In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli ha condotto con Giuseppe Goisis (1944-2023): già ordinario di Filosofia politica a Ca’ Foscari-Venezia, è impegnato sul versante dei Diritti, collaborando con il Centro. Studi Diritti dell’uomo (CESTUDIR). È autore di monografie su temi e figure del pensiero politico: Sorel e i soreliani (1983), Mounier e il labirinto personalista (1988), Eiréne (2000), Il pensiero politico di Rosmini (2010), ommaso Moro (2015), Hitler e il nazismo (2016), Tommaso Moro-Antologia (2017), Speranza Edizioni Messaggero (2020), Dioniso e l'ebbrezza della modernità. Sei saggi su politica e società Edizioni Mimesis (2016). Per la rivista “Etica per le professioni” ha scritto il contributo: Postverità e fake news. Ha curato I volti moderni di Gesù (2013); infine ha pubblicato il saggio Una guerra lungamente attesa, in Nati per morire (2015).
Buongiorno Professore, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo?
La mia esistenza, a partire dai primi anni della maturità, è stata permeata da ciò che si chiama filosofia, intendendo con tale termine/concetto l’amore appassionato, e in qualche modo esclusivo, per un sapere che esplori i significati del mondo e della vita interumana; si tratta di una ricerca, senza interruzione e a quanto sembra senza fine, tale da illuminare ogni angolo della vita quotidiana: non dà consolazione, né premi particolari, se non il gusto di comprendere e di comunicare i risultati intravisti, discutendoli, scambiandoli e a volte donandoli agli altri.
Certo, non basta amare il sapere; qualche volta mi dico che occorrerebbe, in tale amore, venir ricambiati: intendo alludere al fatto che serve una certa predisposizione, osservativa e logica, per poter sistemare gli esiti intuitivi della ricerca in un quadro ordinato, e non sono proprio sicuro di possedere tali buone predisposizioni. Inoltre, per essere davvero filosofi, in un senso critico e non retorico, occorre vivere una vita decentemente coerente, connessa, almeno in parte, con il progredire della ricerca che si è intrapresa; ora non sono sempre certo che tale correlazione sia sicura: esercitando quotidianamente il dubbio su tutto ciò che appare scontato e senza problemi, talora scorgo lucidamente la difficoltà di dubitare di tutto e, in primis, la debolezza che un atteggiamento compiutamente problematico arreca nell’esercizio della vita pratica e nei confronti di una moltitudine di persone che affronta i problemi minuti dell’esistenza con uno slancio irriflessivo, ma tale, per la sua originaria gagliardia, da superare ogni ostacolo e da condurre a qualche successo, anche se magari più apparente che sostanziale…
Per vivere la filosofia conviene dunque condurre un certo tipo di esistenza; e tutto trova la sua radice in un “filosofare assieme” che è proprio dei pensatori “classici” latini e greci, ma anche dei “moderni”, giungendo fino alla contemporaneità; perché è necessario pensare assieme, riflettere e discutere in maniera condivisa, facendo parte anche agli altri dei propri “guadagni” speculativi, di quelle che paiono, e a volte sono, delle genuine conquiste intellettuali?
Occorre partire, consapevolmente, dalla situazione di noi umani entro il mondo: una condizione antropologica di “intersoggettività”, per la quale noi stiamo saldi assieme, o cadiamo assieme. In senso proprio, noi dialoghiamo, anzi siamo un colloquio, e non c’è modo migliore per poterci autodefinire, anche se l’espressione “siamo un colloquio” può sembrare ardita. Rammentando l’antica sapienza orientale, “siamo tutti come perle unite da un unico filo”[1]; perle preziose, tutte differenti ma similissime nella loro vertiginosa sequenza; se il filo si spezza, diviene difficile ricostituire il legame perduto, essendo quel vincolo altrettanto prezioso delle perle che annoda.
Permettete un accenno a questi mesi, nei quali il mondo intero vive in un clima di sventura, d’incertezza e smarrimento; amaramente, l’umanità occidentale, che pareva condividere una temperie illusoria di autosufficienza e di corsa in avanti senza limiti, ha esperito la sua vulnerabilità e la sua fragilità; si sono manifestate quelle contraddizioni, quegli squilibri e anche quelle drammatiche ingiustizie che giacevano latenti dietro la cornice di una globalizzazione galoppante, procedente come una locomotiva, lanciata a grande velocità.
Ora, da parte di economisti e sociologi in particolare, ci si domanda se la stessa globalizzazione non sia in forse: se proseguirà così come si era disegnata all’inizio, se rallenterà e poi, in termini più radicali, se sia un fenomeno così desiderabile, in tutti gli aspetti, o se sia contestabile nel suo scorrere rapido e tale da avanzare come una ruspa, capace di far scaturire il nuovo, ma facendolo emergere da tante macerie, da tanti universi prima distrutti e poi spazzati via.
Più vado indietro con la memoria, più mi vedo impigliato negli stessi problemi che mi travagliano oggi; fin dagli anni successivi al 1968, mi ricordo alle prese con il degrado della Natura, che già avanzava senza che molti se ne accorgessero; e poi mi sono occupato, interessato vitalmente ai problemi della politica e dell’educazione politica.
Accademici, fate un po’ di silenzio nelle vostre aule, lasciate entrare la vita.
Senza troppi “padrini”, con quasi nessun appoggio, ho fatto il mio cammino universitario, cercando negli studi quel che di bene mi pareva possibile trarre: delle buone biblioteche, per nutrire la mente, delle tipografie precise e rapide, dei colleghi, più che dei “maestri”, da cui attingere spunti di metodo e contenuto, senza troppo sgomitare, cercando di coltivare la mente, piuttosto che di forzare i tempi del cursus accademico.
Per me, è stata decisiva la critica alla filosofia delle Università di Schopenhauer, di Nietzsche e Péguy, e ho cercato di vivere in questa difficile condizione: nell’Accademia, lasciando cadere gli aspetti vuoti, o falsi, dell’accademismo.
Divenuto docente ordinario di Filosofia politica, non ho chiesto altro che la possibilità di un insegnamento libero e responsabile, con la passione educativa che mi ha sempre sostenuto.
Con i settant’anni, con la pensione, ho cercato di non immalinconirmi, rimpiangendo il passato, ma di dedicarmi ad una dimensione nuova, ad esperienze di buona divulgazione, collaborando con l’Università del volontariato di Treviso, con il Centro per i Diritti dell’uomo, con l’Università della Terza Età di Venezia e con l’Università popolare di Mestre.
Non ho smesso di scrivere e, in genere, di comunicare, ma con una forma nuova, più semplice e immediata, più diretta e personale e ho scoperto un poco alla volta possibilità d’interlocuzione e di ascolto, cogliendo meglio la fitta trama del mondo che le aule universitarie adombrano, piuttosto che rivelare.
Accademici, fate un po’ di silenzio nelle vostre aule, lasciate entrare la vita.
Secondo il filosofo pop del momento, Slavoj Žižek, viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly nel suo libro Cosa vuole la tecnologia) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone?
Occorrerebbe, prima di tutto, soffermarci sulla natura dei messaggi espressi dai cosiddetti “filosofi pop” e sulla loro validità; il contesto di riferimento: le considerazioni che ho accennato sopra sul rapporto tra “Accademia” ed “accademismo”. In generale, S. Žižek e M. Onfray, considerati i corifei più rappresentativi di tale fenomeno di raggio mondiale, esprimono un’esigenza di apertura, la conquista di nuove vie di accesso, per arrivare alle menti di noi contemporanei (per es, Onfray sceglie, come palcoscenico, le grandi piazze, arringa le folle come un comiziante d’altri tempi, mentre alcuni esponenti della filosofia pop scelgono la Rete, gli spazi culturali dei rotocalchi etc.).
Ma alle tematiche presentate con vigore, talora urlate, non sempre si accompagna un’attenzione parallela alle questioni di metodo e il rigore dei loro assunti è presente, spesso, in maniera evanescente.
Ora, alcuni di essi assumono nel loro discorso temi escatologici, da “fine dei tempi”: sono tratti dalle tradizioni religiose, di cui rimangono talora le macerie, macerie tuttavia spogliabili e depredabili a piacimento. Anche il marxismo, soprattutto nelle interpretazioni più liriche ed entusiastiche e nella precomprensione popolare, conteneva un messaggio escatologico: la “società senza classi”, dunque il “salto” dal regno dell’ingiustizia a quello della giustizia pienamente realizzata, dal regno della necessità a quello della libertà. In breve, vien facile ad alcuni di questi pensatori affermare che “viviamo in tempi apocalittici”: tutta una serie di segnali ci avvertirebbe di tale situazione agonica, di endism, come nella lingua inglese, a volte, si definisce questa presunta caratteristica e davvero le forze della distruzione sembrano protese all’opera in un modo incessante e le stesse grandi scoperte, come la forza dell’energia nucleare, potrebbero volgersi, come ammoniva lo stesso Norberto Bobbio, in strumenti di pantoclastia (distruzione globale). In ogni caso, “spirito d’apocalisse” non andrebbe inteso come mutamento catastrofico, o fine distruttiva, bensì piuttosto come svelamento, come manifestazione di quanto era occultato, o comunque implicito e velato
Ma un filosofo più profondo, che prenda su di sé il compito del pensare, la fatica, a volte, del concetto, non si lascia troppo impressionare e dubita, dubita fortemente di questi presentimenti della fine; forse si tratta solo delle avvisaglie di un cambiamento radicale di epoca e di civiltà, cambiamento che di colpo rende sbiaditi i punti di riferimento del passato, costringendo tutti noi umani a navigare a vista, afferrati dall’angoscia della memoria e dall’ansia per ogni anticipazione. Qui ci imbattiamo nel vero problema che, come un rebus insoluto, non può non tormentare un autentico innamorato della comprensione: dietro il senso della fine, che alimenta tante fantasie [2] e leggende neognostiche[3], c’è l’illanguidirsi del senso del futuro, particolarmente ma non esclusivamente, intenso presso le nuove generazioni[4].
Se il Positivismo ottocentesco, almeno in una certa fase, pensava di aver individuato alcune tappe dello sviluppo e quindi di poterne prevedere le successive, la grande crisi culturale e politica protonovecentesca, e poi la tragedia delle due Guerre mondiali, hanno spazzato via ogni illusione predittiva. Non solo l’utopia, ma la speranza stessa di un futuro migliore e alternativo è rara da trovarsi; come l’angelo di cui parla W. Benjamin, lo sguardo dei nostri contemporanei regredisce continuamente alle rovine del passato, e solo con uno sforzo imperioso ci si costringe a volgere lo sguardo verso un futuro intuito come inafferrabile, indecifrabile…
Ho tanto riflettuto alla locuzione con cui un “mio” studente allontanava da sé tali problematiche: abbassando gli occhi, quasi con fastidio o con amarezza, replicava: “Per me il futuro è troppo”. Cosa significava? Mi sono dato questa risposta: la fretta, l’eccesso di velocità e la superficialità, il “brevetempismo” e il “presentismo”, descritti da Marc Augé e da altri studiosi, hanno eroso il senso di ogni possibilità alternativa e il presente è divenuto una specie di “presente eterno”, galleggiando, o annaspando, senza più memoria, nell’incapacità di formulare progetti ragionevoli e dunque realizzabili.
Ci si apre così un varco per affrontare il tema della tecnologia, tema che va trattato con le due dimensioni correlative: la Natura, che la tecnologia assume come punto di partenza per un’imitazione superatrice, e la Vita, la vita umana in particolare.
Ora, fra le più grandi scoperte che cambiano decisamente il volto della nostra autoconsapevolezza, si allineano quelle arrecate dalle neuroscienze; con singolare rilevanza gli studi sul cervello umano hanno condotto a modificare sostanzialmente l’immagine che noi avevamo di noi stessi e delle nostre iniziative. Molto di ciò che la tradizione metafisica chiamava “spirito”, molti suoi privilegi devono oggi essere rimodulati e attribuiti alla straordinaria potenza del nostro cervello, e soprattutto alla sua plasticità: pur così precario, esso può contenere l’idea di infinito, e anche se certamente non può che conoscere una piccola parte degli enigmi che si squadernano nel mondo, può immaginare, con l’aiuto della fantasia, tale molteplicità e creare universi, per dir così, paralleli[5].
“Lo spirito d’apocalisse non andrebbe inteso come mutamento catastrofico, o fine distruttiva, bensì piuttosto come svelamento, come manifestazione di quanto era occultato, o comunque implicito e velato. Un filosofo più profondo, che prenda su di sé il compito del pensare, la fatica, a volte, del concetto, non si lascia troppo impressionare e dubita, dubita fortemente dei presentimenti della fine; forse si tratta solo delle avvisaglie di un cambiamento radicale di epoca e di civiltà, cambiamento che di colpo rende sbiaditi i punti di riferimento del passato, costringendo tutti noi umani a navigare a vista, afferrati dall’angoscia della memoria e dall’ansia per ogni anticipazione. ”Giuseppe Gosis
L’uomo, originariamente, si presenta come homo faber, e la tecnologia, fino dai tempi della pietra scheggiata, è come una protesi, che l’uomo congiunge ai propri arti per trasformare il mondo e dominarlo. Ma non tutto è così semplice, non tutto così roseo, non procedendo la storia umana, senza fratture né regressioni, verso le “magnifiche sorti e progressive”, decantate dai laudatori del presente. E in più l’uomo non è solo homo faber, aggiungerei io, ma detiene diversi altri predicati che lo rendono un animale complesso, a volte inquieto e insoddisfatto di essere livellato e ridotto alla mera “fabbrilità”…
C’è un lavoro che raccomando, in particolare, per una lettura puntuale, che spiega bene l’ambivalenza evocata: Manfred Spitzer, Deenza digitale[6].
Sembrerebbe, a prima vista, un libro di demonizzazione della tecnologia e, se così fosse, servirebbe a poco, dovendo essere solo catalogato e archiviato per una lettura posticipata, fruttuosa forse per i rancori senili. Invece, si tratta di un testo pieno di sfumature ed esitazioni, ed è questo che lo rende raccomandabile; si parla, con tanti rilievi minuti e osservazioni sperimentali, dell’influsso delle tecnologie digitali sui bambini, sulla più tenera età, condizionata fino in fondo da un uso, troppo precoce e fuori misura, di tali tecnologie. È proprio il nostro cervello, il nostro modo di relazionarci con il mondo e di percepirlo che viene radicalmente trasformato: da homo sapiens sapiens ad homo stupidus stupidus, come suggerisce causticamente Vittorino Andreoli [7].
Non si tratta di questioni di fronte alle quali qualcuno possa alzare la mano e dire: non mi interessa, non mi riguarda, in quanto le trasformazioni in atto, ad un ritmo super veloce, sembrano mutare non solo l’ambiente esterno, ma proprio le fibre più intime del nostro esser uomini e donne.
Già l’innesto fra dimensione tecnologica e dimensione umana è in cammino, tanto che definirei il nuovo sistema, il nuovo assieme che si profila: “tecnoumano”, ma il problema è tutto sulla possibilità che l’uno di questi due elementi assuma il controllo della marcia in avanti; se presa da vergogna prometeica di fronte alla sua debolezza di essere transitoria, l’umanità, più o meno consapevolmente, abdica, essa perderà il controllo su ciò che lei stessa ha programmato, divenendone una specie di schiava, e i prodotti accumulati le conferiranno in un primo tempo aiuto, rendendola però progressivamente più debole; se invece, con progressivi assalti di lucidità, l’uomo riprenderà il controllo del veloce cammino del mondo, allora riuscirà ad imprimere la sua anima alla tecnologia, conferendo ad essa non solo un “supplemento” proveniente dalla sua umanità, ma proprio un’animazione integrale, quell’ispirazione cioè necessaria per creare una civiltà e per conferirle un sigillo ben definito[8].
In altri termini, o riusciamo a star di fronte all’innovazione tecnologica con creatività, o corriamo il rischio, davvero mortale, di soccombere ad essa e di esserne non coinvolti, ma travolti.
Allora, in breve, la sfida mi sembra porsi in questi termini: tra i due atteggiamenti della demonizzazione e dell’idolatria, tra la via di chi vede solo mostri, anche perché non ha esperienza delle nuove tecnologie e le teme come si teme l’ignoto e chi, altrettanto ingenuamente, fa di tali tecnologie un assoluto, sognando di “indiarsi” in maniera impossibile o di divenire immortale, la filosofia suggerisce una terza via: quella di comprendere la tecnologia, senza dimenticarne il significato strumentale, e di partecipare ai movimenti di umanizzazione. Occorre consapevolezza storica, non consegnando il passato e la memoria a tali strumenti tecnologici: sembra di sgravarci, invece ci svuotiamo.
I filosofi, con sobrietà e prudenza, dovrebbero far comprendere la necessità di un’etica per la civiltà tecnologica; le ultime riflessioni di Remo Bodei sono basate sull’idea del limite, e non c’è idea più feconda, e più avversa alla nostra superbia e al nostro egocentrismo che poi, a guardar bene, provengono dalla stessa radice: un esaltarsi, un voler slanciarsi al di sopra di sé, senza alcun limite. Avversario di tale prosopopea, il filosofo non deve limitarsi a scuotere la testa, e a lasciare che il mondo corra dove vuole, o dove è spinto dalla necessità, indicando invece la prospettiva di un vero e proprio umanesimo del limite, che faccia riannodare, fra l’altro, il legame nuziale, perduto e rimpianto, fra l’uomo e la “sua” Terra. Davvero, la Terra, valorizzata ma anche devastata, oggi “splende di trionfale sventura”[9].
Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touchdi Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze. Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cuianalizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?
Qualche giorno fa, ho osservato con attenzione una bambina, intenta a scrutare, con straordinaria concentrazione, uno smartphone, saggiandone i diversi usi; sono stato impressionato dall’intensità del suo sguardo, che pareva isolarla dal mondo e conferirle un’espressione di serietà piuttosto diversa rispetto al modo consueto di atteggiare il volto, a quell’età; m’è venuto in mente che dare precocemente in mano strumenti così sofisticati e complessi, lasciandoli usare per larga parte della giornata, è come dare un kalashnikov in mano a un ragazzino inesperto; la prima considerazione dunque è che certi strumenti, per essere benefici, debbono inserirsi, con una qualche armonia, nel cammino dell’esperienza, in modo che ogni persona li possa usare come peritus, capace di trarne tutti gli effetti positivi possibili, concependoli come mezzi e non come fini.
In realtà, i lavori di Naisbitt, che conosco almeno in parte, testimoniano degli effetti e delle conseguenze, insieme variegate e profonde, che gli strumenti digitali, comunque, sembrano capaci di produrre[10]. Più che puntare su di una lettura, magari approssimativa e un po’ fatalistica, del futuro che ci verrà incontro, penso che, da subito, occorra configurare un’educazione digitale, da mettere a punto ed offrire agli studenti come aspetto della formazione nel quadro complessivo dell’insegnamento scolastico: direi non troppo precocemente, e cercando di far sintesi fra questi aspetti dell’educazione digitale e gli altri aspetti della proposta educativa scolastica[11].
In breve, a me pare che tale educazione digitale, sostenuta da nuove teorie pedagogiche, dovrebbe possedere tre caratterizzazioni, oltre ad una necessaria competenza: un approccio attivo, critico e consapevole, in modo da saper orientare e controllare mezzi tanto potenti, senza rimanerne schiavi, come in una trappola insuperabile.
È vero che mutano gli stessi concetti con i quali cerchiamo di comprendere e interpretare la “realtà”, anzi direi di più: è la stessa realtà a modificarsi, o meglio il senso della realtà. Ma su questo ho già fatto dei cenni e dirò più avanti, notando per ora come l’intuizione possa sopperire al temporaneo gap che le nuove tecnologie paiono frapporre fra la loro corsa in avanti e la struttura epistemica dell’uomo.
Sul fatto che la tecnologia non sia più neutrale, penso occorra intendersi: non è che intervenga a favore di questa o quella parte, sostenendo, ad esempio, un’ideologia; non è neutrale nel senso che apre una propria via autonoma ed esercita forti pressioni perché l’umanità intera, globalmente, si ponga su codesta via. Piuttosto, il rischio inevitabile mi sembra quello dell’elitarismo, nel senso che vi saranno, sul nostro pianeta, porzioni di umanità capaci di fare un uso spedito ed efficace di questi strumenti, ed altre persone chiuse invece in un’arretratezza tecnologica difficilmente oltrepassabile (i riflessi su di una Democrazia già in forte crisi sono ben intuibili, a questo punto).
Quindi una non neutralità, e non in senso ideologico, anche se la favoletta della fine delle ideologie non persuade gli studiosi più rigorosi: le ideologie hanno cambiato forma, hanno mutato il loro nòcciolo fideistico e le loro narrazioni, ma sono più occultate ed eclissate che scomparse[12]. In fondo, la stessa tecnocrazia, a guardar bene, è un’ideologia, o forse meglio un paradigma culturale, economico e politico che non osa però affermarsi come ideologico, presentandosi piuttosto come una “visione del mondo” che afferma la sua superiorità, motivandola proprio con il suo fare a meno delle ideologie, così come C.H. De Saint Simon, l’inauguratore della prospettiva tecnocratica, ha sostenuto per primo.
Ritornando al punto di vista della filosofia, o più limitatamente di alcuni filosofi, sulla questione decisiva posta dall’ipertecnologia (perché ipertecnologia è la qualificazione più precisa per determinare il mondo che ci attornia e cresce fra di noi), occorre che il filosofo, per superare le sue incertezze e fragilità, non si trasformi in un influecer; per questo diffido dei filosofi pop, di cui pure apprezzo le aperture: essi rischiano di diventare delle mosche cocchiere, credendo di trainare e venendo invece trainati, “consiglieri inascoltati di un principe inesistente”, come ammoniva, con brillante severità, Giorgio Galli, lo studioso di recente scomparso, esploratore delle radici profonde, e anche nascoste, della politica contemporanea.
Secondo il filosofo francese Alain Badiouciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando?
Non sarei molto d’accordo con Badiou: è vero che il filosofo, con estrema intensità, cerca di comprendere il futuro, ma il punto è che l’attenzione verso il futuro, l’esser rivolti verso il futuro è un atteggiamento piuttosto inconsueto presso l’umanità contemporanea, in un presente già irto di difficoltà che non lasciano respiro[13].
Analizzare e comprendere le contraddizioni del presente: ecco l’unico modo per potere individuare alcuni scenari possibili del futuro, ma se lo studioso è onesto dovrà confessare che il suo lavorio interpretativo non è come quello dei maghi, dato che nessuno possiede quello specchio incantato, o quella sfera di cristallo in cui si diceva i maghi vedessero, con nitida precisione, squadernarsi il futuro.
No, non siamo né maghi, né astrologi e neppure partecipi del Positivismo ottocentesco, che credeva individuate con rigore alcune leggi scientifiche sulla base delle quali poter prevedere, mediante proiezioni ordinate, i profili del futuro. Ricordo che negli anni Ottanta del Novecento, è fiorita tutta una letteratura che assumeva il nome, piuttosto pomposo, di: futurologia; ho ancora uno scaffale della biblioteca ripieno di questi libri, che arrivavano a delle previsioni d’inaudita precisione; il fatto è che quasi tutte quelle previsioni sono state smentite clamorosamente, basterebbe pensare alla previsione del cosiddetto endism: alla fine prossima ventura di ogni guerra. Purtroppo, dappertutto nel mondo, guerre, guerriglie, guerre per procura… sembrano moltiplicarsi, anziché annullarsi e la pace appare solo un orizzonte evocato dal “pensiero desiderante”.
"...è vero che il filosofo, con estrema intensità, cerca di comprendere il futuro, ma il punto è che l’attenzione verso il futuro, l’esser rivolti verso il futuro è un atteggiamento piuttosto inconsueto presso l’umanità contemporanea, in un presente già irto di difficoltà che non lasciano respiro."
Vi sono utopie e distopie, ma tutte sembrano alla ricerca di riempire le mappe vuote di un futuro che rimane, per larga parte, ignoto; faccio anche appello all’esperienza comune: quanti avvenimenti, davanti agli occhi della mente, si sgranano inediti, colmi di traumatica novità… E gli stessi avvenimenti sono suscettibili di una lettura utopica (Moro, Campanella, Bacone) e distopica (Orwell, Huxley, Zamjatin), nel senso che avvicinandosi all’ideale di perfezione, la stessa immagine del mondo continuamente si rovescia, mandando a certe persone messaggi di luce paradisiaca, ad altre tenebrosi riflessi infernali.
Posso invece cercare di dire quali mobili assetti della società sarebbero auspicabili: sarebbe desiderabile una co-evoluzione dell’uomo, della Natura e della tecnologia, con le tre dimensioni protese in un moto armonico, ultimamente di convergenza. Ma questo è solo un sogno ad occhi aperti; l’unica via mi sembra quella di risvegliarsi, essendo il futuro nelle nostre mani, essendo noi, con i nostri figli e nipoti, questo moto universale verso il futuro.
Ad un illusorio sforzo predittivo, si può contrapporre la speranza, che si annoda indissolubilmente allo spirito tragico, nel tentativo, in ogni istante, di sormontarlo; la speranza non consiste, come si afferma con slogan ingannevoli, nel mantra: “tutto finirà bene”, ma piuttosto nel credere fortemente “che tutto ha un senso, e si tratta soltanto di scoprirlo”.
Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico, dominato dalle macchine, dalla singolarità di Kurzweil (la via di fuga della tecnologia) e da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell'utilizzo della tecnologia?
Come ho già accennato, non penso sia positivo trincerarsi dietro a una posizione sistematica e qui ribadisco: “né tecnofobi, né tecnoidolatri”; occorre tener distinto lo sviluppo tecnologico dal paradigma tecnocratico (espressione molto usata, dall’Husserl della Krisis al papa Bergoglio di Laudato si’); dal punto di vista concettuale, l’adozione, o comunque l’affermarsi sociale, del paradigma tecnocratico è solo un possibile esito dello sviluppo tecnologico, il manifestarsi di un’opportunità, o di un rischio, a seconda di come si giudichi il trionfo delle concezioni e delle prassi tecnocratiche.
La domanda, che mi è stata posta, menziona Ray Kurzweil, una sorta di pioniere, quasi di profeta dell’intelligenza artificiale[14]; ma, subito dopo, si ricorda un film celebre: Matrix (1999), un film che insieme ad altri ha preformato una sensibilità e ha polarizzato, efficacemente, alcuni interrogativi cruciali, entro la società contemporanea. Per Matrix in particolare, si è parlato di una diffusa sensibilità gnostica, che collegherebbe tra loro film, libri e autori che tenderebbero a interpretare l’attuale cultura tecnologica come il trionfo di una specie di reincanto, avvolgente l’umanità, paralizzata da un sogno meraviglioso e, in altre versioni, imprigionata da un vero e proprio incubo[15].
"...l’universo tecnologico, nelle sue diverse componenti, sembra frutto di una vera e propria “svolta”, sulla quale agiscono influenze che, con approssimazione, possono essere definite: “esoteriche”, “magiche” e “spiritualiste”.
Mi si permetta di introdurre, a questo punto, una considerazione, forse secondaria, che riguarda la concezione, piuttosto diffusa ma superficiale, per la quale la tecnologia contemporanea, nelle sue varie forme e articolazioni, si sarebbe prodotta soltanto a partire da un’evoluzione autonoma di congegni e dispositivi, figli ed eredi, in linea diretta, delle macchine ottocentesche; viceversa, l’universo tecnologico, nelle sue diverse componenti, sembra frutto di una vera e propria “svolta”, sulla quale agiscono influenze che, con approssimazione, possono essere definite: “esoteriche”, “magiche” e “spiritualiste”. I tre termini non sono affatto equivalenti, ma sembrano cogliere, sia pur in un modo pressapochistico, la sensibilità di alcune notevoli figure di imprenditori, all’origine in particolare della nuova tecnologia informatica. Un caso esemplare, in Italia, è costituito da Adriano Olivetti, che ha cercato di inserire la qualità (design…) nella sua attività industriale, non trascurando un influsso documentabile di fenomeni culturali come la teosofia e l’antroposofia.
Un attento esame della sua biblioteca e dei testi presenti nel catalogo delle sue Edizioni di Comunità, mi ha confermato l’importanza di questi influssi, più qualitativa che estesamente quantitativa[16]. Ritengo che il fenomeno sia più vasto, che non si fermi certo alla figura, pur rappresentativa, di Olivetti; non a caso, negli Stati Uniti, all’invasione vittoriosa della tecnologia si accompagnano i fenomeni di “New Age” e di “Next Age”: una mescolanza costituita da un singolare animismo, da uno spiritualismo inteso in senso molto lato, non arcaistico né cristianeggiante, proteso a conferire, ad insufflare un’anima all’interno di un mondo che può apparire carente d’anima, se non privo di essa.
Seguendo questa linea ci si potrebbe spiegare i processi di smaterializzazione e di decorporeizzazione caratteristici delle tecnologie informatiche e telematiche, nelle quali fluttuano delle icone, simili a dei fantasmi, o agli Avatar che certe meditazioni orientali evocano quotidianamente.
Ma la funzione di tutto questo, qual è? Direi che per propiziare una “svolta” così netta, occorreva uno slancio deciso, uno scatto risoluto dell’immaginazione sociale e le fonti di tale immaginazione non potevano che provenire dagli àmbiti dell’inconscio, della fantasia e di energie squisitamente extrarazionali…
Sul tema di conferire un’anima all’universo tecnologico, in modo da disegnarlo come una civiltà ben definita, mi propongo di ritornare rispondendo alle ultime questioni.
A proposito della questione del futuro, ho già detto quanto sia difficile fare previsioni, che sarebbero suggestive, ma frutto di opinioni personali: esse potrebbero valere ben poco ed essere smentite, perfino ridicolizzate.
Penso anch’io che occorra guarnire il nostro atteggiamento di un risoluto “taglio” critico, e che coscienza e consapevolezza debbano governarci. In breve, agguerrirsi, munirsi di spirito critico maturo, di consapevolezza e di senso condiviso di responsabilità[17].
Mentre l'attenzione dei media e dei consumatori è tutta mirata alle meraviglie tecnologiche di prodotti tecnologici diventati protesi operative e cognitive per la nostra interazione con molteplici realtà parallele nelle quali viviamo, sfugge ai più la pervasività della tecnologia, nelle sue componenti nascoste e invisibili. Poca attenzione è dedicata all'uso di soluzioni di Cloud Computinge ancora meno di Big Datanei quali vengono archiviati miliardi di dati personali. In particolare sfugge quasi a tutti che il software sta dominando il mondo e determinando una rivoluzione paragonabile a quella dell'alfabeto, della scrittura, della stampa e di Internet. Questa rivoluzione è sotterranea, continua, invisibile, intelligente, Fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi. Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?
Nell’assieme delle questioni proposte, brilla, secondo il mio giudizio, l’espressione chiave: pervasività. Certo, l’accumulo dei dati manifesta quell’ambivalenza costitutiva che è riscontrabile a vari livelli: da un lato funge da memoria ausiliaria, sostenendo il nostro sforzo e le più svariate ricerche, ma, nel contempo, sembra prosciugare e atrofizzare le energie personali; agisce la consueta trasformazione che muta una serva utile e docile in una padrona che rischia, in assenza di una vera forza critica e di una capacità di autocontrollo, di renderci schiavi. La prima dimensione ad andare in frantumi è la lodatissima privacy, costantemente evocata ma ormai introvabile nell’attuale contesto socio-comunicativo.
Una seconda dimensione a rischio è la Democrazia: le amicizie e le appartenenze che si creano nella Rete sono fragili, reversibili e umorali, soggette quindi a sfaldarsi come neve al sole; e l’accumulo dei dati personali può diventare fonte per governare le emozioni e dunque le inclinazioni politiche, ma può anche diventare sorgente di pressioni e perfino di ricatti. Le grandi corporazioni di tecnologia comunicativa esercitano così un imponente influsso, senza essere controllate e regolate dalle leggi, nazionali o internazionali che siano.
Non si tratta di assolute novità; qualche filosofo del passato ha anticipato, con il potere delle intuizioni, gli sviluppi degli ultimi decenni[18]. In verità, mi sembra che più che un quesito vero e proprio, ciò che viene proposto è un allineamento, davvero brillante e innegabile, di constatazioni, che si tratta, alla fine, di condividere, o comunque di prender atto che lo sviluppo della tecnologia procede nella direzione illustrata con tale sintetica efficacia. Ma occorrerebbe domandarsi: noi umani, sempre e comunque, abbiamo letto immediatamente il mondo, senza modificarlo, o abbiamo sempre e comunque indossato degli occhiali, in qualche caso nero fumo, in qualche caso dalle lenti tinte di rosa? Il mondo è là, sembra appena fuori, e alla nostra portata, ma è diviso dal nostro pensiero dal tunnel che collega il cervello al nostro occhio e, percorrendo tale via, la conoscenza si arricchisce, ma anche si complica, subendo sostanziali mediazioni, e dunque modificazioni…[19]
Quando dico “tavolo”, non è più al centro il tavolo vero e proprio, ma il tavolo che è pensato ed espresso dalla mia locuzione, e perfino il mio braccio, quando lo nomino, non è più, propriamente, il mio braccio…
Per quel che riguarda, infine, le “novità” che intramano le nostre vite, e quelle che ci vengono incontro con straordinaria accelerazione, direi che l’essenziale è stato già anticipato da M. Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, laddove paragona la rivoluzione informativa e comunicativa dei nostri tempi alla rivoluzione introdotta da Johannes Gutenberg, da Aldo Manuzio e dai primi stampatori: la novità non consiste solo nella stampa, ma nelle nuove idee di cui la stampa ha potuto farsi veicolo, e in modo analogo accade entro la più viva contemporaneità[20].
Se il software è al comando, chi lo produce e gestisce lo è ancora di più. Questo software, nella forma di applicazioni, è oggi sempre più nelle mani di quelli che Eugeny Morozov chiama i Signori del silicio(la banda dei quattro: Google, Fcebook, Amazon e Apple). E' un controllo che pone il problema della privacy e della riservatezza dei dati ma anche quello della complicità conformistica e acritica degli utenti/consumatori nel soddisfare la bulimia del software e di chi lo gestisce. Grazie ai suoi algoritmi e pervasività, il software, ma anche la tecnologia in generale, pone numerosi problemi, tutti interessanti per una una riflessione filosofica ma anche politica e umanistica, quali la libertà individuale (non solo di scelta), la democrazia, l'identità, ecc. (si potrebbe citare a questo proposito La Boétiee il suo testo Il Discorso sulla servitù volontaria). Lei cosa ne pensa?
Le varie tecnologie, convergendo in un sistema in via di rapida espansione, esercitano un’influenza sull’economia assai rilevante, giungendo perfino a delle conseguenze di tipo monopolistico; sì, perché l’economia digitale costruisce veri e propri monopoli e l’equivalenza di opportunità, nell’àmbito del mercato, rimane soltanto una bella utopia[21]. Hindman, in particolare, illustra con chiarezza ed efficacia l’ “economia dell’attenzione”: con questo termine, indica, precisamente in corrispondenza alla domanda che mi proponete, lo scrutare nei gusti e nelle esistenze personali di tanti utenti, orientandone e influenzandone i consumi, sicché, per dirla con il sociologo Barber, da consumatori gli utenti diventano consumati[22].
Morozovi inclina, soprattutto, alla tecnofobia, affastellando, nelle sue molte pubblicazioni di ricercatore e divulgatore, una quantità di considerazioni tendenti a mostrare come lo sviluppo tecnologicorischi di tramutarsi, in ogni momento, in quel paradigma tecnocratico che anche papa Francesco critica nella sua enciclica Laudato si’ (cap. III).
Morozov ci presenta una narrazione piuttosto ben costruita in tutte le sue parti: Google, Facebook, Apple e Amazon costituirebbero la “banda dei quattro” che, imperversando, provocherebbe all’umanità intera guai seri e crescenti[23]. Tra parentesi, non so se ci si ricorda della “banda dei quattro”, che aveva come ispiratori Lin Piao e, forse, la moglie di Mao. La “banda” cercò di imporsi sulla Cina maoista, e la sua sconfitta, con la eliminazione dei quattro personaggi, segnò la fine della “rivoluzione culturale” (1976).
Ora, non a caso viene usata tale immagine, che getta una luce un po’ sinistra sui protagonisti dei vari potentati tecnologici ed economici, che sarebbero appunto fuori di controllo, dominati esclusivamente dagli inafferrabili “signori del silicio”. Certo, la ricostruzione del “lato oscuro della Rete” compiuta da Morozov è particolarmente suggestiva e i temi toccati non possono lasciare indifferenti, in particolare i pericoli di manomissione della privacy, ma a questi pericoli ho già accennato.
Un altro punto evidenziato da Morozov è il primato degli algoritmi: si tratta dell’estrema radicalizzazione di quel matematismo, inaugurato da Galilei, che, insieme al congiunto meccanicismo e intrecciato con l’agognato Regnum Hominis (apporti di Cartesio e Bacone) ha impresso il suo sigillo alla “modernità”, dato che il matematismo “moderno” è assai diverso e più espansivo rispetto al matematismo di Pitagora o di Platone, cioè al matematismo degli antichi[24].
Quello che Morozov mostra è però solo un volto della questione; dall’altra parte, occorrerebbe illustrare l’impotenza di una cultura umanistica solo difensiva, che critica sovente ciò che non conosce, o che conosce poco, condannandosi perciò ad una sostanziale marginalità.
"Occorre tornare, ogni volta di nuovo e senza stancarsi, al tema dell’educazione, che non è un semplice addestramento, un puro allevamento; l’atto educativo, pur nutrendosi dell’acquisizione di tanti strumenti tecnici, nella sua origine ed essenza non è riconducibile alla dimensione tecnica."
Bisogna dunque tentare una sintesi e la libertà di cui abbiamo sete, se sentiamo con giusta ansietà che si restringono i suoi spazi, va conquistata in una tensione incessante, così come la Democrazia, che non cade per spallate esterne, ma per un’interna, graduale estenuazione, per il vuoto che lasciano i suoi antichi innamorati, oggi, in molti, disaffezionati.
Quanto al venir meno dell’identità, coloro che affermano: “Noi siamo la tecnologia che usiamo, ormai”, propongono una semplice constatazione, ma è una constatazione che fotografa un certo restringimento dell’umanità, non essendo l’uomo solo homo faber, e non riducendosi neppure all’assieme delle sue operazioni, della sua prassi, o del suo lavoro, come ha ben mostrato, fra gli altri filosofi, Hannah Arendt nel suo libro Vita Activa.
Occorre tornare, ogni volta di nuovo e senza stancarsi, al tema dell’educazione, che non è un semplice addestramento, un puro allevamento; l’atto educativo, pur nutrendosi dell’acquisizione di tanti strumenti tecnici, nella sua origine ed essenza non è riconducibile alla dimensione tecnica. Se lo si concepisce, invece, in tal modo, si apparecchia una servitù volontaria, che nel prosieguo espelle però la volontà medesima; il conformismo appiattente ogni creatività è l’esito finale di codesto processo, per il quale siamo livellati, invece che creativi: omnes eodem modo[25].
Gli antichi lo sapevano: la grandezza di un uomo creativo consiste anche nei “no” che può e sa pronunciare: “etiamsi omnes, ego non” come sta scritto a Staglieno sulla tomba del grande filosofo dimenticato Giuseppe Rensi. E se la causa dei vincitori piace agli uomini conformisti, a quelli liberi e coraggiosi può piacere, spesso, la causa giusta, anche quella dei vinti.
Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma solie nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali, il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo guadagnando da una interazione umana e con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici?
In effetti, Sherry Turkle ha, per dir così, messo il dito sulla piaga. Noi umani, come già evidenziava Aristotele, siamo esseri socievoli e il dialogo ci è necessario quasi come il pane quotidiano; siamo tutti in relazione, come sottolineano gli antropologi assiduamente, e le relazioni costituiscono l’intreccio e la trama delle nostre esistenze[26]. In effetti, a guardar bene, la presunta potenza del dialogo si è indebolita nell’era digitale, e pare aumentata la solitudine del cittadino globale (Z. Bauman).
Ecco un complesso problema: la solitudine, legata a una condivisione più apparente che reale. A me pare che la solitudine, in ultima analisi, sia una delle patologie sociali che contraddistinguono di più il nostro tempo[27].
Certo, occorrerebbe distinguere accuratamente tra solitudine e isolamento; è piuttosto all’isolamento, imposto dalla pressione sociale, a cui mi riferisco ed è per tale fenomeno che le menti contemporanee appaiono inquiete, travagliate e senza pace.
Ciò che manca alle tecnologie social è proprio la componente profondamente comunicativa che si accompagna al corpo, alle sue posture e ai gesti che è capace di esprimere; anche qui si può riscontrare una paradossale ambivalenza: con una mediazione potentemente veicolante, le tecnologie comunicative collegano e avvicinano gli uomini di tutto il mondo, ma anche ne accentuano l’astrazione e l’artificioso distanziamento, per cui occorre qualcosa di più; le tecnologie comunicative ci avvertono dell’esistenza degli altri e delle operazioni che compiono, ma non ci fanno sentire la loro presenza. L’entropatia, cioè il sentire l’altro, non può essere solo esistenza, se non si accompagna il senso vigile di una presenza che può essere rinviata, ma non può essere posta, definitivamente, tra parentesi… Ecco il punto, a me sembra: perfezionare questo tempo necessario del rinvio, alternando comunque il tempo della visione dell’altro con il tempo dell’abbraccio dell’altro.
Proprio l’esperienza di Covid 19 manifesta questo dramma di comunicazioni, relazioni amicali e didattiche isolate nel momento dell’icona (la pura immagine), e dunque incapaci di temperare quella solitudine che affligge i nostri mondi vitali e culturali.
Occorre una riflessione più approfondita, in ogni caso, sul ruolo dei social network, anch’essi aiuto, ma anche radici di atrofia, disabituando al raccoglimento e alla concentrazione che, a questo punto, solo le pratiche di meditazione a larga diffusione sociale potrebbero fortificare[28].
Nei suoi Cori della Rocca, Thomas Eliot si domanda: “Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?”.
Sono gli interrogativi che rimbalzano nella mente e la trafiggono, ma forse è vano, e anche pericoloso, indugiare troppo su di un bilancio difficilissimo da compiere, dato che avremmo bisogno di conoscere tante più cose e in modo più approfondito. Giova invece, sicuramente, prodursi in un grande slancio reintegrativo, per il quale accedere ad una co-evoluzione delle tecnologie e della nostra umanità.
In fondo, le nuove tecnologie promettono questa reintegrazione ed è per questo che seducono tante persone: non si percepiscono le folle come una community in cerca di apprezzamento e condivisione? Aggiungerei: che tale condivisione si riveli un sogno, non significa, e sarebbe oltretutto impossibile, spegnere la via tecnologica, ma implementarla con altri cammini ed esperienze che aggiungano vita alla vita, dotando la mente di un orientamento responsabile ed etico.
Per Karl Popper il grande problema era costituito dalla Televisione che gli pareva addormentasse l’uomo, manipolandolo; ora il problema appare assai più vasto e profondo, ma ciò non equivale a dire che sia impossibile tentarne una soluzione[29].
In un libro di Finn Brunton e Helen Nissenbaum, Offuscamento. Manuale di difesa della privacy e della protesta, si descrivono le tecniche che potrebbero essere usate per ingannare, offuscare e rendere inoffensivi gli algoritmi di cui è disseminata la nostra vita online. Il libro propone alcuni semplici comportamenti che potrebbero permettere di difendere i propri spazi di libertà dall'invadenza della tecnologia. Secondo lei è possibile difendersi e come si potrebbe farlo?
Conosco il vivace lavoro di Brunton e Nissenbaum[30]; spiego in breve perché la sua prospettiva non mi pare quella da praticare: si tratta di una specie di camuffamento, fatto da espedienti che ricordano le minoranze perseguitate, che partono già dalla ricezione di una sconfitta; tali espedienti, un po’ da guerriglieri nascosti, richiamano i personaggi distopici di Ray Bradbury che, per conservare qualche seme di sapienza in un orizzonte sociale di forsennato attivismo, nascondono i libri come fossero oggetto di culto, o li imparano a memoria, una persona un capitolo, un’altra il capitolo successivo…
Mi sembra che il lavoro dei due ricercatori nasca da una prospettiva interpretativa che dà già per scontata la catastrofe, cioè l’incapacità di umanizzare la tecnologia. A me pare che già partire da una tattica difensiva sia un errore, che isola e rende anche un po’ patetici, mentre occorre invece immergersi nella realtà del mondo e proporre una strategia di integrazione tra i vari aspetti per i quali un essere umano possa respirare la libertà ed esprimersi con coraggiosa sincerità. Naturalmente, se la situazione si chiudesse completamente, in un estremo momento si potrebbe ricorrere alle tattiche di resistenza illustrate dai due autori.
In tempo di Covid, è risuonata una locuzione permeata di verità: “Ci si salva assieme”; depurata da ogni significato teologico, come la ripeteva Péguy, essa significa che è un errore isolarsi in un orto concluso, in un’Arcadia di benessere e piacere solo individuali. Percorrendo tale via fino in fondo, l’ossessione di preservarci condurrà forzatamente ai cancelli di un giardino solitario, salvo poi scoprire che esso è vuoto, irrimediabilmente. La migliore strategia mi sembra consistere, in breve, nel cercare e trovare insieme una bussola per orientarci, immergendoci in quella epoca che non ci è estranea, se non per uno schematismo artificiale: sta a noi camminare in profondità entro l’orizzonte di quell’epoca che è la nostra, interpretandola e, per quanto possibile, costruendola come civiltà, e non come barbarie.
A tutti è chiaro, penso, come ci possa essere una crescita economica che coincida con un declino, o un’eclissi, dell’umanità. Ma non è scritto in qualche libro del Fato che avverrà così… il futuro è nelle nostre mani, il futuro siamo noi, in cammino entro un’umanità che si evolve, assiduamente.
Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?
Consiglierei, innanzitutto, una lettura approfondita di due lavori abbastanza recenti di Luciano Floridi; dato che il mio approccio è essenzialmente filosofico, tale lettura può consentire un’utile comparazione con quanto sono venuto proponendo, o sottolineando: L Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina, Milano 2017; Id., Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, Raffaello Cortina, Milano 2020. Sul problema di una comunicazione autentica e completa, tale da soddisfare l’inesauribile necessità dell’Altro che abita il cuore di ogni uomo: In dialogo con l’Altro, a cura di E. Falavegna- G. Girardi, Gabrielli Editori, Verona 1998; V. Costa, Alterità, il Mulino, Bologna 2013; M. Ovadia, Vai a te stesso, Einaudi, Torino 2008; B.C. Han, L’espulsione dell’Altro, Nottetempo, Milano 2017; J. Derrida, Abramo, l’altro, Cronopio, Napoli 2005; E. Lévinas, Il Tempo e l’Altro, il melangolo, Genova 1997; P.A. Rovatti, Possiamo addomesticare l’Altro?, FORUM, Udine 2007.
Mi pare importante la linea interpretativa tracciata da Piero Dominici, dell’Università di Perugia: cfr. P. Dominici, Dentro la complessità, Franco Angeli, Milano 2019; l’Autore critica le “false dicotomie”, proponendo una lettura metodica della “complessità”, distinguendola dalla “complicazione”; i suoi scritti, in generale, mettono al centro le risorse, organizzative e innovative, della persona, nell’intento di fortificarla e d’incrementare le sue capacità di orientamento. Bisogna congedarsi, in breve, dall’ “ossessione della concretezza”, che condurrebbe ad esaltare dei “fatti” che si presumono certi, trascurando il necessario quadro interpretativo.
Per comprendere e valutare l’avanzata della tecnologia, nei suoi vari aspetti, bisogna ricorrere alla dimensione etica, ma un’etica “aperta”, certamente non rigida e dogmatica: v. P. Donatelli, La filosofia e la vita etica, Einaudi, Torino 2020, cap. I. Le virtù più necessarie, presi come siamo fra l’irruzione dell’Inumano e l’emergenza del Postumano, sembrano la compassione, la sincerità coraggiosa e infine la speranza, per mète ragionevoli e realizzabili, che tende a guidare ogni umano cammino (cfr. il recente approfondimento: G. Goisis, Speranza, EMP, Padova 2020).
L’etica coincide con la ricerca della “buona vita”, che implica un uso creativo degli oggetti, prodotti dalla tecnologia, dato che, nella società dell’abbondanza, rischiamo di essere soffocati dalla quantità e dal fascino degli oggetti che noi stessi uomini produciamo, e che rischiano di soffocarci: P. Inghilleri, La buona vita, Guerini e Associati, Milano 2003. Si tengano d’occhio infine gli scritti, ricchi di informazione e spunti interpretativi di E. Pulcini, sul tema della cura, quelli di Daniela Lucangeli sul rapporto sentire/pensare, quelli di M.T. Russo, sempre sulla cura, come quelli di L. Alici e I. Cavicchi. Una presentazione “narrativa” efficace di varie questioni evocate: A. Baricco, The game, Einaudi, Torino 2018. La letteratura internazionale è ancor più ricca: mi limito a menzionare il bel saggio: D. Ruggiu, Human Rights and Emerging Technologies. Analysis and Perspectives in Europe, Pan Stanford Publishing, Singapore 2018. In questo libro, Daniele Ruggiu è riuscito, con un linguaggio chiaro e cattivante, a indicarci una via possibile, tutt’altro che meramente idealistica, o saccentemente legata a un dogmatico “dover essere”, oltre alla paziente ricognizione dello stato della questione; ha soprattutto mostrato come l’Europa possa rappresentare un orientamento anche per altre realtà geopolitiche, davanti alle grandi sfide che la tecnologia contemporanea pone a tutta l’umanità. L’Europa, in tal modo, può riscoprire alcuni suoi valori più autentici e anche, negli ultimi anni, più ben nascosti.
Qua e là, nelle risposte alle questioni presentate, ho indicato punti oscuri, punti da approfondire; occorrerebbe valorizzare quei buoni ricercatori che sono anche efficaci divulgatori: sulle neuroscienze, un eccellente terreno d’indagine per quanto riguarda l’incanto esercitato dalle tecnologie, segnalo, a mo’ di esempio, D. Linden, La bussola del piacere, Edizioni Codice, Torino 2011. Da ultimo, mi pare decisivo insistere sulla necessità che lo “sviluppo” non sia semplicemente il “progresso” e economico, come dimostra la riflessione di A. Schiavone, Progresso, il Mulino, Bologna 2020.
Per diffondere ancor più l’iniziativa, un inserimento delicato, ma necessario: portare questi temi nelle scuole, discutere le varie opportunità che offrono le tecnologie per l’educazione, ma anche, con una riflessione di pedagogia critica, mettere a fuoco i limiti e, per certi aspetti, i rischi che l’adozione ingenua di tali prospettive può comportare. Dialogare con politici ed amministratori, diffondendo quell’abitudine al dialogo criticamente fondato, che non sceglie la via dell’insulto, della rissa o del discredito dell’avversario, ma quella del confronto aperto e riflessivo.
Anche se oggi i giornali conoscono una contrazione della loro fortuna, rimangono uno strumento per un’opinione pubblica consapevole circa le diverse alternative che si prospettano e profilano per quel che riguarda nientemeno che il futuro nostro e, in universale, dell’umanità. Sì, scuola ed educazione, politica e amministrazione, giornali e cultura indipendente: queste mi sembrano tre dimensioni su cui far leva, dotando le nostre menti della necessaria temperie critica e propositiva; la mente critica non è quella del sublime rompiscatole, essendo la critica il lievito necessario per un cammino senza dimenticanze e contraccolpi; sennò, ogni apparente emancipazione si può rivelare, con un subitaneo rovesciamento, come un’alienazione.
NOTE
[1] Bhagavadgita, a cura di A.M. Esnoul, VII, 7, Adelphi, Milano 2013, p. 88.
[2] Mi permetto di rinviare a G. Goisis, Oltre la globalizzazione. Etica ed economia, “Studia Patavina”, 3(2020), pp. 445-457.
[3] Apocalisse, testo greco e traduzione interlineare italiana, a cura di R. Reggi, Edizioni Dehoniane, Bologna 2016.
[4] Sulla temperie gnostica, entro la contemporaneità, v. E. Voegelin, Il mito del mondo nuovo, Rusconi, Milano 1990.
[5] Come nota la grande poetessa Emily Dickinson, la nostra mente “è più grande del cielo”, nel senso che contiene, o può contenere, tutte le idee e perfino l’idea di infinito, affermazione adoperata come insegna preposta ai loro lavori da G. Maira, Il cervello è più grande del cielo, Solferino, Milano 2019 e G. M. Edelman, Più grande del cielo, Einaudi, Torino 2004.
[6] M. Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, Corbaccio, Milano 2013.
[7] V. Andreoli, Homo stupidus stupidus, Rizzoli, Milano 2020.
[8] Per la nozione di “vergogna prometeica”, cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2007; la locuzione “supplemento d’anima” è presente in un celebre scritto, amato da Adriano Olivetti: H. Bergson, Le due Fonti della Morale e della Religione (1932), Edizioni di Comunità, Milano 1950.
[9] M. Horkheimer-T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo (1944), tr. it. di R. Solmi, intr. di C. Galli, Einaudi, Torino 2010, p. 11. Sul valore del “limite”, v. R. Bodei, Limite, il Mulino, Bologna 2016.
[10] J. Naisbitt, High tech e rapporti umani, F. Angeli, Milano 2000; Id., Mind set. Il segreto del futuro. Gli atteggiamenti mentali per prevedere il mondo che verrà, Etas, Milano 2008.
[11] Utili considerazioni in A. Biscaldi, Una settimana senza social. Per un’educazione digitale, San Paolo, Cinisello B. (Mi) 2020.
[12] R. Dahl, Democrazia o tecnocrazia?, il Mulino, Bologna 1987.
[13] A. Badiou, Alla ricerca del reale perduto, Mimesis, Milano-Udine 2016.
[14] R. Kurzweil, Come creare una mente, Apogeo Education, Milano 2013.
[15] Cfr. P. Riberi, Pillola rossa o Loggia Nera?, Lindau, Torino 2017, libro che ha suscitato diversi articoli appassionanti e un paio di altre rassegne piuttosto approfondite.
[16] Cfr. V. Cecchetti, Il “socialismo magico” in G. Noventa e A. Olivetti, lettori di R. Steiner, Bibliotheca Edizioni, Roma 2006. Sono in corso altre ricerche sul medesimo tema, e il lavoro di Cecchetti si caratterizza per la novità, ma anche per un uso non compiutamente preciso delle varie qualifiche, tese a definire in modo univoco l’interessante fenomeno. A Pisa, si può ancora vedere l’immagine del computer Elea, pesante alcune tonnellate, che la Olivetti aveva prodotto, bruciata poi sulla strada dell’informatica da alcune industrie americane più accorte e audaci.
[17] Sintetizzerei la “mia” presa di posizione con l’espressione: “umanesimo critico e del limite”: cfr. M. Revelli, Umano, Inumano, Postumano. Le sfide del presente, Einaudi, Torino 2020; P. Donatelli, La filosofia e la vita etica, Einaudi, Torino 2020, cap. VIII, pp. 225-250. Sulla necessità della consapevolezza: B. Marchica, Consapevolezza, EMP, Padova 2018.
[18] Ad es., cfr. R. Barilli, Bergson. Il filosofo del software, Raffaello Cortina, Milano 2004.
[19] T. Metzinger, Il tunnel dell’io, Raffaello Cortina, Milano 2010.
[20] M. Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare (1964), il Saggiatore, Milano 1967.
[21] M. Hindman, La trappola di Internet, Einaudi, Torino 2019.
[22] B. R. Barber, Consumati. Da cittadini a clienti, Einaudi, Torino 2010. Si potrebbe dire: “Faccio shopping, dunque sono”.
[23] E. Morozov, Contro Steve Jobs, Edizioni Codice, Torino 2012.
[24] P. Zellini, La dittatura del calcolo, Einaudi, Torino 2018; la differenza fra matematismo moderno ed antico e la consecuzione fra matematismo, meccanicismo e Regnum Hominis è ben illustrata da M. Gentile, Il problema della filosofia moderna, Petite Plaisance, Pistoia 2020, cap. I. Tutti ne parlano, ma per molti la centralità degli algoritmi rimane ancora un poco misteriosa: E. Peres, Che cosa sono gli algoritmi, Salani, Firenze 2020.
[25] “Impariamo, quindi, finalmente a vivere onestamente. Alziamo gli occhi al cielo, sia per il nostro onore, sia per l’amore della virtù, sia, volendo parlare per cognizione di causa, per l’amore e per l’onore di Dio onnipotente, che è testimone certo delle nostre azioni e giudice giusto delle nostre colpe. Per parte mia, sono convinto, e non mi sbaglio, che non ci sia niente di più contrario a Dio, tanto libertario e bonario, del potere e che egli riservi nell’inferno una pena particolare per i potenti e i loro complici”: E. De La Boétie, La servitù volontaria, Generoso Procaccini, Napoli 1999, p. 77.
[26] S. Turkle, La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale, Einaudi, Torino 2016; Id., Insieme ma soli, Einaudi, Torino 2019.
[27] A. Lo Iacono, Psicologia della solitudine, Editori Riuniti, Roma 2003; E. Borgna, La solitudine dell’anima, Feltrinelli, Milano 2013.
[28] F. Scianna- G. Vannini, Meditazione nell’era digitale, Corriere della Sera, Milano 2020, pp. 109-123.
[29] K. R. Popper, Tecnologia ed etica, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2013. Più profondo e duraturo, forse, l’approccio di H. Jonas, che, di fronte alla tecnologia invadente, invoca il principio di responsabilità, mettendo a fuoco la necessità della precauzione nei confronti di ogni novità tecnologica, che può arrecare vita, ma anche predisporre a rischi mortali: H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino 1997. In un tal quadro, giova perfino una raffrenante “euristica della paura”.
[30] F. Brunton- H. Nissenbaum, Offuscamento. Manuale di difesa della privacy e della protesta, Stampa Alternativa, Viterbo 2016.
Tutti sono invitati a partecipare al progetto STULTIFERA NAVIS!