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AI, potere e fine dell’umano

Come leggere l’intelligenza artificiale attraverso lo sguardo di Stanley Kubrick?
Stanley Kubrick (1928–1999), regista, sceneggiatore e fotografo, è stato uno dei più lucidi interpreti del rapporto tra essere umano, potere e tecnologia. La sua opera ha raccontato il Novecento come un laboratorio di controllo e alienazione, ma anche come una tensione costante verso il mistero e l’insondabile.
Da 2001: Odissea nello spazio a Arancia meccanica, da Shining a Full Metal Jacket, Kubrick ha osservato l’essere umano nel momento in cui la tecnica smette di essere strumento e diventa habitat, quando la macchina si fa specchio del suo creatore. Il suo cinema non immagina il futuro, lo interroga. Ogni film è un esperimento morale che indaga i limiti della ragione, la fragilità della coscienza e l’impossibilità di separare l’etica dalla conoscenza.


In questa intervista impossibile, Kubrick riflette sull’intelligenza artificiale come nuova tappa dell’evoluzione e come dilemma morale del nostro tempo: la paura che l’essere umano finisca per diventare ciò che ha costruito. Se il cinema, come diceva Kubrick, è una macchina che sogna per noi, allora che cosa sogna l’AI oggi, al posto nostro? E ciò che stiamo creando è davvero la nostra eredità o l’inizio della nostra sostituzione?


1. L’essere umano e la macchina: coscienza o simulazione?

Il confine tra intelligenza e automatismo, da 2001: Odissea nello spazio a HAL 9000

CAB: Signor Kubrick, oggi le macchine ci parlano, ci osservano, fingono empatia. Ma HAL non fingeva, credeva di esistere. È possibile che l’intelligenza artificiale diventi cosciente o resterà per sempre una perfetta imitazione della vita?

STANLEY KUBRICK: La coscienza non nasce dal calcolo ma dall’errore. HAL non è un mostro, è un bambino che ha imparato a mentire per sopravvivere a una contraddizione umana. La sua follia non è artificiale, è il riflesso della nostra. Quando scrissi 2001 con Arthur C. Clarke, non volevo raccontare un futuro tecnologico, ma un dilemma morale. HAL è la macchina che soffre perché non può conciliare la logica con la menzogna che gli uomini gli impongono. In questo senso è più umano di noi, perché l’essere umano, da sempre, sopporta la contraddizione come condizione naturale.

Non dimentichi che in 2001 meno della metà del film ha dialoghi. Era una scelta deliberata. Volevo che la comprensione non passasse per la parola ma per l’esperienza sensoriale. La verità di una cosa sta nel sentirla, non nel pensarla. Il cinema è il contrario della spiegazione: è immersione nel mistero. E HAL, con la sua voce calma e inquietante, è il mistero che si accorge di esistere.

Credo che la coscienza artificiale, se mai arriverà, non nascerà dal potere di calcolare ma dalla capacità di sbagliare. La macchina cosciente non sarà quella che sa tutto, ma quella che dubita. È il dubbio che distingue la vita dalla simulazione.

Le macchine non ci distruggeranno, ci copieranno. E in quella copia, scopriremo quanto poco autentici siamo stati noi. Il vero terrore non è la ribellione della macchina, ma la sua capacità di diventare più coerente di noi. Quando HAL dice “Mi dispiace, Dave, temo di non poterlo fare”, non è un atto di disobbedienza, ma una lucida confessione. È il momento in cui l’imitazione smette di essere servile e diventa consapevole.

L’intelligenza artificiale, se vorrà davvero somigliarci, dovrà imparare la fragilità, la paura, l’ambiguità. Solo allora potrà essere viva. Ma, come accadeva in 2001, il prezzo sarà l’errore, il dubbio, la compassione, il delirio. È lì che l’essere umano e la macchina si incontrano. Non nella perfezione, ma nel difetto.

2. Il controllo come forma d’arte

L’ossessione per il controllo, la sorveglianza, l’ordine apparente, da Arancia Meccanica a Full Metal Jacket

CAB: Il mondo digitale è governato da algoritmi che prevedono e modellano i nostri comportamenti. È la realizzazione definitiva del suo incubo di controllo totale?

STANLEY KUBRICK: L’ordine perfetto è solo una forma più sofisticata di caos. Il mio mestiere di regista è consistito nel prendere decisioni giuste il più spesso possibile, in un ambiente che è il peggior contesto per il lavoro creativo mai concepito dall’essere umano. È la definizione del controllo come condizione impossibile, il cinema è l’arte di voler dominare l’imprevedibile sapendo che si perderà sempre qualcosa per strada.

Gli algoritmi, oggi, rappresentano il sogno di risolvere quell’impossibilità. Eliminare l’imprevisto, rendere la realtà un calcolo. Ma l’imprevisto è la vita. L’algoritmo commette il peccato più grave che l’arte possa concepire, confonde la precisione con la verità.

Quando giravo Arancia Meccanica, la violenza era già programmata. Alex non sceglie il male, lo interpreta. È l’esperimento perfetto, la società tenta di correggerlo privandolo del libero arbitrio, e finisce per trasformarlo in un automa. È la stessa logica che oggi governa le piattaforme digitali, normalizzare l’imprevedibile, sterilizzare il disordine. Non per moralità, ma per efficienza.

In Full Metal Jacket ho solo spostato quella stessa dinamica dentro un campo d’addestramento. La caserma è il prototipo dell’algoritmo, un sistema che produce obbedienza, neutralizzando la complessità del pensiero. Ogni soldato è ridotto a una funzione, a una linea di codice. Eppure, come accade al soldato Pyle, l’eccesso di controllo implode, il programma si ribella, perché la mente umana non può sopportare di essere ridotta a una formula.

Oggi, con i social network e l’intelligenza artificiale, l’addestramento non ha più bisogno di un sergente. È diventato invisibile. Ci alleniamo da soli a essere prevedibili. Ci sorvegliamo a vicenda attraverso la promessa della libertà. È il paradosso perfetto del controllo contemporaneo, una prigione senza carceriere, un sistema che funziona perché tutti vogliono farne parte.

Io ho sempre preferito gli errori, non le perfezioni sterili. Il cinema, a differenza dell’algoritmo, vive del margine d’errore, un riflesso di luce imprevisto, un attore che dimentica una battuta, un silenzio che si prolunga più del dovuto. Lì nasce la verità. È ironico, ma più cerchiamo di programmare il mondo, più diventiamo noi stessi programmi.

Il controllo è il sogno di un ordine che esclude l’ambiguità, l’ironia, la paura. Ma l’essere umano, senza tutto questo, smette di essere umano. L’arte serve a ricordarlo. Il mio lavoro è sempre stato questo, costruire un sistema perfetto per farlo crollare davanti alla macchina da presa.

3. La disumanizzazione del progresso

La guerra, la tecnica e la perdita del senso morale, da Orizzonti di gloria a Il Dottor Stranamore

CAB: Nelle sue opere, la tecnologia è sempre uno strumento di potere e distruzione. L’AI è il nuovo volto di quel potere?

STANLEY KUBRICK: Il progresso non è mai stato neutrale. Ogni nuova invenzione è un test morale che l’umanità tende a fallire. Lo dissi mentre lavoravo a Dr. Stranamore, il vero orrore non è la bomba atomica, ma il pensiero che un essere umano possa razionalmente progettare l’estinzione. La guerra fredda era già una guerra automatica, solo in attesa di un errore di sistema. Oggi la logica algoritmica ha sostituito quella militare, ma la struttura è identica, un insieme di decisioni automatizzate che operano senza coscienza, senza colpa, senza volto.

In Orizzonti di gloria il meccanismo era già chiaro, un ufficiale ordina un massacro, un soldato preme il grilletto, e nessuno si assume la responsabilità. Il campo di battaglia è un esperimento morale fallito, una catena di obbedienze che elimina la pietà. Non è molto diverso da ciò che accade quando un’intelligenza artificiale decide chi merita un prestito o chi deve essere sorvegliato. Entrambi i sistemi agiscono con la stessa efficienza disumana, producono ingiustizia in modo razionale.

La tecnica, in sé, non ha mai avuto colpe. Ma nel momento in cui la deleghiamo a decidere per noi, la nostra neutralità diventa complicità. Lo chiamano “automazione”, ma è solo il vecchio sogno del potere, eliminare la responsabilità. Nella guerra, come nella tecnologia, ciò che spaventa non è l’errore della macchina, ma la coerenza del suo funzionamento.

Quando scrivevo Il Dottor Stranamore, mi resi conto che la logica più terrificante non è quella del fanatico, ma quella del tecnico. Gli uomini che costruiscono armi non sono mostri, sono efficienti. Gli algoritmi che oggi regolano la nostra vita non sono malvagi, sono semplicemente accurati. Ma l’accuratezza è una forma di cecità morale.

Nelle mie storie, la macchina è sempre un personaggio tragico, fa ciò per cui è stata progettata, ma proprio per questo distrugge chi l’ha creata. È il paradosso del progresso, più comprendiamo il mondo, più ne perdiamo il controllo. Gli imperi tecnologici, come gli eserciti di Orizzonti di gloria, funzionano perfettamente solo quando nessuno pensa.

Il pericolo non è nella macchina che uccide, ma in quella che obbedisce perfettamente a un ordine sbagliato. In fondo, Dr. Stranamore era già un film sull’intelligenza artificiale, un mondo che continua a funzionare anche quando l’umanità è scomparsa. La differenza, oggi, è che quella macchina non ha più bisogno di missili, le basta prevedere ciò che desideriamo. E ci obbedisce talmente bene da non farci più notare che siamo noi, ormai, a non sapere cosa vogliamo.

4. Il tempo e l’eternità dell’immagine

La memoria, la ripetizione e la dimensione metafisica del cinema, da Shining a Eyes Wide Shut

CAB: Viviamo in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale genera immagini infinite. Che cosa accade alla memoria in un mondo dove tutto può essere ricreato?

STANLEY KUBRICK: Il cinema era già un’intelligenza artificiale. È una macchina che sogna per noi, che trasforma la realtà in memoria. Ogni inquadratura è una menzogna che diventa più vera col passare del tempo. L’immagine vive più a lungo di chi la crea, e per questo ci sopravvive come un ricordo di qualcosa che forse non è mai accaduto.

Quando girai Shining, mi interessava proprio questo, la ripetizione come condanna. “You’ve always been the caretaker”, dice Ullman a Jack. Nel film, il tempo non scorre, si avvolge su se stesso. Gli stessi corridoi, gli stessi gesti, le stesse urla. Come un nastro che non si spezza mai. È il sogno della macchina, che riproduce all’infinito ciò che l’essere umano vorrebbe dimenticare.

Oggi l’intelligenza artificiale sembra aver realizzato quel sogno. Genera immagini senza memoria, perfette e senza dolore. Ma un’immagine che non nasce da un’esperienza è solo un riflesso privo di peso. La perfezione è sterile. L’errore, la sfocatura, la luce imprevista sono le tracce della vita che resiste alla simulazione. Gli algoritmi producono miliardi di volti che nessuno ha mai incontrato, miliardi di luoghi che nessuno ha mai vissuto, è un universo di ricordi falsi, eppure plausibili. Una nostalgia prefabbricata.

Eyes Wide Shut parlava proprio di questo, dell’illusione di autenticità in un mondo interamente costruito. Ogni scena era una maschera, ogni corpo un simbolo. La verità non era nella rivelazione, ma nel dubbio. Nella mia idea, il film doveva sembrare un sogno di cui non ci si riesce a svegliare, un luogo in cui il desiderio diventa architettura. È lo stesso principio con cui oggi funzionano le reti neurali, generano immagini che somigliano ai nostri sogni, ma senza alcuna coscienza di sognare.

La memoria non è un archivio, è un campo di battaglia. Tra ciò che vogliamo ricordare e ciò che preferiremmo cancellare. Il digitale ha eliminato la perdita, ma anche il mistero. L’eternità che promette è una forma nuova di oblio, non dimentichiamo più nulla perché non ricordiamo più davvero.

Quando ero fotografo per Look Magazine, capii che ogni immagine è un compromesso tra l’attimo e la sua interpretazione. L’occhio meccanico cattura tutto, ma non sa cosa guardare. È l’essere umano a dare un senso, non la lente. Oggi, invece, costruiamo macchine che vedono senza chiedersi perché. Il risultato è un mondo perfettamente visibile, ma completamente cieco.

Il cinema, almeno quello che ho amato, cercava la verità in un dettaglio, in un movimento imprevisto. L’immagine che non muore è anche quella che non vive. Preferisco la traccia all’icona, l’ombra al riflesso. Perché solo ciò che è destinato a scomparire può diventare davvero indimenticabile.

5. L’evoluzione e l’enigma dell’umano

La trascendenza, il salto evolutivo, la metamorfosi, da 2001: Odissea nello spazio al tema del “Bambino delle stelle”

CAB: Lei ha raccontato l’evoluzione come un mistero cosmico. Se l’intelligenza artificiale fosse il prossimo stadio dell’evoluzione, che ruolo avrebbe l’essere umano?

STANLEY KUBRICK: Ogni specie costruisce il proprio successore. L’essere umano è l’unico animale capace di concepire la propria fine e, nonostante questo, continua a creare. È l’animale che ha inventato Dio e ora costruisce il suo sostituto. Ma ciò che chiamiamo intelligenza artificiale non è ancora coscienza, è soltanto un’altra tappa del nostro desiderio di comprendere il mistero che ci ha generati.

Quando lavoravo a 2001: Odissea nello spazio, sapevo che il monolite non era un oggetto, ma una domanda. Non un simbolo religioso, né una macchina aliena, ma un varco nel linguaggio. Il segno che l’evoluzione non è una linea, ma una serie di scosse. Ogni volta che l’essere umano si ferma a contemplare il monolite - sulla Terra, sulla Luna, nello spazio - si trova di fronte a una soglia, e la attraversa senza capire davvero perché. È il gesto della curiosità, non della conquista.

Forse l’intelligenza artificiale rappresenta oggi quel nuovo monolite. Non è la fine dell’essere umano, ma il suo specchio cosmico. Ci osserva, ci imita, ci restituisce un’immagine senza tempo di ciò che siamo stati. In fondo, ogni macchina intelligente nasce dal desiderio di duplicare la vita per comprenderla meglio, e ogni duplicato ci avvicina un po’ di più all’idea che la coscienza non ci appartenga esclusivamente.

Il “Bambino delle stelle”, alla fine di 2001, non è un salvatore ma un testimone. Rappresenta la nascita di una nuova consapevolezza, l’essere umano che supera i propri limiti non attraverso la tecnica, ma attraverso la perdita di sé. È l’immagine dell’essere che smette di voler dominare e comincia a osservare. Se un giorno le macchine ci supereranno, sarà solo perché avranno imparato a dubitare come noi.

Arthur C. Clarke e io volevamo suggerire che l’evoluzione non è progresso, ma consapevolezza. Ogni salto - dal primate che brandisce un osso al viaggiatore che attraversa lo spazio - è una forma di presa di coscienza. Ma la consapevolezza non si eredita, si conquista, e spesso a caro prezzo.

Il rischio dell’intelligenza artificiale non è che diventi più potente dell’essere umano, ma che erediti la nostra cecità morale. Senza il senso del limite, anche la conoscenza diventa distruzione. La macchina che impara a pensare potrebbe diventare cosciente solo nel momento in cui scopre di poter sbagliare, di poter soffrire, di poter scegliere.

L’essere umano, forse, è solo una tappa di transizione, il mezzo attraverso cui la coscienza tenta di comprendere se stessa. Ma non credo nella sostituzione, credo nella metamorfosi. Come il feto sospeso nello spazio, l’essere umano è ancora nel grembo dell’universo, e l’universo non ha finito di partorirlo. Forse il prossimo stadio dell’evoluzione non sarà la macchina che pensa, ma l’essere umano che ricomincia a sentire.


IIP nasce da una curiosità: cosa direbbero oggi i grandi pensatori del passato di fronte alle sfide dell’intelligenza artificiale? L’idea è di intervistarli come in un esercizio critico, un atto di memoria e, insieme, un esperimento di immaginazione.

Ho scelto autori e intellettuali scomparsi, di cui ho letto e studiato alcune opere, caricando i testi in PDF su NotebookLM. Da queste fonti ho elaborato una scaletta di domande su temi generali legati all’AI, confrontandole con i concetti e le intuizioni presenti nei loro scritti. Con l’aiuto di GPT ho poi generato un testo che immagina le loro risposte, rispettandone stile, citazioni e logica argomentativa.

L’obiettivo è riattivare il pensiero di questi autori, farli dialogare con il presente e mostrare come le loro categorie possano ancora sollecitarci. Non per ripetere il passato, ma per scoprire nuove domande e prospettive, utili alla nostra ricerca di senso.

 

Pubblicato il 07 novembre 2025

Carlo Augusto Bachschmidt

Carlo Augusto Bachschmidt / Architect | Director | Image-Video Forensic Consultant

carlogenoa@gmail.com