”, scrive Haraway, “ma possiamo imparare a restare con il mondo invece di dominarlo.” E Braidotti risponde: “Non c’è soggetto senza mondo, né mondo senza soggetti che se ne prendano cura.”

Il postumano sarà la fine dell’uomo o l’inizio della sua riconciliazione con il vivente? Forse la vera posta in gioco non è l’identità dell’umano, ma la qualità delle sue relazioni con la vita, con la tecnica, con la Terra.

Il confronto tra Donna Haraway e Rosi Braidotti sul tema del corpo, dell’ibridazione e del postumano rappresenta uno dei momenti più originali del pensiero contemporaneo. Anche se provengono da percorsi diversi - Haraway dalla biologia e storia della scienza, Braidotti dalla filosofia continentale e teoria sociale - entrambe offrono una critica forte ai grandi dualismi su cui si è costruita la cultura occidentale: mente/corpo, natura/cultura, uomo/macchina.

Il punto d’incontro principale tra le due è l’idea che non possiamo più pensare l’essere umano come qualcosa di separato o superiore al resto del mondo. Propongono invece una visione materialista e relazionale: la soggettività non è un’essenza fissa, ma un insieme di connessioni che cambiano nel tempo e nello spazio. Per loro, la conoscenza non è mai neutrale né universale: è sempre situata, legata al punto di vista, al corpo, al contesto. Di conseguenza, anche la politica deve cambiare direzione: non più basata sull’identità (chi siamo), ma sulle affinità e sulle alleanze che possiamo costruire.

Sia Haraway che Braidotti invitano a guardare al futuro in modo coraggioso e costruttivo, senza nostalgia per un passato “puro” o paura del cambiamento tecnologico. Credono che il compito del pensiero oggi non sia difendersi dal mondo, ma imparare a viverci dentro, accettandone la complessità.


Brevi biografie degli autori:

Donna Haraway

Donna Jeanne Haraway (nata il 6 settembre 1944) è filosofa, biologa e teorica femminista statunitense, considerata una figura centrale negli studi sul rapporto tra scienza, tecnologia e soggettività. Laurea in Biologia (Yale, 1972), con tesi che intreccia biologia, filosofia e storia della scienza https://wgss.yale.edu/wgss-welcomes-donna-haraway. È Distinguished Professor Emerita nei dipartimenti History of Consciousness e Feminist Studies presso l’Università della California, Santa Cruz https://pact.egs.edu/biography/donna-haraway/. Tra le sue opere più note ci sono A Cyborg Manifesto (1985) e Staying with the Trouble (2016), che sviluppano una teoria del corpo-tecnologia, dell’ibridazione e della parentela multispecie. Ha ricevuto riconoscimenti prestigiosi, come il J.D. Bernal Prize per la sua intera carriera negli studi sulla scienza e società.

Rosi Braidotti

Rosi Braidotti (nata il 28 settembre 1954) è filosofa italo-australiana, teorica del postumo e figura di punta del femminismo contemporaneo europeo https://en.wikipedia.org/wiki/Rosi_Braidotti. Ha conseguito studi in filosofia all’Australian National University e alla Sorbona (Parigi). Dal 1988 ha insegnato all’Università di Utrecht (Paesi Bassi), dove è Distinguished University Professor Emerita https://www.cccb.org/en/participants/file/rosi-braidotti/221314. Ha fondato il programma di Gender Studies a Utrecht (1988–2005) e il Centre for the Humanities (dirigendolo fino al 2016). Le sue opere più influenti includono The Posthuman (2013), Posthuman Feminism (2022) e una serie di libri su soggettività nomade, etica affermativa e teoria post-umano.

 


POV (point of View) nasce dall’idea di mettere a confronto due autori viventi, provenienti da ambiti diversi - filosofia, tecnologia, arte, politica - che esprimono posizioni divergenti o complementari su un tema specifico legato all’intelligenza artificiale.

Si tratta di autori che ho letto e approfondito, di cui ho caricato i testi in PDF su NotebookLM. A partire da queste fonti ho costruito una scaletta di argomenti e, con l’ausilio di GPT, ho sviluppato un confronto articolato in forma di articolo.

L’obiettivo non è giungere a una sintesi, ma realizzare una messa a fuoco tematica, far emergere i nodi conflittuali, perché è proprio nella differenza delle visioni che nascono nuove domande e strumenti utili a orientare la nostra ricerca di senso.

 

Pubblicato il 13 ottobre 2025

Carlo Augusto Bachschmidt

Carlo Augusto Bachschmidt / Architect | Director | Image-Video Forensic Consultant

carlogenoa@gmail.com