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Forse è questo che significa essere umani: non soltanto risolvere problemi, ma vivere tra di essi, crearli, riformularli e trasmetterli.

Ogni generazione eredita domande che non ha inventato. Le accettiamo come dati di fatto, come se fossero parte del paesaggio: l’ordine matematico della natura, le regole dell’architettura, la ricerca della giustizia.


Mi piace risolvere problemi, puzzle e misteri. Recentemente mi è stato consigliato un libro “Apollo Root Cause Analysis” di Dean L. Gano. È una lettura affascinante. In poche parole, spiega che, per comprendere davvero un problema, bisogna conoscere almeno due cose: la causa dell’evento e la condizione che l’ha resa possibile. È un metodo eccellente e mi è stato molto utile nel mio lavoro. È pratico, concreto e preciso, esattamente ciò che un ingegnere si aspetterebbe da un libro sulle cause e sulle condizioni.

Eppure ciò che mi ha colpito di più è stato il sottotitolo: “A New Way of Thinking.” Questa frase mi ha fatto riflettere. Come se quel “nuovo modo di pensare” coprisse l’intero paesaggio dei problemi. Ma sicuramente non tutti i problemi sono dello stesso tipo.

In Apollo l’attenzione è rivolta ai problemi basati sugli eventi (event-based), quelli che sorgono quando interagiamo con l’ambiente e qualcosa non si comporta come previsto: un componente si guasta, un processo si interrompe, avviene un incidente. Sono problemi di causa ed effetto.

Tipi di problemi

Quando ho iniziato a pensare agli altri tipi di problemi che esistono, mi sono reso conto di quanto siano diversi e di come ciascuna categoria riveli un diverso modo di pensare.

I primi sono i problemi basati sugli eventi descritti in “Apollo Root Cause Analysis”.

Appartengono al mondo della fisica, delle macchine e delle cause misurabili. Qualcosa accade – un incidente, un guasto, un malfunzionamento – e possiamo risalire alle condizioni che lo hanno reso possibile. Sono problemi che, in linea di principio, possono essere risolti. Appartengono al regno del controllo.

Poi ci sono i puzzle.

Un puzzle nasconde delle informazioni; la sfida è scoprire i pezzi mancanti. Se si raccolgono abbastanza dati, si può risolvere. Il problema è finito, la risposta esiste, anche se momentaneamente fuori portata.

I misteri, come scrive Malcolm Gladwell, sono diversi.

Non soffrono di una mancanza di dati, ma di un eccesso di dati. La difficoltà sta nell’interpretazione, nel decidere cosa è importante e cosa non lo è. I misteri appartengono alle agenzie di intelligence, agli storici, agli strateghi, a chi deve dare senso a una quantità eccessiva di informazioni.

Vengono poi wicked problems, un termine introdotto da Horst Rittel e Melvin Webber.

Wicked problems non hanno una formulazione definitiva né una soluzione finale. Ogni tentativo di risolverli trasforma il problema stesso. Non possono essere “risolti”, ma solo negoziati, migliorati o talvolta trascurati. Questo è il regno della scienza della complessità.

E infine, al di là del risolvibile e dell’irrisolvibile, incontriamo i problemi inventati.

Problemi inventati

Esiste infatti un tipo di problema che trovo il più interessante di tutti: il problema inventato.

Il nome può sembrare paradossale, come se tali problemi non fossero “reali”.

Ma per me è esattamente il contrario. I problemi inventati sono i veri problemi. Non sono imposti dalle circostanze. Appaiono come dal nulla, come ispirazione, rivelazione o curiosità. Non decidiamo di inventarli; piuttosto, sono loro che ci chiedono di essere pensati: Che cos’è la giustizia? Il mondo può essere compreso attraverso i numeri? Come dobbiamo costruire perché la forma diventi ordine?

Quando Pitagora cercò di comprendere la natura attraverso la matematica, forse fu la natura o Dio a parlare per primo. L’idea certamente sembrava folle. Perché mai dovrebbe essere così? Perché i numeri dovrebbero mappare il mondo?

Quando un architetto dell’antichità cercava le proporzioni giuste, l’impulso poteva venire dai materiali stessi o da una visione di armonia.

Non possiamo conoscere con certezza la fonte. Ciò che conta è la risposta, il riconoscere un’ispirazione come un problema degno di essere perseguito.

Forse è questo che Deleuze intendeva quando diceva che risolvere un problema significa semplicemente ripeterlo, mentre inventarne uno è un atto di creazione. Inventare un problema significa ascoltare qualcosa che chiede di essere compreso e dargli forma nel pensiero.

L’origine dimenticata

Quando guardiamo ai nostri problemi più antichi, notiamo qualcosa di umiliante: non appartengono a noi.

L’idea che il mondo possa essere compreso attraverso la matematica, che i numeri possano descrivere i movimenti dei cieli, è apparsa millenni fa.

L’idea che gli edifici debbano seguire una regola, un rapporto tra parte e tutto, risale anch’essa ai tempi antichi.

La domanda su cosa sia la giustizia ci accompagna da quando abbiamo iniziato a vivere insieme.

Questi problemi sono ancora con noi. Continuiamo a lavorarci, a riformularli, a cercare risposte migliori, ma la loro origine sfugge al nostro controllo. A un certo punto della storia, qualcuno ha udito una domanda che prima non esisteva. Che sia venuta dalla natura, dagli dèi o dalle profondità del pensiero, non possiamo saperlo. Ma ha parlato, e l’umanità le risponde da allora.

Spesso dimentichiamo che questi problemi furono ispirati prima di essere definiti.

Per quanto si voglia pensare del cristianesimo, credo si possa dire che Gesù fu ispirato e che Paolo fu il primo a definire in modo convincente il problema che il cristianesimo cercava di affrontare.

Ed è questo il destino dei problemi inventati: bisogna convincere gli altri che il problema da cui siamo stati ispirati merita di essere perseguito. Non sono il risultato dell’analisi o del progetto.

Sono apparsi come un invito, come qualcosa che ci chiamava a pensare.

Quando i Greci dicevano che un’idea veniva dagli dèi, davano a questo mistero un nome: ispirazione.

Se ricordassimo questo, forse temeremmo meno la tecnologia.

Perché l’intelligenza artificiale può elaborare dati, ottimizzare soluzioni e persino imitare la creatività, ma non può udire la chiamata di un nuovo problema. Non può essere ispirata.

Alcuni altri problemi inventati lo chiariscono ancora meglio: per esempio, il problema posto da Luca Pacioli sulla proporzione perfetta (Divina Proportione).

La tecnologia può aiutarci a perseguire i problemi che abbiamo già inventato, ma non può inventarne di nuovi. E come scrisse Foucault a proposito dell’architettura, dovremmo incorporare la tecnologia solo fino al punto in cui alimenta l’indagine, mai oltre.

Lo scopo non è automatizzare le risposte, ma mantenere viva la capacità di essere toccati da una domanda la cui origine non comprendiamo.

La conversazione umana

Forse è questo che significa essere umani: non soltanto risolvere problemi, ma vivere tra di essi, crearli, riformularli e trasmetterli.

Ogni generazione eredita domande che non ha inventato. Le accettiamo come dati di fatto, come se fossero parte del paesaggio: l’ordine matematico della natura, le regole dell’architettura, la ricerca della giustizia.

Eppure ognuna di esse è stata, all’inizio, un’invenzione, una scintilla di curiosità apparsa nella mente di qualcuno e condivisa con gli altri. Col tempo abbiamo dimenticato il momento della loro nascita. Abbiamo costruito intorno a esse istituzioni, teorie, professioni e oggi persino algoritmi che ci aiutano a lavorare alle loro soluzioni.

Ma l’invenzione non è finita. Aspetta solo il prossimo momento d’ascolto, la prossima persona sensibile capace di formulare un nuovo problema degno di essere perseguito da una massa critica di individui.

L’intelligenza artificiale può assisterci, ampliare le nostre capacità, illuminare schemi nascosti. Ma non sostituirà mai l’atto di udire un problema che non è ancora stato posto.

Questo rimane il nostro compito, il lavoro dell’immaginazione, della meraviglia, dell’ispirazione.

E forse questa è la forma più duratura di intelligenza: percepire, come facevano gli antichi, che un nuovo problema è un dono, qualcosa che arriva da una fonte che non possiamo nominare, ma che, una volta udita, non può più essere ignorata.

Non dovremmo però dimenticare che alcune idee inventate sono ispirate da una cattiva fonte. L’idea di costruire qualcosa che imiti l’intelligenza umana potrebbe rientrare in questa categoria.


Pubblicato il 13 ottobre 2025

Sebastian Komarnicki

Sebastian Komarnicki / La metrologia e le statistiche ci aiutano a vedere cose - piccole e grandi - che non possiamo vedere in nessun altro modo.

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