Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione, per le Editions du Seuil, di un libro diventato subito famoso (tanto da essere tradotto in molte lingue, fra cui l’italiano), “Non-lieux” di Marc Augé[1], prematuramente scomparso due anni fa, ancora oggi ricordato soprattutto per essere stato fra i primi antropologi europei ad aver diretto la sua attenzione di studioso verso la contemporaneità della società occidentale, staccando così definitivamente la spina alla tradizione di studi etnografici incentrati sulle culture dei popoli lontani.
«Non si tratta di un’antropologia per difetto», chiariva in quel libro, dato che anche l’etnologia dell’Europa poteva aspirare, sempre secondo lui, «allo stesso grado di sofisticazione, di complessità, di concettualizzazione, propri dell’etnologia delle società lontane»; in ogni caso secondo l’autore, anche «i fatti, le istituzioni, le modalità di raggruppamento (lavoro, tempo libero, residenza), i modi di circolare specifici del mondo contemporaneo sono passibili di uno sguardo antropologico».
Aggiungeva inoltre che l’affermazione secondo la quale gli etnologi tendono a ripiegare sull’Europa (cioè su “casa nostra”) a causa dell’esaurirsi delle realtà antropologiche lontane è contestabile: non solo perché, come lui stesso sottolineava, esistono ancora (o esistevano quanto meno alla fine del secolo scorso) «possibilità di lavoro molto concrete» in Africa, in Asia, in America, tali da giustificare il proseguimento degli studi legati a un’antropologia delle “culture altre”, ma anche perché fare lavoro antropologico sulla nostra società (quindi proporre una “etnologia europeista”) rappresenterebbe sostanzialmente il futuro stesso degli studi antropologici: «non è solo l’Europa a essere in ballo, ma la contemporaneità in quanto tale, negli aspetti più aggressivi o più fastidiosi dell’attualità più attuale».
l’intelligibilità del tempo è assai più complicata della sovrabbondanza di avvenimenti del presente - la concezione degli spazi risulta ancor più complicata dalla sovrabbondanza spaziale del presente
Una interessante osservazione contenuta in quel libro e passata spesso inosservata è poi quella secondo la quale l’etnologia si è per lungo tempo preoccupata di ritagliare, nel mondo degli “spazi significanti”, delle società identificate con culture concepite come “totalità piene”; «universi di senso all’interno dei quali gli individui e i gruppi che ne sono solo un’espressione si definiscono in rapporto agli stessi criteri, agli stessi valori e alle stesse procedure di interpretazione». Tuttavia, sempre secondo Augé, l’intelligibilità del tempo è assai più complicata della sovrabbondanza di avvenimenti del presente, così come la concezione degli spazi appare non solo sovvertita dai numerosi e continui capovolgimenti in corso, ma risulta ancor più complicata dalla sovrabbondanza spaziale del presente, legata chiaramente alla «moltiplicazione dei riferimenti immaginifici e immaginari presenti nelle concentrazioni urbane, nei continui trasferimenti di persone da un luogo all’altro, perfino da una cultura a un’altra», nonché nella moltiplicazione di ciò che per l’appunto Augé definisce “non-luoghi”, in opposizione alla nozione sociologica di “luogo” associata dalla tradizione etnologica a quella della cultura localizzata nel tempo e nello spazio.
Ed eccoci quindi alla determinazione dei “non-luoghi”, che secondo Augé sono sia «le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni – strade a scorrimento veloce, svincoli, aeroporti – quanto i mezzi di trasporto stessi o i grandi centri commerciali o, ancora, i campi profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta». Vivere in un mondo che non abbiamo ancora imparato a osservare diventa così per Augé il nuovo modello di “lavoro sul campo” per una nuova antropologia del presente spazio-temporale (qui e ora): «abbiamo bisogno di re-imparare a pensare lo spazio», era il suo mantra. E «prima di interessarsi alle nuove forma sociali, alle nuove sensibilità o alle nuove istituzioni che possono apparire come caratteristiche della contemporaneità, occorre prestare attenzione ai cambiamenti che hanno interessato le grandi categorie attraverso cui gli uomini pensano la propria identità e le proprie relazioni reciproche».
Trent’anni dopo può acquistare così grande rilevanza ripensare all’evoluzione degli studi antropologici e alle nuove strade che ha preso, anche in Italia, l’antropologia contemporanea, orientata (soprattutto fuori dal mondo accademico) verso obiettivi definiti spesso “applicativi” in una serie di contesti un tempo del tutto estranei: il mondo del lavoro e delle organizzazioni, l’assistenza e la cura delle persone, l’ambiente e il territorio, i contesti urbani e paesaggistici, ecc.; contesti all’interno dei quali possono essere riprese e ampliate, magari ricontestualizzandole, le riflessioni di Augé sui “non-luoghi”, prendendo per esempio a riferimento anche le dinamiche progettuali e gestionali con le quali sono state nel frattempo trasformate le nostre città e i nostri territori, il più delle volte senza seguire alcun criterio progettuale e affidandosi solamente all’anarchia di piani urbanistici appena delineati e talora nemmeno seguiti, spesso in antitesi con le teorie sviluppate dalla scuola di Chicago o collegate anche alle più recenti idee di urbanistica sociale (in Italia si vedano gli studi di Balbo, Indovina, Urbani, ecc.).
Il “disordine” urbano e sociale, in particolare quello delle grandi città, è così diventato terreno di indagine antropologica affiancando il lavoro e gli studi di chi finora si occupava degli spazi sociali all’interno dei contesti urbani; fra le pratiche teoriche e applicative di questa nuova urbanistica poli-scientifica vi è stato a buon diritto anche il contributo professionale che alcuni antropologi (in particolare Hannerz, Wirth, Jacobs; in Italia, fra gli altri, Dei, Signorelli, Alliegro, Broccolini), hanno cercato di dare alla promozione delle azioni di rete per coadiuvare i processi di sostegno alle diverse configurazioni sociali della contemporaneità (famiglie multiculturali o contesti plurietnici), per rimuovere gli ostacoli esistenti nei contesti di marginalità, negli ambiti delle nuove povertà, nelle politiche di sostegno agli anziani e alle minoranze etnico-linguistiche che la politica non sempre è in grado di attivare. Né deve meravigliare che in un siffatto contesto l’antropologo abbia iniziato a occuparsi anche del mondo della moda, intesa non solo nel senso glamour che le viene abitualmente attribuito, ma semplicemente come quel sistema relativo ai diversi tipi di abbigliamento, di acconciature e di foggiatura del corpo dei vari individui; si tratta di un fenomeno che anche nella nostra società ha assunto proporzioni enormi e difformi da gruppo a gruppo anche all’interno di una stessa città (si pensi alle periferie londinesi o parigine, ma anche ai quartieri delle periferie romana o milanese), a riprova dell’importanza attribuita ai significati simbolici che il vestiario o la presentazione del proprio corpo portano con sé, attraverso gli individui, nell’ambito di gruppi e sottogruppi (etnici, religiosi, ma anche sociali ed economici).
Tornando tuttavia ai “non-luoghi”, possiamo affermare lucidamente che la ricerca sociale ci ha sempre insegnato che all’interno di una comunità grande o piccola la rete sociale di un singolo individuo consiste in un insieme definito di attori e del numero delle relazioni che intercorrono fra questi; ogni persona è cioè immersa in una rete di rapporti sociali multidimensionali, connessi fra loro da differenti tipi di legami (parentela, amicizia, sostegno, cooperazione), formando una o più reti di cui essi stessi rappresentano i nodi, e interagisce con il mondo che lo circonda, influenzandolo e restandone influenzato. Ma vi è anche da tenere in conto che la presenza, la consistenza e la struttura della rete di persone su cui l’individuo può contare subiscono inevitabilmente i cambiamenti innescati dalle trasformazioni demografiche e sociali in atto, come peraltro evidenziano in Italia i rapporti annuali dell’ISTAT (in particolare il capitolo dedicato a “La popolazione, le reti e le relazioni sociali”).
Non si può sottacere che la complessità urbana gioca un ruolo fondamentale in questo sistema di reti, e non sempre in senso favorevole all’individuo: più grande, per ampiezza del territorio e/o per numero di residenti, è l’abitato in cui vive l’individuo, e quindi maggiori sono i rapporti potenziali che questi può creare o di cui può essere partecipe, minori sono in concreto quelle reti di relazioni che si producono[2].
Mi piace citare qui ancora una volta le parole di Franco Arminio, poeta, saggista e “paesologo” (secondo la sua stessa definizione)[3], secondo il quale in città, quando ne abbiamo bisogno, ci rechiamo per le nostre varie esigenze al supermercato, in farmacia, in un ufficio pubblico, in banca, in chiesa e così via; in un paese, invece, e in misura ancor più significativa in quelli più piccoli, le persone per le loro esigenze si recano dal macellaio o dal fornaio, dal farmacista o dal parroco, intendendo con ciò che i rapporti sono fra le persone e non fra entità o funzioni. E se hanno un problema con la pubblica amministrazione locale, non inviano raccomandate o PEC, ma vanno dal sindaco o dall’assessore, persone tutte che conoscono perché le incontrano abitualmente per strada, salutandole ogni volta, magari stringendogli la mano e in certi casi chiamandosi per nome e non per titoli. Nei piccoli centri di tutti si sa tutto, nel bene o nel male, ma i luoghi diventano in tal modo spazi sociali e relazionali, quindi reti di “comunità”, pur con i disagi che ovviamente i residenti possono patire nella loro sudditanza ideologica e logistica rispetto alla “città”, che ovviamente è in grado di offrire un ben altro tipo di beni e servizi.
Eppure negli ultimi anni abbiamo visto nascere letteralmente dal nulla (o, meglio, sul nulla) nuovi spazi a scopo commerciale, che hanno modificato in modo strutturale sia il territorio agrario che esisteva prima della loro nascita, sia i rapporti fra città, paesi e campagne. Se un tempo chi abitava nei piccoli centri si recava nella città vicina per gli acquisti più importanti, adesso ci si muove anche dalle grandi città per visitare queste autentiche “cattedrali nel deserto”, questi insiemi di negozi concentrati in spazi creati apposta per concentrare le persone in un luogo fittizio e renderle così semplici consumatori, massificandone semmai i desideri e quindi gli acquisti, dato che un po’ tutti sono spinti a desiderare i prodotti dei marchi più noti e blasonati offerti in queste location magari con sconti fittizi e campagne promozionali ad hoc (“sconto outlet”). Ed ecco quindi sorgere come funghi sia grandi centri commerciali eterogenei al di là delle periferie cittadine ancora non raggiunte da nuove costruzioni, ma soprattutto gli “outlet village”, nel cuore del nulla topografico, con l’illusione di una nuova inurbazione (sicuramente non spontanea), dove ci si reca ammaliati dal lusso che diventa apparentemente acquistabile da tutti.
Si tratta, in questi casi, più che mai di “non-luoghi”, così come definiti di Augé, spazi incentrati solamente su un presente labile e momentaneo; si tratta di spazi “pubblici” ma caratterizzati dalla precarietà, dalla provvisorietà, dal semplice passaggio o transito delle persone, invogliate spesso a raggiungerli con bus-navetta dalle città vicine, ma comunque luoghi legati all’individualismo e alla tacita e inevitabile solitudine esistenziale, nonostante siano fisicamente spazi collettivi, perché in genere manca loro proprio la potenzialità di trasformarsi in spazi sociali, in agorà. Le persone, sostanzialmente, “transitano” in questi spazi appositamente allestiti, ma nessuno li abita, perché sono spazi di confine in cui varie individualità, talora migliaia nello stesso momento, si incrociano senza entrare in relazione; manca loro la caratteristica dei “luoghi antropologici”, sempre secondo la definizione di Augé, spazi che hanno invece in sé la prerogativa di essere identitari, relazionali e storici.
Ovviamente può accadere che i “luoghi” e i “non luoghi” possano essere fortemente legati fra loro e per questo spesso è difficile distinguerli, anche per il fatto che raramente esistono in “forma pura”: accadeva in passato e accade sempre più ai nostri giorni, dato che la tendenza è sempre più quella di non contrapporli gli uni agli altri, di non evidenziarli semplicemente come l’uno l’opposto dell’altro, magari perché fra di essi vi è (o si va formando) tutta una serie di sfumature e, appunto, di interrelazioni. Ciò che continua a distinguerli, semmai, è il fatto che l’individuo nel “non-luogo” perde tutte le sue caratteristiche e i ruoli personali per continuare a esistere solo ed esclusivamente come numero, come cliente, come fruitore, spesso come semplice “consumatore”, di fatto come unità di una moltitudine di entità anonime, senza la possibilità di identificarsi come una persona riconoscibile, appartenente a un determinato gruppo sociale, come siamo abituati a essere nei luoghi antropologici, ma come un personaggio che è chiamato solo a recitare una parte di una trama di falsa socialità che implica solo il rispetto di regole e di norme sociali, senza tuttavia autentiche interrelazioni personali.
Eppure, tutto muta col tempo e può quindi accadere che perfino questi grandi centri commerciali che con i loro marchi del lusso attirano i consumatori come sirene, “non-luoghi” per eccellenza, pian piano inizino a trasformarsi in luoghi di socialità, quanto meno per una parte dei propri fruitori o al limite per la loro percezione. Ma accade ancor più facilmente che siano i centri commerciali delle nostre periferie urbane a trasformarsi soprattutto per i giovani in luoghi di riferimento, di appuntamento, di stazionamento, perdendo in parte o del tutto la loro funzione primaria (commerciale) e mutuando la funzione di una piazza più o meno virtuale: ci si va proprio per stare in compagnia, per “passare il tempo”, per condividerlo con chi si conosce e magari per fare nuove amicizie e tessere nuovi rapporti. In questo caso quel “non-luogo”, nato solo con la funzione di accentrare spazi espositivi e commerciali in un’ottica di massificazione dei consumi, insomma quel nuovo spazio tendenzialmente votato a una forma di “socialità dei consumi” e altrimenti vuoto (dato che prima della sua trasformazione non costituiva nulla, non “era” nulla), si reinventa come un luogo in cui la gente trova nuove dimensioni di vita sociale, si trasforma in una nuova “piazza” dove fare struscio[4], pur in una fase di evidente crisi dei legami collettivi (o forse proprio per questa ragione). Che questo avvenga per una crisi dei valori sociali delle persone non è forse nemmeno rilevante; semmai ci si può interrogare sulla mancanza di orizzonti e di finalità comuni fra le popolazioni insediate in quei territori polimorfi che sono già oggi le grandi città, le cui amministrazioni sono state spesso incapaci di trasformare i vari quartieri, soprattutto quelli periferici, in altrettante “piazze” di socialità per i relativi residenti, tanto da avere necessità di creare dal nulla nuovi spazi in cui proporre alla collettività l’esercizio di rinnovate forme di socialità condivisa.
D’altronde, anche secondo Michel de Certeau in questi casi è meglio parlare di “luoghi praticati”, in quanto «incroci di “mobilità”»[5]: a definirli così vi è la logica dell’appropriazione di quegli spazi e della loro trasformazione sociale, perfino simbolica: se una volta potevano essere l’oratorio della chiesa o la sala di un cinema a creare occasioni di socialità, soprattutto fra i più giovani, adesso basta un centro commerciale in cui si va non più con lo scopo di fare acquisti, ma di trascorrervi il proprio tempo allontanando nel contempo la propria pesante solitudine esistenziale. In tal modo quel nuovo spazio, pur con i suoi limiti geometrici e contenutistici, si trasforma in un nuovo “luogo esistenziale”, in una nuova oasi potenziale di vita sociale; da piazza virtuale (ma al contempo reale) dello shopping diventa simbolicamente una piazza sociale (e reale) di un nuovo urbanesimo collettivo basato su relazioni che non sono solamente virtuali ma almeno potenzialmente fisiche e corporee, anche se spesso vediamo gruppi di adolescenti percorrere i “viali” di questi “luoghi/non-luoghi” avendo lo sguardo rivolto desolatamente agli schermi dei propri smartphone, incapaci quindi di abbandonare del tutto le piazze virtuali dei loro profili e dei loro canali social.
Capita quindi che nella realtà odierna, proprio come aveva intuito Augé, i luoghi e gli spazi, i “luoghi” e i “non-luoghi”, si vadano a incastrare e a sovrapporsi, in un certo qual modo compenetrandosi a vicenda almeno nella percezione razionale (e soprattutto in quella inconscia) delle varie persone. Dipende semmai da chi li frequenta; dipende da come sono vissuti e perfino da come alla fine sono stati realizzati, proprio come accade con quelle infrastrutture che evocano gli spazi storici del territorio pur essendo state progettate sul nulla e dal nulla: è il caso di molti (o forse della totalità?) degli “outlet-village” di cui abbiamo parlato, edificati su terreni abbandonati o poco coltivati in molti casi lontani da insediamenti abitati, ma tuttavia a brevissima distanza da uno svincolo autostradale, dove la suggestione di trovarsi fra le strade e le piazze del borgo vicino forniscono una nuova dimensione al desiderio inconscio di trovarsi in spazi noti e sicuri: da quello di Serravalle, vicino ad Alessandria e a metà strada fra Genova e Milano, caratterizzato dalla ricostruzione di architetture in stile ligure, a quello di Fidenza, con gli stilemi delle sue quinte verdiane mischiate alle caratteristiche cascine della bassa padana, da quello di Barberino del Mugello, che rievoca un borgo rinascimentale toscano attraversato dal fiume Sieve, a quello di Dittaino, con gli edifici che sembrano il set cinematografico di un film ambientato in uno dei borghi della Sicilia agraria del passato.
All’interno di queste dinamiche fra “luoghi” e “non luoghi”, come definiti e immaginati da Augé e dai tanti altri studiosi che ne hanno seguito le orme, possiamo semmai continuare a sperare che le masse sociali non rimangano sempre più schiacciate sotto il peso della funzione, loro attribuita dal “mercato”, di meri consumatori e che i centri abitati, e in particolare le grandi città, siano ancora in grado di fornire in futuro spazi sociali “reali”, capaci di alimentare con la loro linfa esistenziale e la storicità dei relativi luoghi la vita reale e le relazioni reali fra le persone.
Note
[1] L’edizione italiana, “Nonluoghi” (senza il trattino in mezzo), è stata pubblicata nello stesso anno da Elèuthera.
[2] Cfr. sull’argomento il mio articolo “Riflessioni di un antropologo sul concetto di città” pubblicato su “Etnie” a febbraio 2025; per un approfondimento di queste tematiche rimando anche al mio libro “La città dell’uomo” – Palermo, 2024.
[3] Cfr. in particolare: “Geografia commossa dell'Italia interna” – Milano, 2013.
[4] Il termine “struscio”, soprattutto nel sud d’Italia, si riferisce all’abitudine (soprattutto domenicale) di passeggiare per la strada principale di una città o di un paese (il “corso”) senza peraltro uno scopo preciso, ma il più delle volte con l’obiettivo di vedere altre persone, fermandosi magari a chiacchierare con loro, o anche con l’obiettivo di conoscerne di nuove.
[5] “L’invenzione del quotidiano” – Parigi, 1990; trad. it. Roma, 2001.