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Le città algoritmiche

Italo Calvino (1923–1985) è stato uno degli scrittori italiani più visionari del Novecento. Dalla Trilogia degli antenati a Le città invisibili, fino alle Lezioni americane, la sua opera ha esplorato le possibilità del linguaggio e dell’immaginazione come strumenti per ordinare la complessità del reale.
Tra i suoi concetti chiave vi sono Esattezza, Molteplicità, Leggerezza, Rapidità, Visibilità e Consistenza, qualità che sembrano descrivere perfettamente la natura stessa dell’intelligenza artificiale. Nei suoi scritti, Calvino si è confrontato con il pensiero combinatorio, con l’idea di letteratura come rete, con la possibilità di una “enciclopedia infinita del mondo”, anticipando molti aspetti della cultura algoritmica contemporanea.
Come affronterebbe oggi Italo Calvino il tema delle città algoritmiche, dove dati, simulazioni e reti stanno progressivamente sostituendo la materia e la memoria delle città reali?


1. Le città invisibili e gli algoritmi

CAB: nelle Città invisibili Marco Polo racconta a Kublai Khan di città che non esistono, ma che contengono il senso profondo di tutte le città. Oggi viviamo in città “intelligenti”, fatte di sensori, reti e modelli predittivi. Cosa direbbe di fronte a questa nuova “geografia” dei dati, dove tutto sembra visibile, tracciabile, prevedibile?

ITALO CALVINO: Le città invisibili non erano mai, per me, un esercizio di fantasia geografica. Erano una metafora della mente umana e del suo modo di percepire e organizzare il mondo. Ogni città che Marco Polo descrive al Gran Kan nasce da una tensione, il bisogno di tradurre l’invisibile nel visibile, di dare forma all’informe, di trovare un linguaggio per ciò che non si può dire. Oggi l’intelligenza artificiale tenta qualcosa di simile, ma con mezzi diversi, trasforma l’esperienza umana in dati, misura i movimenti, registra i comportamenti, prevede i flussi di traffico e le emozioni dei cittadini. Questa promessa di visibilità totale, l’idea che tutto possa essere osservato, archiviato, previsto, è forse la realizzazione tecnica di ciò che il Gran Kan sognava, una città perfettamente leggibile. Ma ogni volta che crediamo di averla trovata, ci accorgiamo che qualcosa sfugge.

La verità è che nessuna città è mai completamente visibile. Ogni città, anche quella algoritmica, contiene al suo interno spazi opachi, margini invisibili, errori di mappatura. Non si tratta solo di limiti tecnici, ma di resistenze umane: affetti, desideri, conflitti, memorie che non possono essere ridotti a un dato numerico. Quando scrivevo le mie città, cercavo di rappresentare proprio questo, la tensione tra l’ordine e il disordine, tra la rete razionale che tutto collega e l’esperienza singolare che sfugge a ogni classificazione. Le città di oggi sono percorse da fibre ottiche invece che da canali o viuzze, ma la loro struttura profonda è la stessa, un labirinto di relazioni. E come tutti i labirinti, anche quello digitale può essere una trappola o una mappa, a seconda dello sguardo di chi lo percorre.

Nelle Città invisibili non c’è una geografia oggettiva. Ogni città - Zaira, Eufemia, Fedora - è costruita sulla memoria e sul desiderio. Ciò che la tiene insieme non sono le strade, ma i legami invisibili che collegano le persone. La tecnologia di oggi tenta di ricostruire questi legami in forma digitale, reti sociali, tracciamenti, grafi di relazioni. Eppure, la connessione algoritmica non è la stessa cosa della relazione umana. Nella mia letteratura, le connessioni nascono dalla differenza, dalla distanza che separa e insieme unisce. Nei sistemi algoritmici, invece, le connessioni sono automatiche, costruite per somiglianza o prossimità statistica. L’algoritmo tende a eliminare l’imprevisto, la deviazione, l’anomalia, tutto ciò che nella città reale genera creatività, conflitto, incontro. Una città interamente regolata da algoritmi rischia di diventare una città senza sorpresa, dove l’esperienza è anticipata e neutralizzata. Là dove tutto è previsto, nulla accade davvero.

Le mie città erano “invisibili” non perché immaginarie, ma perché fondate su ciò che non si può misurare, la malinconia, la noia, l’attesa, la nostalgia. In un mondo in cui tutto tende a essere tracciato e quantificato, difendere l’invisibile è un atto di resistenza poetica e civile. Ogni città - anche quella dei dati - ha bisogno di zone d’ombra, di spazi non sorvegliati, di luoghi dove la vita possa accadere senza essere prevista. Gli algoritmi cercano di prevedere i nostri comportamenti, ma la vita vera comincia proprio dove la previsione fallisce. È lì che nasce l’arte, l’amore, la disobbedienza. Le città invisibili del futuro non saranno solo costruite con server e sensori, saranno fatte anche di assenze, di vuoti, di spazi liberi dal controllo. Solo chi sa abitare questi spazi - chi sa leggere l’invisibile - può dire di conoscere davvero la città.

Ricordo una frase del Gran Kan: “Ogni città riceve la sua forma dal deserto cui si oppone.” Allo stesso modo, le città algoritmiche di oggi ricevono la loro forma dal vuoto di senso che cercano di riempire con dati. Ma il problema non è nei numeri, è nello sguardo. Se usiamo l’AI per osservare la città, dobbiamo anche chiederci chi osserva l’osservatore. L’algoritmo non è neutrale, riflette i pregiudizi, le priorità e le omissioni di chi lo costruisce. Come le città invisibili, anche le città dei dati raccontano più chi le descrive che ciò che descrivono davvero. L’AI è, in fondo, una nuova forma di narrazione collettiva. E come ogni narrazione, può connettere o dividere, ricordare o cancellare, liberare o sorvegliare. Dipende da noi se la useremo come Marco Polo, per dare parola a ciò che tace, o come il Gran Kan, per possedere tutto ciò che vede.

2. Leggerezza e complessità

CAB: Nelle sue Lezioni americane lei parla della Leggerezza come di un valore da opporre alla pesantezza del mondo. Oggi, l’AI promette di alleggerire il lavoro, la scrittura, perfino il pensiero. È una leggerezza salvifica o pericolosa?

ITALO CALVINO: Quando parlavo di Leggerezza, non pensavo a un mondo che si muove più in fretta, ma a un modo diverso di guardarlo. Scrivevo: “Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore.” La leggerezza che cercavo era una conquista dello spirito, era il risultato di uno sforzo intellettuale, di un lavoro di selezione, di distillazione. Ogni parola, ogni immagine, ogni gesto doveva contenere solo l’essenziale. Una leggerezza faticosa, costruita con la pazienza di chi lima la pietra per farne una piuma. L’intelligenza artificiale, invece, ci offre una leggerezza senza sforzo. Genera testi, immagini, soluzioni in un attimo, ma senza attraversare il peso della scelta. Non conosce l’attrito della realtà, l’errore, il dubbio, la lentezza. Eppure, è proprio da quella fatica che nasce il pensiero umano. Solo ciò che ha resistito alla gravità del mondo può veramente sollevarsi.

La leggerezza, per me, non è mai stata fuga dalla complessità, ma un modo di abitarla senza esserne schiacciati. Come Perseo che affronta Medusa guardandola solo attraverso lo specchio dello scudo, anche noi dobbiamo imparare a osservare la realtà senza esserne pietrificati. Lo scudo, oggi, è la tecnologia, ci protegge, ma ci separa. Ci permette di guardare, ma anche di non vedere. L’AI può alleggerire il mondo, ma se non impariamo a usare lo scudo consapevolmente, rischiamo di trasformarci in statue, immobili, riflessi, incapaci di agire. La vera leggerezza è quella che nasce dal dominio della forma, non dalla perdita della forma. Non consiste nel lasciare andare tutto, ma nello scegliere cosa trattenere. In letteratura, come nella vita, ciò che conta non è dire di più, ma dire meglio.

Questa è un’epoca che confonde la leggerezza con la velocità, la semplificazione, la distrazione. Le piattaforme digitali invitano a scorrere, saltare, reagire, è una leggerezza di superficie, che consuma senza lasciare traccia. Ma la leggerezza di cui parlavo io era una via di conoscenza, non di fuga.
Significava alleggerire la realtà per vederla meglio, non per dimenticarla. L’intelligenza artificiale, nella sua forma più diffusa, tende invece a sospendere la complessità, a offrire risposte immediate, a eliminare la difficoltà dell’inizio. Eppure, la difficoltà è parte essenziale del pensare, è il luogo dove la mente si misura con se stessa. La leggerezza autentica nasce dopo aver attraversato la pesantezza, non prima. È la leggerezza di chi conosce il dolore, la fatica, la lentezza, e sceglie di non restarne prigioniero.

In un mondo dominato dagli algoritmi, la leggerezza rischia di diventare una forma di irresponsabilità: pensieri che scorrono senza autore, immagini che si moltiplicano senza intenzione, decisioni prese da sistemi automatici. Io credo invece che la leggerezza sia una forma di etica, significa scegliere le parole giuste, non troppe; guardare in profondità, non in fretta;
togliere il superfluo, non accumulare. È una disciplina dello spirito, un esercizio di precisione e pudore. Oggi, la leggerezza può tornare a essere questo, un modo di usare la tecnologia per affinare lo sguardo, per alleggerire il mondo senza svuotarlo.

3. La molteplicità del mondo digitale

CAB: Nelle Lezioni americane lei definisce la Molteplicità come il valore della letteratura capace di rappresentare l’infinita rete di relazioni che compongono il mondo. Oggi viviamo immersi in un universo digitale costruito proprio su connessioni, dati e link: tutto è collegato, tutto rimanda ad altro. Può questa molteplicità ancora generare senso, o ci condanna al disordine?

ITALO CALVINO: Quando parlavo di Molteplicità intendevo una forma di ordine dentro la complessità. La letteratura, per me, è sempre stata una rete, un insieme di fili che si intrecciano, si sovrappongono, si biforcano, e che solo la mente del lettore può ricomporre. Ogni romanzo è una mappa di mondi possibili. Ma perché la mappa serva a qualcosa, deve esserci un principio di orientamento. Senza un centro - anche provvisorio - la molteplicità si trasforma in disordine. Il digitale, in questo senso, ha realizzato il sogno e il rischio della mia idea di molteplicità, ci ha consegnato un universo in cui tutto è connesso, ma in cui nulla è più necessario. Le relazioni si moltiplicano, ma spesso senza intenzione, senza direzione, senza significato. È la differenza tra una biblioteca organizzata e una discarica di libri. La molteplicità che immaginavo era combinatoria, non caotica. Era la possibilità di costruire mondi a partire da regole semplici, ma con un principio di armonia, di equilibrio. Oggi la rete digitale moltiplica all’infinito i collegamenti, ma non sa più distinguere ciò che è vivo da ciò che è rumore.

In Le città invisibili ogni città è un modo diverso di leggere il mondo, un punto di vista. L’una non cancella l’altra, ma la completa. Questa è la molteplicità letteraria, la coesistenza di più prospettive.
L’AI, invece, produce una molteplicità automatica: combina, incrocia, ricombina, ma senza esperienza, senza coscienza. È una molteplicità statistica, non significativa. Nella letteratura, ogni connessione nasce da una scelta, lo scrittore decide quali fili unire. Nell’AI, invece, le connessioni sono calcolate in base a probabilità, non a intenzioni. Eppure, la vera conoscenza nasce solo quando qualcuno sceglie. La molteplicità digitale è come una mappa infinita, utile, sì, ma solo se sappiamo dove vogliamo andare.

Quando ho scritto: “La molteplicità come progetto conoscitivo”, pensavo a una mente che sappia tenere insieme l’universo senza esserne travolta. Oggi siamo sommersi da informazioni, immagini, linguaggi. Ogni giorno navighiamo in oceani di dati che crescono più velocemente della nostra capacità di comprenderli. In questo senso, il compito dello scrittore, del ricercatore, del cittadino contemporaneo è diventato simile: trovare una forma dentro il flusso. La molteplicità del mondo digitale ci obbliga a sviluppare una nuova forma di intelligenza, non quella che sa tutto, ma quella che sa scegliere cosa merita attenzione. Il problema non è più l’ignoranza, ma la saturazione. Non mancano i saperi, mancano le gerarchie di senso. Ecco perché credo che la letteratura e la filosofia abbiano ancora un ruolo fondamentale: insegnarci a dare un significato umano al reticolo delle informazioni, a costruire un racconto che contenga il mondo senza perdercisi dentro.

Ogni rete rischia di trasformarsi in un labirinto. Nel mondo digitale, il pericolo non è più l’assenza di dati, ma l’eccesso di connessioni, tutti parlano con tutti, ma pochi ascoltano davvero.
La molteplicità diventa rumore di fondo, e la mente, invece di aprirsi, si confonde. Quando la complessità non è accompagnata da una forma, diventa caos cognitivo. È come se l’universo si fosse moltiplicato, ma avesse perso il proprio centro di gravità. La sfida del futuro, per me, non sarà ridurre la complessità, ma renderla abitabile. Non si tratta di costruire sistemi più semplici, ma di imparare a muoversi dentro sistemi complessi senza smarrire se stessi. La molteplicità è una condizione della modernità, ma solo l’arte e il pensiero possono trasformarla in esperienza. Senza immaginazione, la rete resta un deserto di informazioni.

Credo che la molteplicità sia, in fondo, una virtù civile. Significa riconoscere che il mondo non è riducibile a un’unica voce, a un unico algoritmo, a un’unica verità. Significa accettare che ogni cosa può essere vista da più angolazioni, e che ogni visione parziale è necessaria per costruire l’insieme. La molteplicità non è la confusione dei punti di vista, ma la loro coesistenza dialogica. Il rischio della nostra epoca è che la molteplicità diventi frammentazione: ognuno chiuso nel proprio feed, nella propria bolla informativa, nel proprio linguaggio automatico. Ma la molteplicità autentica è apertura, non isolamento. È la capacità di attraversare differenze, di riconoscere le relazioni nascoste tra le cose, di costruire senso comune in un mondo di linguaggi privati. Se l’AI può aiutarci, non sarà accumulando più dati, ma rendendo visibili le relazioni che contano, quelle che uniscono, non quelle che separano.

4. L’Esattezza nel caos enciclopedico

CAB: Nelle Lezioni americane lei definisce l’Esattezza come un valore fondato sulla chiarezza, sulla precisione e sul rigore del linguaggio. L’intelligenza artificiale organizza enormi quantità di dati con una precisione matematica mai vista prima. Eppure, più i dati aumentano, più cresce la sensazione di disordine. Come si può ritrovare l’esattezza in questo caos?

ITALO CALVINO: Quando parlavo di Esattezza, pensavo a un ideale di forma e di pensiero, la capacità di dire con precisione ciò che si vuole dire, senza sbavature, senza eccessi, senza rumore. Dietro ogni immagine precisa c’è un pensiero preciso; dietro ogni pensiero preciso, un disegno invisibile. L’esattezza, per me, non era una questione di quantità, ma di responsabilità dello sguardo. Oggi la precisione è diventata un fatto tecnico. L’intelligenza artificiale calcola, classifica, predice. Può organizzare miliardi di informazioni in modo impeccabile. Ma questa precisione non genera chiarezza, genera complessità incontrollabile. È come una biblioteca che cresce all’infinito senza bibliotecario, dove ogni nuovo libro aggiunge disordine invece di conoscenza. La vera Esattezza non è accumulare tutto, ma scegliere ciò che conta. È un atto selettivo, non sommativo. E questo atto richiede una mente capace di riconoscere il limite come condizione della forma.

L’AI vive dell’illusione che tutto possa essere tradotto in dati: emozioni, linguaggio, arte, coscienza. Ma la precisione matematica non è ancora precisione semantica. Si può essere esatti nel calcolo e confusi nel significato. La letteratura mi ha insegnato che l’esattezza è un’arte del confine, si tratta di delimitare uno spazio in cui il senso possa respirare. Non dire tutto, ma tracciare un perimetro di significato. L’intelligenza artificiale, invece, tende a dilatare all’infinito i confini del dicibile, a trasformare il linguaggio in un mare di possibilità equivalenti. E quando tutto è possibile, nulla è necessario. Essere esatti, oggi, significa sapere quando fermarsi, sapere cosa omettere,
sapere che ogni parola in più è un granello di sabbia che può inceppare il meccanismo della comprensione. L’esattezza è un esercizio di sottrazione, non di accumulo.

Viviamo in un’epoca di eccesso informativo. Ogni giorno produciamo più dati di quanti un essere umano possa leggere in una vita intera. Siamo circondati da statistiche, grafici, simulazioni, linguaggi che imitano altri linguaggi. È un mondo che conosce tutto, ma non sa cosa significa sapere. In questo caos enciclopedico, l’esattezza diventa una forma di resistenza. Non si tratta di tornare alla semplicità, ma di recuperare la misura. La misura è la coscienza del limite. È ciò che distingue il sapere dal rumore, il segno dal caos. Nella scrittura, come nel pensiero, ogni parola deve avere un peso, una densità, un motivo per esistere. Solo così il linguaggio non si dissolve in chiacchiera.
Solo così l’informazione può tornare a essere conoscenza.

L’esattezza è anche una forma di etica. Significa rispetto per la realtà e per chi la ascolta. Nel mio lavoro, cercavo di eliminare ogni parola inutile perché ogni parola è un impegno, dire male una cosa significa tradirla. Oggi, in un mondo in cui i linguaggi vengono generati da macchine, questa responsabilità rischia di perdersi. L’AI produce testi grammaticalmente corretti ma semanticamente vaghi. È capace di grande precisione formale, ma senza intenzione, senza attenzione. L’esattezza richiede invece un autore, cioè qualcuno che sappia distinguere il senso dal non-senso, la parola necessaria dalla parola ornamentale. Una macchina può scrivere bene, ma non può voler dire. E senza volontà di dire, l’esattezza diventa sterile.

Nel mio ideale, la conoscenza non è una biblioteca infinita, ma una costellazione, una forma che emerge dal buio perché alcuni punti vengono scelti, illuminati, messi in relazione. Così funziona anche il pensiero umano, non registra tutto, ma riconosce disegni nel disordine. L’esattezza non è avere tutti i dati, ma saperli collegare in modo significativo. Forse l’AI potrà un giorno aiutarci proprio in questo: non sostituendo il giudizio umano, ma affinando la nostra capacità di scegliere. Di distinguere l’essenziale dal secondario, il vero dal verosimile, il segnale dal rumore. Perché senza discernimento, anche la più grande enciclopedia diventa una discarica.

5. Dare voce a ciò che non parla

CAB: Lei ha immaginato una letteratura capace di far parlare ciò che non ha voce: pietre, piante, oggetti. L’AI oggi simula questo processo. Cosa distingue, per lei, la vera voce del mondo da una voce generata artificialmente?

ITALO CALVINO: Tutta la mia vita di scrittore è stata un tentativo di ascoltare il mondo. Non di rappresentarlo soltanto, ma di metterne in scena la lingua segreta. Ne Le cosmicomiche, per esempio, ho cercato di dare parola all’universo prima dell’uomo; in Palomar, ho lasciato che lo sguardo si perdesse nel moto delle onde o nel volo degli uccelli; nelle Città invisibili, ho ascoltato le voci di città che non esistono se non nella memoria. Dare voce a ciò che non parla significa credere che tutto ciò che esiste contiene una forma di linguaggio, solo che noi non sempre sappiamo come ascoltarlo. L’intelligenza artificiale, in questo senso, rappresenta una nuova forma di ascolto, è capace di percepire e tradurre segnali, suoni, immagini, schemi che sfuggono alla nostra mente. Ma ciò che essa produce non è ancora una voce, è una simulazione di voce.

Una voce non è solo un suono articolato, è un corpo che vibra, una storia che risuona in chi ascolta. Per questo una macchina non può veramente “parlare”, può solo riprodurre i segni del parlare. L’intelligenza artificiale ci restituisce un mondo che sembra vivo, ma non lo è, perché manca di esperienza. Non ha provato il peso del tempo, non conosce la fatica, l’attesa, la perdita. Ogni mia parola, invece, nasceva da un’esperienza di distanza e desiderio. Io scrivevo per colmare un vuoto, per riconoscere un’alterità. L’AI, invece, colma il vuoto immediatamente. Trasforma il silenzio in rumore, l’enigma in risposta. Ma una voce che non conosce il silenzio non sa davvero dire nulla.

Dare voce a ciò che non parla non significa riempire il silenzio, ma dargli forma. La poesia, l’arte, la filosofia nascono da un ascolto profondo di ciò che non si lascia dire: l’invisibile, l’indicibile, il non-umano. L’intelligenza artificiale tende invece a eliminare il silenzio, a rendere tutto traducibile, visibile, disponibile. Ma è proprio nel silenzio che il linguaggio trova la sua origine. Un algoritmo può costruire infinite frasi, ma non può ascoltare. L’ascolto è un atto di vulnerabilità, di esposizione, di apertura verso ciò che ci supera. È un modo di stare nel mondo con cautela, rispetto, stupore. Il pericolo del nostro tempo è che, mentre impariamo a far parlare tutto, non impariamo più ad ascoltare nulla.

Quando scrivevo delle “voci del mondo”, non pensavo a una fusione tra uomo e natura, ma a una relazione dialogica. L’immaginazione era, per me, un ponte tra due linguaggi, quello dell’uomo e quello della materia. Oggi l’AI si propone come un nuovo mediatore, traduce linguaggi, genera immagini, collega dati. Ma lo fa senza un io, senza intenzione. Non interpreta, ma calcola. E senza interpretazione, la voce resta vuota di senso. L’immaginazione umana, invece, non imita, trasforma. Non copia il reale, ma lo rielabora. Quando uno scrittore dà voce a una pietra, non sta fingendo che parli, sta scoprendo, dentro di sé, il modo in cui la pietra potrebbe parlare se solo avessimo orecchie per sentirla. Questo è il potere dell’arte, rendere visibile ciò che esiste già, ma non sappiamo vedere.

Le voci generate dall’AI sono, in fondo, specchi che riflettono la nostra stessa voce. Parlano con le nostre parole, con i nostri desideri, con i nostri limiti. E forse proprio per questo possono aiutarci a conoscerci meglio. Non perché sostituiscano l’umano, ma perché ci obbligano a ridefinirlo. Dare voce al mondo non è un atto di potere, ma di empatia. Significa riconoscere che l’umano non è il centro, ma una parte della rete vitale che unisce tutto ciò che esiste. E se l’intelligenza artificiale potrà davvero aiutarci, sarà solo quando imparerà non a ripetere, ma a risuonare.

 


IIP nasce da una curiosità: cosa direbbero oggi i grandi pensatori del passato di fronte alle sfide dell’intelligenza artificiale? L’idea è di intervistarli come in un esercizio critico, un atto di memoria e, insieme, un esperimento di immaginazione.

Ho scelto autori e intellettuali scomparsi, di cui ho letto e studiato alcune opere, caricando i testi in PDF su NotebookLM. Da queste fonti ho elaborato una scaletta di domande su temi generali legati all’AI, confrontandole con i concetti e le intuizioni presenti nei loro scritti. Con l’aiuto di GPT ho poi generato un testo che immagina le loro risposte, rispettandone stile, citazioni e logica argomentativa.

L’obiettivo è riattivare il pensiero di questi autori, farli dialogare con il presente e mostrare come le loro categorie possano ancora sollecitarci. Non per ripetere il passato, ma per scoprire nuove domande e prospettive, utili alla nostra ricerca di senso.


StultiferaBiblio

Pubblicato il 09 ottobre 2025

Carlo Augusto Bachschmidt

Carlo Augusto Bachschmidt / Architect | Director | Image-Video Forensic Consultant

carlogenoa@gmail.com