Go down

"Siamo oltre sette miliardi ma sempre più soli. Le tecnologie mobili e sociali e le applicazioni di social networking hanno moltiplicato i contatti tra le persone ma non sono ancora riuscite a sostituire la potenza di uno sguardo, la valenza di un gesto, il contatto faccia a faccia e le molte emozioni scatenate dai sensi e dagli affetti. Avvertiamo tutti le potenzialità delle nuove tecnologie ma anche il rischio di maggiore isolamento, del senso di solitudine e di nuove angosce. Argomenti affascinanti ma anche pieni di ambiguità che sollecitano riflessioni approfondite e producono opinioni antitetiche da analizzare." (Carlo Mazzucchelli, nel suo libro La solitudine del social netwroker). Il testo che segue fornisce spinti per una riflessione sulla solitudine e non solo del social networker


All’inizio devo dire che promesse e premesse sembravano interessanti. Era il 2007 quando durante un viaggio in Sudafrica una guida local mi parlò per la prima volta di Facebook.

“Figo” pensai. Così tornato in Italia mi iscrissi, senza trovare praticamente nessuna conoscenza o contenuto interessante. Ma allora i “contenuti” non erano importanti. No meme, no foto del tuo piatto, pochi selfie. La promessa di Facebook, e dei pochi social network in generale, allora era quella di permettere a chiunque di rimanere regolarmente aggiornato anche sulla vita di persone che si sarebbero altrimenti perse di vista, all’interno di enormi piattaforme utilizzate da un numero sempre crescente di persone. Però allora in Italia non c’era nessuno che conoscessi, evidentemente riuscivamo a restare in contatto comunque, e così mi "disiscrissi" rapidamente. Poi quando Facebook divenne hype, ci feci capolino di nuovo, e la promessa si era arricchita, con l’arrivo di autori e media tradizionali sulla piattaforma, e si era evoluta in “con Facebook puoi restare sempre aggiornato”. Mah, io avevo un’altra idea di “restare aggiornato”, le foto di cibo, gatti e tramonti mi hanno stancato in fretta, il restare in contatto lo potevo fare meglio in altri modi, quindi sai che c’è? Addio Facebook. Così per anni mi sono beccato del boomer perché non avevo Facebook da gente che oggi per un curioso contrappasso si becca del boomer perché su Facebook ci rimane.

questi network si meritano ancora l’aggettivo "social”? 

Comunque, a parte il mio caso particolare, per circa un decennio Facebook è stato l’emblema di ciò che la maggior parte degli utenti sembravano volere da internet, ovvero uno spazio su cui condividere in modo più o meno sincero e disinteressato pensieri, esperienze ed emozioni con una rete di persone. La maggior parte di loro erano amici e parenti, o almeno conoscenti o amici di conoscenti. Certo, si seguivano anche le pagine di artisti, politici e altri personaggi pubblici, e poteva anche capitare di diventare a propria volta personaggi piuttosto seguiti per le proprie opinioni. Ma il focus era restare in contatto, connessi prima che questo verbo diventasse la sua nemesi. Questi erano social network, e il nome stesso sottolineava la loro vocazione.

Ora possiamo chiederci, e ovviamente la domanda è retorica, ma questi network si meritano ancora l’aggettivo "social”? 

Come sottolineano diversi analisti, tra cui il sopracittato Charlie Warzel

“i social media stanno morendo solo se li definisci come feed pubblici pieni di cose pubblicate dai tuoi amici. Perché quelli, effettivamente, sembrano in via d’estinzione, in parte soppiantati dai feed curati dagli algoritmi”

L’articolo è del 2021 e possiamo già aggiornare la riflessione del buon Charlie, non “sembrano in via di estinzione” sono proprio estinti. La differenza non è da poco, la tua comunità non è più il principale selettore dei contenuti che ti interessano. Ci pensa un opaco algoritmo che si basa sui tuoi interessi si, ma non solo. È una differenza non da poco.

Le piattaforme hanno fatto nascere folle di creatori di contenuti e moltitudini di utenti passivi e ineterssati solo a consumare

Oltre alla comparsa degli algoritmi, poi un altro fenomeno ha cambiato radicalmente la modalità di uso ed è l’ascesa delle piattaforme colme di contenuti generati da creator, che vengono però consumati dalla maggior parte degli utenti in modo passivo, come se fossero Netflix o la vecchia, se qualcuno la ricorda ancora, televisione. In questa categoria rientrano TikTok, Twitch e YouTube, su cui di fatto non fai nulla, se non distribuire like e scrollare.

Questa teoria è sostenuta dai dati: su TikTok, che da tempo si definisce una piattaforma di intrattenimento e non un social network, il 76 per cento degli utenti non crea video, ma si limita a consumarli da spettatore. Su Twitch, si stima che per ogni “streamer” – ovvero gli utenti che usano la piattaforma per fare video in diretta – ci siano 28 spettatori passivi.

Altro che social, spettatori passivi di contenuti sempre più professionali o wannabe professionali. E il restare in contatto? e gli amici? e i contenuti (non i content, per quelli basta un balletto in costume)? La realtà che è che l’unica connessione che conta è quella alla piattaforma, e infatti gli ultimi dati WeAreSocial sottolineano come gli italiani restino connessi 349 minuti al giorno. Mi spiego meglio: 5 ore e 49 minuti. Che sottratto il tempo per mangiare e dormire - facciamo 8 ore a stare bassi? - rappresentano il 34% del tempo di veglia. TRENTAQUATTRO PER CENTO. Tempo di fatto in cui siamo soli con il nostro monitor, credendo di essere connessi. E se non siamo nella categoria degli scrollatori solo passivi, stiamo nella produzione compulsiva di contenuti acchiappalike, in preda all’ansia performativa di vedere quanto ci leggono e quanto piacciamo, a sconosciuti soli come noi.

E quando alziamo la testa, ci troviamo in città in cui sono spariti gli spazi di aggregazione e comunità, per fare spazio a luoghi di consumo, in cui persino la compagnia diventata una merce. 

l'economia digitale fattasi ideologia, religione, prospera sulla solitudine

Dobbiamo ammetterlo, la solitudine è l'ultimo prodotto sul quale l'occidente sia ancora competitivo. Prodotto si, perché l'economia digitale e la nuova religione provocano solitudine, è vero, ma non basta loro: prosperano nella solitudine. Disgregare e vendere. Non guardiamo ossessivamente le app soltanto perché siamo intossicati di dopamina, guardiamo ossessivamente le app perché ci hanno chiuso dentro le nostre relazioni, i nostri progetti, i nostri (consumistici) sogni. E ci hanno convinto che senza saremo ancora più soli, fuori dal mondo. Quando invece limitarli ci riporterebbe dentro. E allora prosperano i tour operator di viaggi di gruppo, anche per la gita al Sacromonte, dove siamo disposti a pagare il doppio almeno di quello che il viaggio vale per la promessa di non essere soli. Spopolano i podcast, il prodotto perfetto per accompagnarci in tutti i nostri silenzi, nelle cose che non dovremmo mai fare da soli, il bucato o la cena, e allora ascoltiamo degli sconosciuti che parlano, parlano, parlano, e ci danno la gratificazione di sentirci informati. E soprattutto non siamo soli, qualcuno parla con noi, parla per noi…e questa è una bella carezza. Noi invece non parliamo mai. Al massimo commentiamo. E poi spopolano gli eventi, le città sono eventifici continui che offrono surrogati all’aggregazione spontanea, all’incontrarsi solo per il piacere di farlo, che non sappiamo più cosa sia. Anzi, sai che noia. Allora in processione alle week di sta ceppa, su ogni cosa, in fila a eventi imperdibili, in cui casualmente c’è sempre qualcosa da spendere o da comprare. Vagonate di inutili eventi che hanno divorato lo spazio pubblico, in ogni mese, settimana e giorno: perché riusciamo a stare con gli altri solo ci danno delle istruzioni precise per farlo, un posto a sedere, un compito e una scusa. Le vecchie feste con gli amici? le cene conviviali? C’è una app anche per questo! Diverse App! Che seguiranno la stessa triste parabola delle app di dating. Ci hanno convinti che non possiamo stare soli nemmeno un secondo, quando invece sapere stare soli con noi stessi è il presupposto per stare in relazione autentica con l’altro.

La promessa della felicità è diventata un prodotto, che ovviamente non può adempiere alla promessa. 

Non esiste surrogato alla socialità, alla convivialità, allo stare insieme. Ci si stanca di incontrare sconosciuti malati della nostra stessa solitudine, vittime come noi dell’analfabetismo emotivo e relazionale che è la cifra di questi tempi.

La promessa della felicità è diventata un prodotto, che ovviamente non può adempiere alla promessa. Allora la premessa perché questo prodotto sia vendibile è disgregare, separare, restare soli. E su questa solitudine di può costruire un mercato, figlio di un’ingegneria sociale costruita sulla difficoltà di trovarsi altrimenti, di chiedere un favore, di rivolgere la parola agli sconosciuti, di stare nel mondo o a una festa.

Il capitalismo della solitudine ha una sola condizione per continuare a prosperare, la solitudine stessa e la bugia che questo sia l’unico mondo possibile. Visto che ormai siamo soli e divisi è difficile pensare a forme di rivoluzione collettive, ma possiamo essere sovversivi individualmente, semplicemente tornando in relazione.

Rivolgiamo una parola agli sconosciuti, parliamo con il vicino sul treno, invitiamo un amico a una passeggiata anche se non c’è un evento super cool, anche se non c’è nulla da instagrammare. Ma cosa instagrammiamo a fare mi chiedo. Non abbiamo paura a essere cringe, che peraltro non dovrebbe significare nulla che abbia senso per chi ha superato l’adolescenza. A me pare che quelli che giudichiamo cringe, si divertano un botto, siamo noi gli sfigati, a giudicare e a stare composti e fotogenici.

Oggi ogni forma di relazione, vera, autentica, non gli amichetti usa e getta dei social, è una forma di sovversione. Cominciamo a ribellarci cazzo.

Tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri. - Cesare Pavese

 

StultiferaBiblio

Pubblicato il 13 giugno 2025

Fabio Salvi

Fabio Salvi / Team Lead People Partner Europe South presso FlixBus

fabiosal77@gmail.com