Viviamo in una democrazia o in una 'dittatura degli eletti'?
Eletti vuol dire scelti. Ma scelti da chi? Domanda che non possiamo fare a meno di porci se ragioniamo sul potere politico nei tempi digitali. O forse, qualcuno dirà, in ogni tempo: c'è stato davvero un tempi in cui il potere politico è stato nelle mani dei cittadini comuni?
Forse il motivo per cui facciamo così di frequente riferimento alla antica democrazia diretta ateniese -del resto così lontana dalle moderne democrazie rappresentative- sta nel fatto che le democrazie che abbiamo conosciuto, e che possiamo osservare nel presente, sono ben lontane dalle descrizioni che possiamo darne sulla carta. Bello il dettato delle nostre Costituzioni - ma lontano da ciò che abbiamo modo di vedere con i nostri occhi.
Scene che resteranno nella storia come immagine simbolica del volto del potere.
I CEO delle più grandi aziende tecnologiche, tra cui Mark Zuckerberg (Meta), Sundar Pichai (Alphabet/Google) e Jeff Bezos (Amazon), Tim Cook (Apple), Elon Musk (Tesla, SpaceX, X) e l'ex presidente Bill Gates (Microsoft), seduti nelle prime file nella cerimonia di insediamento di Donald Trump, il 20 gennaio 2025.
E poi il summit del settembre 2025 alla Casa Bianca. Ospiti di Trump trentatré leader del settore tecnologico, tra cui Bill Gates, Mark Zuckerberg, Tim Cook, Sam Altman, Sundar Pichai e Sergey Brin...
Ho citato solo alcuni nomi. Ma la domanda importante è: chi è ospite di chi? Chi è il padrone di casa? I Padroni di Casa sono i leader delle Grandi Case Digitali. Viviamo, in realtà, come loro ospiti, in mondi virtuali da loro edificati. Le stesse istituzioni pubbliche si appoggiano sulle piattaforme digitali.
Viviamo la vita quotidiana, privata e pubblica, in queste case. Più che cittadini, siamo utenti di piattaforme e servizi digitali - che definiscono gli spazi di nostri diritti e delle nostre libertà.
Cittadini, oppure avvinti ai ceppi di una perenne minorità
Non c'è democrazia senza cittadinanza. Sono i cittadini a fare la democrazia. Ma ne sono capaci?
Più ci abituiamo ad essere utenti di servizi preconfezionati, più ci allontaniamo dall'essere cittadini.
Restano attuali le parole di Kant. Il 30 settembre 1784 Kant, risponde sulla rivista Berlinische Monatsschrift alla domanda: Cos’è l’Illuminismo?.
“L’Aufklärung, ci dice Kant,”è l’uscita dell’essere umano dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria Verstand [intelligenza, senno, mente, ragione, animo] senza la guida di un altro”. “Sapere aude!”, osa conoscere! “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”.
Eppure, dice subito, “gli esseri umani rimangono minorenni a vita”. “È così comodo essere minorenni! Se ho un libro che ha Verstand per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che sceglie per me la dieta, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da me”. “E’ dunque difficile liberarsi da una minorità divenutagli quasi natura”. Chi non ha mai avuto l’occasione di mettere alla prova la propria Verstand, resterà incapace di servirsene.
Kant mette in evidenza la stretta connessione tra l’atteggiamento passivo degli esseri umani e la presenza di Vormünder -custodi, guardiani, tutori di minorenne incapace- “che si sono assunti con tanta benevolenza la sorveglianza sugli esseri umani” da convincerli che “il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile”, è anche “molto pericoloso”.
Così l’elogio dell’esercizio dell'intelligenza di ognuno con cui si apre l’articolo, dopo pochi capoversi è rovesciato in una scettica constatazione: gli esseri umani sono “placide creature instupidite come animali domestici”, grandi masse senza cervello, incapaci di pensare.
Sono passati oltre due secoli, ma vediamo benissimo in queste pagine la situazione dell’essere umano nell’Era Digitale. Grandi promesse non mantenute di nuovi spazi aperti alla libera conoscenza di tutti, ma nei fatti anonime folle di utenti di app e piattaforme, ognuno legato “ai ceppi di una permanente minorità”.
Ricorso alla macchina
Potremmo forse aspettarci che Kant si indignasse di fronte a questo perpetuarsi della minorità. Invece, finisce per vedervi aspetti positivi. Perché qualsiasi libertà civile dei cittadini è subordinata al prioritario buon funzionamento della gemeinen Wesen [cosa pubblica, comunità, repubblica].
Per questo è necessario un Mechanism che garantisca ordine ed efficienza. La buona organizzazione esige che non solo lavoratori, ma anche dirigenti siano Theil der Maschine, parte della macchina. Non ci si può fidare di ciò che natura crea, non si può attendere che i cittadini aderiscano ai progetti del Governo. Perciò “il governo tramite una künstliche Einhelligkeit [un’armonia artificiale], dirigerà i comportamenti di tutti costoro verso pubblici scopi, o almeno li indurrà a non contrastare tali scopi”.
Resta una sfera di libertà private, come la libertà religiosa, e si può anche “permettere ai sudditi di fare uso pubblico della loro ragione” esponendo pubblicamente “le loro idee sopra un migliore assetto della legislazione”, ma alla fine, per Kant, l’Illuminismo si riduce a questo: un Sovrano Illuminato. Egli, disponendo delle forze dell’ordine “a garanzia della pubblica pace”, può dire ai sudditi: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete; solamente obbedite!Avendo in mente l’argomentare di Kant, ci si può chiedere: i cittadini vogliono veramente la giustizia? E a chi compete cercare, mettere in campo e garantire ‘Giustizia’?
La democrazia non risiede nei sistemi elettorali, sempre imperfetti, incapaci di garantire equità e piena rappresentanza.
La democrazia non risiede nemmeno nelle Costituzioni, 'carte' che devono essere mantenute vive nel presente, attraverso il continuo scambio e confronto.
La democrazia risiede innanzitutto nella discussione in pubblico.
Hans Kelsen vs. Carl Schmitt
Nel Ventesimo Secolo seguendo Kant, le domande si ripresentano in tutta la loro gravità.
Possiamo osservare il manifestarsi, tra gli Anni Venti e gli anni Cinquanta, di due opposte voci: Hans Kelsen e Carl Schmitt.
Kelsen cerca, nei turbolenti anni seguiti alla Prima Guerra Mondiale, cerca un ordine perfetto, ideale. Affascinante la sua Dottrina Pura del Diritto, con la sua distinzione tra ciò che accade nel mondo e le formali rappresentazioni del sistema normativo. Sistema che è una ingegneria perfetta, dove tutto discende dalla Costituzione. Che non è più una concessione del Sovrano Illuminato, ma un patto tra cittadini, un accordo sul comune interesse a definire regole del gioco chiare, una quadro di diritti inalienabili che sta alla base del potere legislativo, affidato ad organi eletti dai cittadini, del potere esecutivo e del potere giudiziario. Poteri in equilibrio, per via di un sottile gioco di contrappesi.
La migliore delle Costituzioni possibile, la Costituzione di Weimar, il più puro baluardo formale di una democrazia che voleva essere aperta, bilanciata, partecipativa -in fondo: ‘giusta’- permise l’avvento della dittatura nazista.
Infatti a Kelsen si oppone, in quei tragici anni, Carl Schmitt che constata come nessuna astrazione del diritto possa negare l’opposizione amico nemico; affermazione di come -all’opposto dell’idea universalistica di Kelsen- il diritto è legato a una storia, a una terra, a una cultura.
Per Schmitt, invece, il concetto di giustizia sfuma inevitabilmente nel diritto del più forte. Al di là degli istituti formali, l’autorità sta in mano a il chi ha il potere di decidere in ultima istanza, in condizioni di eccezionalità e di urgenza. Il concetto di cittadinanza sfuma nel concetto di popolo, legato ad una terra e ad un capo carismatico. Schmitt appare quindi vicino alla conclusione scettica di Kant: quel po’ di giustizia che possiamo avere sarà offerta dal Sovrano Illuminato.
Rawls vs. Sen
Dopo la Seconda Guerra Mondiale sembra affermarsi un nuovo tempo di pace e di giustizia. Il Occidente, il modello è la democrazia rappresentativa, fondate su Costituzione, processi elettorali, potere legislativo in mano ai rappresentanti dei cittadini, equilibrio dei poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario. E a livello globale organismi sovranazionali.
John Rawls, seguace di Kelsen, è il più fine teorico di questa stagione. Rawls, negli Anni Settanta, propone una accuratissima ‘metafisica della giustizia’. Per Rawls la giustizia è trascendente. Esiste in un luogo lontano da qui, in una sorta di cielo ideale, abissalmente lontano da questo mondo palesemente ingiusto. Rawls, in effetti, è erede estremo della ragione kantiana; e della filosofia post-kantiana, logico-formale.
Rawls affronta un delicato tema: chi può scrivere norme ‘giuste’, non inquinate da interessi di parte? Propone l’immagine di nobili ‘padri costituenti’ che assumono una ‘posizione originaria’, come fuori dal mondo, nascondendo a sé stessi, nel momento in cui stabiliscono le norme fondamentali, i propri personali interessi e giudizi dietro un ‘velo di ignoranza’. E’ una nobile immagine, ma sembra lontana dalla realtà e dal concretamente possibile.
Ben dentro in Ventunesimo Secolo, in piena era digitale, Amartya Sen, idealmente seguace del pensiero liberal democratico di Kelsen, e di Rawls -di cui era stato allievo-, si trova di nuovo a fare i conti con le ragioni sostenute da Carl Schmitt, e prima di lui da Kant: il cittadino è disposto ad assumersi responsabilità? Il padre costituente può veramente tenersi lontano dai propri interessi? E cosa accade nel mentre i complicati e lenti processi democratici si svolgono? Non arrivano le buone norme sempre troppo tardi? Non vige comunque la legge del più forte?
Sen è indiano, conosce molto bene la situazione di povertà di quella gran parte del mondo lontana dagli agi occidentali. Lontano dalla purezza formale di una democrazia astrattamente descritta e di criteri astratti di giustizia, Sen ci insegna a vedere gli spazi per una sia pur imperfetta, zoppa, giustizia possibile negli anni dove le dittature appaiono più efficienti delle democrazie, e dove la democrazia è svilita dalla sua subordinazione ad un ordine dettato dalle tecnologie digitali.
Dopo Kelsen, oltre il suo maestro Rawls, tenendo anche di fatto conto di ciò che sostiene Schmitt, Amartya Sen, in piena era digitale, ci dice: invece di accanirci a stabilire cos’è la giustizia ‘in principio’, facciamo il possibile, qui ed ora, anche magari per tentativi e errori, accettando l’imperfezione, facciamo il possibile per invertire il circolo vizioso della povertà e dell’ingiustizia. Invece di affidarci (solo) alla Carta Costituzionale, invece di cercare la democrazia (solo) attraverso istituti giuridici accettiamo che in fin dei conti la democrazia è ‘discussione in pubblico’.
Nuova élite dei tempi digitali
Possiamo parlare di era di ‘era digitale’ ricordando che parliamo sia di causa che di effetto: l’economia, la finanza, la politica, gli interessi di una élite, generano una tecnologia. La tecnologia a sua volta determina economia, finanza, politica, cultura.
La tecnologia digitale finisce per ridefinire il concetto di giustizia - a scapito della 'democrazia', termine che forse ormai conviene scrivere sempre tra virgolette: qualcosa che vorremmo ci fosse, e non c'è.
Si è affermata nei tempi digitali -a scapito di ogni altra élite; a scapito dei tradizionali poteri democratici: legislativo, esecutivo, giudiziario; a scapito anche a scapito dei politici di professione- una nuova élite di tecnici: tecnologi, tecnocrati digitali. Eccoli schierati accanto a Trump. E' legittimo anzi chiedersi se ha più potere il Presidente degli Stati Uniti o i CEO delle Grandi Case Digitali. Sono loro i nuovi Vormünder, i guardiani di cui parlava Kant. Forse un residuo spazio di libertà sta nel fatto che essi non agiscono in modo unitario - ma sono in concorrenza tra di loro.
I codici giuridici sono scritti da rappresentanti dei cittadini, in un quadro definito da costituzioni e norme di diritto. Sono scritti in testi e tramite linguaggi noti e trasparenti ai cittadini. Il codice digitale è invece scritto da puri tecnici non eletti ma auto-cooptati; ed è scritto in un linguaggio noto solo ai tecnici, illeggibile per il cittadino; linguaggio destinato ad essere compreso e recepito non dai cittadini ma da macchine.
Il cittadino vede via impoveriti i diritti dell’elettore e del legislatore, e retrocede ad utente di servizi erogati d’autorità dai detentori di piattaforme.
Il potere di fatto dei tecnologi e tecnocrati digitali può essere inteso come attacco alla giustizia. O ridefinizione della giustizia. I tecnologi hanno i mezzi per definire il terreno sul quale si svolge la vita civile.
Forse una via: democrazia come discussione in pubblico
Di fronte al potere di tecnologi e tecnocrati e filosofi di complemento, quando ormai gli istituti democratici appaiono inadeguati, il possibile spazio di 'costruzione di democrazia' sta, si può forse sperarlo, nell'azione intensa di cittadini attivi.
Amartya Sen in The Idea of Justice, 2009 ci fornisce indicazioni per trovare una via.
Sen, scrivendo nel 2009, fa esplicito riferimento ai movimenti Anti-Global. Le cui tesi non condivide. Ma che considera potenziale fonti di nuove conoscenze, di diversi punti di vista, e quindi di ricchezza sociale.
Sen ci ricorda che non sta a noi che viviamo qui ed ora definire cosa sarà considerato importante dai nostri figli, e da ogni generazione futura. Non sta a noi definire per loro gli ‘standard di vita’. A noi compete la responsabilità di lasciare agli altri lo spazio per scegliere in libertà quale vita vivere.
Per cogliere i trend, i segnali deboli, conviene essere disposti ad ascoltare la voce altrui. Ascoltare chiunque e dare spazio anche alle opinioni con le quali si è in franco disaccordo. L’esclusione è in dibattito in pubblico cresce una società meno ingiusta. sé una ingiustizia, ed è anche fonte di ulteriori ingiustizie, perché, ci ricorda Sen, solo tramite il
Invece di accanirci a stabilire cos’è la giustizia ‘in principio’, ci invita Sen, facciamo il possibile, nel presente, anche magari per tentativi e errori, accettando l’imperfezione, facciamo il possibile per invertire il circolo vizioso della povertà e dell’ingiustizia.
Da questo atteggiamento discende un modo -dubitante, informale, concreto- di intendere la democrazia.
Siamo abituati a legare a filo doppio la ‘democrazia’ con l’idea di ‘rappresentanza’. Di qui al legare l’esistenza della democrazia a libere elezioni il passo è breve. Ma Sen ci ricorda come di ‘libere elezioni’ si possa parlare solo in una piccola porzione di mondo. E di più: ci ricorda che legare ‘libertà’ ed ‘elezioni’ significa svalutare il concetto di libertà. Ogni sistema elettorale comporta limiti, e in sé, ingiustizie.
La democrazia non risiede nei sistemi elettorali, sempre imperfetti, incapaci di garantire equità e piena rappresentanza.
La democrazia non risiede nemmeno nelle Costituzioni, 'carte' che devono essere mantenute vive nel presente, attraverso il continuo scambio e confronto.
La democrazia risiede innanzitutto, ci dice Amartya Sen, nella discussione in pubblico.
Con ‘discussione in pubblico’ Sen non intende solo discussione in sedi istituzionali, assoggettata a regolamenti, come può essere il dibattito parlamentare. Questo tipo di discussione è assoggettato a una definizione a priori del 'come' dibattere, e del 'chi' può partecipare.
Questa definizione sempre penalizza qualche parte sociale, non ammessa ad esprimere la propria posizione.
Perciò il dibattito in pubblico, aperto, per Sen deve comprendere anche manifestazioni di protesta esercitata 'fuori dalle regole'.
Il dibattito in pubblico può ben avvenire anche nei luoghi digitali, ma non basta. Scendere in piazza può contar poco ed apparire gesto velleitario. Ma è costruttivo già il fatto che si tratti di stare insieme con il corpo - senza mediazioni digitali.