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In tanti anni di lavoro ho letto centinaia di e-mail, report e documenti aziendali. Quasi tutti scritti in fretta, spesso pieni di formule automatiche, frasi fatte e parole usate “perché si è sempre fatto così”. È curioso: nel mondo dell’IT e del project management, dove si misura tutto, la precisione sparisce appena si prende in mano la tastiera. Si parla di efficienza, ma si scrive con sciatteria. Eppure la qualità del pensiero si riconosce anche da una virgola al posto giusto. Perché chi scrive male, quasi sempre, pensa in modo confuso. E le conseguenze poi si riflettono sul progetto...


Nelle comunicazioni aziendali capita spesso di leggere: Egregio Signor Rossi. È una formula che suona rispettosa e formale, ma se la guardiamo con attenzione rivela una contraddizione.

Egregio viene dal latino egregius, composto da ex (“fuori”) e grex (“gregge”). Significa letteralmente “colui che si distingue dagli altri”. In origine era un complimento, un riconoscimento di merito o di valore. Oggi, invece, è diventato una formula standard, ripetuta in modo automatico, anche quando non si conosce la persona a cui ci si rivolge. Paradossalmente, una parola nata per indicare l’eccezione è diventata un segno di uniformità.

l confronto con esimio aiuta a capire meglio. Esimio, da eximius, vuol dire “eccelso, fuori dal comune”. Lo si usa per persone stimate per il loro sapere o per la loro competenza — un docente, uno studioso, un artista. È un termine che implica un riconoscimento reale, non una semplice cortesia.
Ma nessuna azienda scriverebbe “Esimio Dottor Rossi”: suonerebbe esagerato, fuori luogo. Così resta egregio, che sembra “giusto a metà”: né troppo, né troppo poco, e soprattutto innocuo.

Questa scelta linguistica racconta più di quanto sembri. Rivela un’abitudine a scrivere senza pensare, a usare la lingua come un modulo prestampato. Quando un’organizzazione si rivolge a una persona usando parole che non significano più nulla, trasmette distanza, non rispetto. La forma prevale sul senso.

Molti uffici continuano a usare lo stesso registro linguistico di decenni fa, quasi fosse un rituale. Ma un linguaggio burocratico e impersonale non è mai neutro: costruisce un certo tipo di relazione, spesso fredda, verticale, automatica. Scrivere “Buongiorno Marco” o “Gentile collega” non è segno di confidenza indebita, ma di chiarezza e attenzione.

Le parole che scegliamo dicono molto sul modo in cui pensiamo le persone a cui ci rivolgiamo. La lingua burocratica sopravvive perché rassicura: permette di scrivere senza esporsi, di comunicare senza comunicare davvero. Ma ogni parola svuotata di significato è una piccola rinuncia alla precisione, e quindi alla cura.

Recuperare il senso delle parole non significa curare la forma: significa prendersi la responsabilità di ciò che si dice. Una lingua precisa non è solo elegante, è giusta.


Appendice per manager (e aspiranti tali)

Nel mondo dei project manager e, più in generale, dei manager del settore IT, la parola scritta è uno strumento quotidiano tanto quanto una dashboard o un diagramma di Gantt. Eppure, proprio dove si parla di “comunicazione efficace”, spesso si scrive nel modo meno efficace possibile.

Email che sembrano verbali notarili, report che confondono precisione con prolissità, documenti in cui il tono resta sospeso tra il burocratico e l’imitazione maldestra dell’inglese aziendale. In questo linguaggio neutro e anodino, l’unica cosa che si distingue davvero è l’assenza di pensiero.

Molti professionisti sanno usare alla perfezione un software di gestione, ma non una congiunzione subordinata. Non per mancanza di cultura, ma perché la scrittura non viene più percepita come competenza. Si dà per scontato che basti “sapere fare”, dimenticando che nel nostro lavoro — fatto di piani, strategie e relazioni — ciò che non si sa dire, non si sa nemmeno pensare fino in fondo.

Un manager che scrive male non comunica male solo per sé: rende confusa la sua squadra, debole la sua leadership e, alla lunga, opaca la cultura aziendale.
E qui sta il punto ironico ma serio: non sono i certificati di professionalità a rendere una persona davvero professionale. È la capacità di pensare con chiarezza e di tradurre quel pensiero in parole comprensibili. Un attestato può dire che conosci una metodologia; il modo in cui scrivi rivela se hai capito davvero come applicarla.

Scrivere bene non significa essere letterati: significa rispettare chi ci legge, evitare ambiguità, scegliere le parole come si scelgono le priorità di un progetto. E forse, se i manager imparassero a scrivere con la stessa cura con cui compilano i KPI, scoprirebbero che la vera efficienza comincia da una frase chiara.


StultiferaBiblio

Pubblicato il 10 ottobre 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto