Stamattina, lungo l’autostrada che percorro ogni giorno per andare al lavoro, ho assistito a una scena che non si dimentica. Un incidente grave, forse mortale. Una persona a terra, coperta da una di quelle coperte termiche che riflettono la luce del mattino come lamine d’oro. Attorno, i resti contorti delle auto, un camion fermo di traverso, i lampeggianti che colorano l’asfalto.
Un agente della Polizia Stradale, con un gesto lento, ha steso quella coperta sopra il corpo. Non per nasconderlo — come si fa con la vergogna — ma per restituirgli una forma di dignità, un confine umano.
È un’immagine che pesa. Non tanto per la tragedia in sé, ma per ciò che rivela: la presenza costante, silenziosa, di persone che lavorano dove la vita si rompe.
La Polizia Stradale, i Vigili del Fuoco, il personale sanitario, gli operatori della viabilità: figure che intervengono nel momento dell’imprevisto, che affrontano il dolore altrui con una calma che solo la disciplina e l’esperienza possono insegnare. Non hanno titoli altisonanti, non occupano le prime pagine, non sono invitati ai talk show. Eppure, sono loro a garantire che il mondo, ogni giorno, possa continuare a funzionare.
Ci ricordiamo di loro solo in questi momenti, quando il caso ci costringe a rallentare e a guardare. Poi ripartiamo. Torniamo al ritmo consueto della vita e del lavoro, e ci dimentichiamo che esiste una parte del Paese che regge tutto in silenzio, per stipendi che definire modesti è un eufemismo.
Mentre in altri palazzi — spesso ben riscaldati e arredati — c’è chi percepisce cifre spropositate per attività che raramente implicano un rischio reale, o un impatto diretto sulla collettività. È una sproporzione che non è solo economica: è morale.
Da questa riflessione nasce la necessità di dire grazie. Non per retorica, ma per giustizia. Perché chi tiene insieme il mondo quando crolla merita rispetto, e il rispetto inizia dal riconoscimento.
Eppure, questa gratitudine, per essere autentica, non deve chiudersi in un elogio sentimentalista del sacrificio. Deve spingerci a una domanda più profonda: che cosa intendiamo oggi per “lavoro”?
Chi lavora davvero? E come riconosciamo il valore di ciò che fa?
Viviamo un’epoca in cui il lavoro non ha più un volto unico.
Da una parte ci sono coloro che il proprio mestiere devono svolgerlo nel mondo reale, in presenza, a contatto con le cose e con le persone: agenti, infermieri, autisti, tecnici, manutentori, soccorritori.
Dall’altra, milioni di lavoratori che ogni giorno accendono un computer, indossano cuffie e microfono, si collegano a piattaforme digitali, e passano ore a parlare con colleghi e interlocutori lontani.
Molti di loro percorrono ancora decine di chilometri per arrivare in uffici dove la materia prima è l’informazione, non il ferro o la terra. Lavorano a distanza… ma da un luogo fisico imposto. È un paradosso tutto contemporaneo: si produce valore attraverso la connessione, ma si è ancora costretti alla prossimità.
Non è più, e da tempo, la catena di montaggio di stampo fordista.
Il lavoro d’ufficio moderno è fatto di interazioni a distanza, di processi digitali, di relazioni cognitive. Eppure, molti dirigenti continuano a considerare il lavoro remoto — o, con il vezzo linguistico tipicamente italiano, “lo smart working” — come una scorciatoia, una furbizia, una forma di imboscamento.
Si sospetta che chi lavora da casa lavori meno, come se la produttività si misurasse dal numero di testimoni che osservano una scrivania.
Questa diffidenza ha radici antiche.
Per secoli, il lavoro è stato associato alla fatica visibile: al gesto fisico, alla trasformazione tangibile della materia.
Aristotele lo collocava nella sfera della necessità, non della libertà; Locke e Marx lo riabilitarono come fondamento dell’identità umana, ma sempre legandolo alla manipolazione del reale. Lavorare significava lasciare un segno nel mondo.
Oggi, invece, il lavoro si è smaterializzato: non tocca più la materia, ma i segni. Non costruisce cose, ma relazioni, dati, processi.
Questo spostamento non è solo economico: è epistemologico. Cambia il modo in cui conosciamo e diamo senso all’agire umano.
Potremmo dire che il lavoro contemporaneo si divide in due grandi forme della conoscenza.
La prima è la conoscenza per contatto: quella che si esercita nell’esperienza diretta, nella presenza, nel rischio. È la conoscenza del vigile del fuoco che tocca la lamiera calda, del poliziotto che parla con il testimone, dell’infermiere che sente la pressione del tempo e della vita.
La seconda è la conoscenza per rappresentazione: quella che si realizza attraverso linguaggi, simboli, dati, interfacce. È il lavoro del progettista, dell’analista, del consulente, del programmatore, dell’amministrativo.
Entrambe sono necessarie.
La prima garantisce la continuità fisica del mondo; la seconda ne costruisce la coerenza simbolica.
Senza chi opera sul campo, l’infrastruttura sociale collasserebbe in poche ore.
Senza chi gestisce le reti, elabora informazioni e coordina sistemi, le azioni concrete si disperderebbero in caos.
Sono due dimensioni complementari: una radicata nel reale, l’altra nel virtuale, ma entrambe profondamente umane.
Il problema è che la nostra cultura, ancora prigioniera di una mentalità ottocentesca, fatica a riconoscerle come equivalenti in dignità.
Da un lato si idolatra la “presenza”, come se l’essere in un luogo fosse di per sé garanzia di impegno; dall’altro si disprezza la distanza, confondendola con disinteresse.
Così, chi lavora da remoto viene trattato con sospetto, e chi lavora sul campo viene sottopagato. Due facce della stessa miopia: quella di una società che misura il valore del lavoro in base alla sua visibilità, non alla sua responsabilità.
La verità è che oggi il lavoro non ha più confini stabili.
È una rete di relazioni in cui la competenza non si misura dallo spazio occupato, ma dal contributo dato.
Un tecnico che risolve un guasto da remoto o un medico che guida un intervento a distanza non lavorano “meno” di chi è fisicamente presente: lavorano diversamente.
Il punto non è dove si è, ma come si agisce e perché.
In questo senso, l’Italia — con i suoi più di ottomila comuni, ognuno diverso, ognuno in fondo abitabile — potrebbe diventare un laboratorio di civiltà.
Perché costringere migliaia di persone a vivere la routine dei pendolari, a intasare strade e treni, a sacrificare ore di vita per sedersi davanti a un monitor in un palazzo qualunque, quando la stessa attività potrebbe svolgersi da casa, da un coworking, o da un piccolo paese affacciato sul mare o tra le montagne?
La rete digitale non è un privilegio: è una possibilità di redistribuzione.
Portare il lavoro nei territori, e non le persone verso pochi poli urbani, significherebbe ridare vita alle comunità locali, ridurre l’inquinamento, restituire tempo alle famiglie e senso al quotidiano.
Ma per farlo serve una rivoluzione culturale: smettere di concepire il lavoro come controllo, e tornare a vederlo come fiducia.
Il lavoro remoto non è un’assenza, ma una diversa forma di presenza: una presenza cognitiva, intenzionale, fatta di attenzione e responsabilità.
Chi lavora da casa, o da un paese della Calabria o delle Dolomiti, contribuisce tanto quanto chi lavora in un ufficio di Milano o Roma.
Non si tratta di romanticismo: si tratta di riformare la percezione del valore.
A ben vedere, anche i soccorritori di questa mattina e il lavoratore digitale hanno qualcosa in comune: entrambi operano nell’invisibilità.
I primi perché agiscono nel momento in cui tutti distolgono lo sguardo; i secondi perché il loro lavoro avviene nello spazio immateriale della rete.
Entrambi rendono possibile la continuità del mondo, ma raramente vengono celebrati.
Forse dovremmo cominciare a riconoscere che il lavoro è un atto di responsabilità, non una questione di luogo.
Responsabilità verso le persone, verso il tempo, verso il bene comune.
E allora il poliziotto che copre un corpo sull’asfalto e l’ingegnere informatico che mantiene in funzione un sistema critico sono, ciascuno a suo modo, custodi della stessa cosa: la tenuta della civiltà.
Serve una nuova epistemologia del lavoro.
Una teoria che non separi più corpo e mente, presenza e distanza, ma li riconosca come due modalità dello stesso impegno conoscitivo.
Il lavoro manuale non è inferiore, così come quello digitale non è fittizio. Entrambi sono esperienze di realtà, solo su piani diversi.
È ora di smettere di giudicare il valore in base al rumore che produce o alla quantità di fatica visibile che richiede.
Un Paese maturo è quello che sa ringraziare chi interviene nei momenti drammatici, ma sa anche rispettare chi, in silenzio, fa funzionare ciò che permette a tutti di vivere.
Chi salva vite sull’asfalto e chi, attraverso un cavo di fibra ottica, coordina sistemi e decisioni.
Il loro comune denominatore è la responsabilità, non la posizione geografica.
Quando si riparte dopo aver visto una scena come quella di stamattina, ci si accorge che il lavoro, nel suo senso più pieno, non è mai solo un mezzo di sostentamento. È una forma di presenza nel mondo, di cura per gli altri, di costruzione della continuità collettiva.
E ogni gesto, ogni mestiere, ogni turno di notte, ogni connessione remota, ogni decisione presa con lucidità in mezzo al caos, concorre a tenere insieme ciò che chiamiamo civiltà.
Forse non potremo mai rimediare alla sproporzione tra stipendi e valore, tra visibilità e dignità, ma possiamo almeno smettere di confondere l’una con l’altra.
E riconoscere che il vero lavoro, quello che regge le nostre vite, si divide in due correnti: quella che si sporca le mani e quella che si consuma nella concentrazione invisibile.
Entrambe ci tengono vivi.
E allora sì: grazie a chi c’era stamattina su quell’autostrada, e grazie anche a chi, in silenzio, dietro uno schermo, costruisce le condizioni perché gli altri possano lavorare, comunicare, vivere.
Non sono mondi opposti, ma parti di un’unica, fragile, complessa rete di umanità.