G. Fulgenzio, posso farti una domanda?
F. Se non puoi farla a me, a chi? Dimmi.
G. Ma a cosa serve oggi la creatività? Davvero. Non dico l’arte, ma proprio il pensare in modo creativo. La scuola non la premia. Il lavoro non la richiede. La politica la teme. I social la consumano. Dove si mette?
F. Non si mette. Si coltiva. Si protegge. Si trasmette. E poi si lascia libera.
G. Ma a che scopo? Non si vive meglio adattandosi?
F. Ci si adatta come si sopravvive in apnea. Ma vivere è un’altra cosa. Vivere è rispondere. Alla complessità, al dolore, alla meraviglia. E la risposta, se è vera, è sempre un atto creativo.
G. Ma chi sono io per creare qualcosa che abbia senso? Non ho nulla di speciale.
F. Ecco: è proprio lì l’equivoco. La creatività non è un premio, né un talento. È una modalità del pensiero. È il modo in cui affronti ciò che non sai. È la domanda che scegli di porre, non la risposta che hai imparato a ripetere.
G. Quindi è per tutti?
F. Se non fosse per tutti, non sarebbe umana. Ogni bambino è creativo finché non gli si insegna a non esserlo. Ogni adulto può tornare a esserlo, se smette di temere il ridicolo. Il punto non è la genialità, ma la possibilità.
G. E si può insegnare?
F. No. Ma si può educare a non impedirla. Che è già molto. Si può creare un contesto dove l’errore non è colpa, dove il dubbio è benvenuto, dove le domande sono più preziose delle risposte.
G. Sembra utopia.
F. È pedagogia. E anche una questione politica. Perché chi non è abituato a immaginare alternative, finisce sempre per obbedire. E chi non sa creare, consuma.
G. Ma se nessuno lo vuole…?
F. Comincia tu. Accendi la prima lampada. Gli altri, se ne hanno bisogno, arriveranno.
G. E se non arriva nessuno?
F. Avrai creato comunque una luce. E il buio non è più lo stesso.