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Ci sono cose che si fanno per vanità, altre per necessità. Ci sono opere che si scrivono per il desiderio di lasciare un segno, e altre che si scrivono perché non si può fare altrimenti. La differenza, che sembra sottile, è invece abissale. Il primo caso produce tracce — spesso effimere, decorative, ripetitive. Il secondo genera frutti — duraturi, nutritivi, talvolta scomodi, ma necessari. Così è anche la creatività: può restare un gioco ornamentale o farsi atto generativo.


Chi crea, se davvero crea, non si accontenta del gesto. Non si accontenta dell’applauso, del passaggio, della replica. Chi crea veramente — e non imita, né ripete — lavora nella prospettiva di lasciare qualcosa che non serva solo a sé. Non si tratta di generosità, ma di posizione esistenziale. Di responsabilità.

creare. non è solo un gesto di generosità, ma di posizione esistenziale. Di responsabilità.

Un’opera che non genera conseguenze — che non fa pensare, non modifica, non mette in moto — resta chiusa. Come un frutto che non ha il seme. Non è solo questione di qualità, ma di orientamento. Si può scrivere il libro perfetto e non smuovere nulla. Oppure si può balbettare una verità in forma rozza, e mutare il paesaggio interiore di chi ascolta. La differenza è questa: la traccia indica che si è passati; il frutto, che si è stati presenti.

Ogni atto creativo degno di tale nome deve contenere un seme. Qualcosa che possa attecchire, in altri, altrove. Non si tratta di pedagogia, né di morale. Si tratta di fisiologia del senso: il gesto creativo, per essere vivo, deve propagarsi. Come certi alberi che non fioriscono per sé, ma per il vento.

A guardare bene, l’arte — quando è tale — ha sempre avuto questa capacità di lasciare. Anche quando non lo dichiarava. Anche quando non lo sapeva. Un verso di un poeta morto secoli fa può oggi salvare una vita. Una pennellata, una pausa in un film, una battuta scritta senza troppo pensarci: sono le cose che restano. Più delle teorie, più dei trattati. Perché sono frutti: nati per caso, cresciuti con cura, offerti senza voler nulla in cambio.

Nel nostro tempo — così pieno di contenuti e così povero di senso — il rischio più grande è la sterilità. Si produce molto, si crea in continuazione. Ma poco rimane. Poche cose generano qualcosa d’altro. La creatività, se vuole avere dignità, deve produrre eredità. Deve potersi guardare indietro e dire: questo ha fatto nascere altro.

regalando la creatività alle intelligenze artificiali si rischia la sterilità umana

Non servono grandi numeri. Non servono monumenti. Basta un’eco. Un’idea che si muove. Una persona che cambia abitudine. Una frase che riorienta uno sguardo. Se questo accade, allora il gesto è riuscito. Non è sterile. Non è morto.

Ecco perché è necessario, oggi più che mai, parlare di generatività. Perché si è scambiato il creare con il mostrare. Si è scambiata la voce con l’eco. Si è creduto che bastasse dire, fare, postare, firmare. Ma il mondo non cambia per accumulo. Cambia per risonanza.

L’atto creativo che resta, che incide, che ritorna — non è mai gratuito. Richiede lavoro. Ascolto. A volte dolore. Richiede che l’autore sparisca, che l’opera si stacchi da lui, viva da sola. Come i figli che non ci appartengono. Come le parole dette bene: una volta dette, non tornano più.

Chi crea per davvero non vuole essere ricordato. Vuole che qualcosa venga ricordato. E possibilmente, ripreso. Riformulato. Riscritto. La vera opera non chiude, ma apre. Il suo segno non è l’originalità, ma la capacità di generare altra opera, altro pensiero, altra vita.

Questo è il criterio. Questo è l’unico metro onesto.

Pubblicato il 23 maggio 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto