Malati di presentismo (presente-futuro) viviamo tempi strani, nell’era delle macchine, in un mondo fuori asse. Siamo sempre più ibridati, anche cognitivamente, con la tecnolog-IA. Non sappiamo più cosa sia la realtà, ma siamo scappati online alla sua ricerca. Abitiamo mondi virtuali (metaversi) e binari, scambiati per reali, siamo immersi in un surplus informativo che ci impedisce di conoscere, riflettere, su concetti quali verità, realtà, libertà, democrazia. Immersi nello storytelling omologato dominante, ci siamo allontanati dalla realtà che “è quella che è”. Abbiamo sposato la comunicazione che crea la realtà, invece di riflettere sul fatto che la comunicazione è solo un modo di esprimerla e/o di spiegarla. Riflettere farebbe bene a tutti, anche per svelare l’illusione che di realtà ne esiste una sola, mentre in realtà ne esistono molte versioni diverse, alcune contradditorie, tutte risultanti dalla comunicazione, quasi mai semplice riflesso di verità oggettive, eterne. Oggi, dentro camere dell’eco conformistiche, è diffusa l’illusoria percezione (pretesa) che la propria visione della realtà costituisca l’unica realtà, alla quale tutti (con l’aiuto di un algoritmo) sono chiamati a aderire. Questa pretesa soggettiva e algoritmica tende a delegittimare chi si rifiuta di abbracciare una definizione (ideologia) particolare della realtà, con l’accusa di non volersi piegare a quella che è “la realtà reale”. Il rifiuto nasce dalla convinzione (forse sbagliata) che quando si parla di realtà bisogna tenere conto delle cose e delle loro caratteristiche fisiche, oggettivamente discernibili e poi della comunicazione.
Parlare di realtà non è semplice, anzi è cosa complessa, per questo con questa intervista mi sono rivolto a un esperto: Alfredo Gatto, autore del libro La realtà sopravvalutata – Filosofia e multiverso (Castelvecchi, 2025), Professore di Storia della filosofia all’Università Vita-Salute San Raffaele Milano.
Nel primo capitolo del libro dopo aver sostenuto che non ci si possa limitare a descrivere il mondo e che per umanizzare l’esperienza si debba far ricorso al racconto (N.d.a: quindi non alla narrazione), lei afferma che “la realtà esiste se vi è qualcuno o qualcosa disposti a attribuirle un senso”, a partire dal nostro sguardo. Ma il senso oggi “'n dov'è?” e dove possiamo trovare il senso della realtà lontani come siamo da essa, perduti dentro le non-cose (Byung-Chul Han), le troppe informazioni e gli innumerevoli metaversi che abitiamo? A essere assente è anche lo sguardo, così come lo è diventato il corpo incarnato e il volto, sostituito dalle facce. Avendo delegato la nostra vita a dei profili digitali, incapaci di volgere la nostra attenzione alle cose e alle persone in carne e ossa, privati della nostra esperienza sensibile, abbiamo eretto la realtà digitale a nostra realtà. Per lei anche la realtà digitale è realtà, ma come si può trovare un senso in realtà algoritmiche, calcolabili, computazionali, che aspirano a trasformare l’umano (intangibile) in macchina e la realtà in semplice rappresentazione digitale?
Il punto del libro è che il senso non è una sostanza che abbiamo perso: è l’effetto di uno sguardo che raccoglie l’esperienza e la fa valere.
Se deleghiamo lo sguardo alle piattaforme, il senso finisce lì: non è scomparso, ma riallocato. La risposta non è “torniamo alla vera realtà e il senso riappare”, ma “rimettiamo in concorrenza più sguardi”, cioè più piani di realtà: quello digitale, quello incarnato, quello testuale.
La realtà digitale è reale perché ha potere causale e ci offre uno spazio condiviso e interattivo, ma da sola non è sufficiente. Il senso si costituisce a partire dall’interazione tra l’universo virtuale e i corpi, le istituzioni e i testi, ossia nella misura in cui l’esperienza viene estroflessa in uno spazio comune. “Dov’è” oggi il senso? Si trova dove abbiamo deciso di concentrare lo sguardo.
Se vogliamo collocarlo altrove, non dobbiamo per forza “uscire” dal digitale, ma riagganciarlo a tutte le prospettive dotate di forza di realtà, allentando in tal modo il monopolio dell’attuale mondo-versione.
“Non basta pensare, sussurrare o nominare per esistere; bisogna agire, e agire significa produrre delle conseguenze.” (Alfredo Gatto. La realtà è sopravvalutata, pag.34)
Lei sostiene che la realtà sia plurale per definizione, un multiverso, una ontologia potenziata, più ricca di mondo. Sostiene anche che la realtà debba recuperare la consistenza perduta e sia necessario costruire un’altra storia. Ma che storia alternativa si può oggi immaginare quando l’immaginario è diventato preda della tecnolog-IA, e l’umano si limita a funzionare (Benasayag) rinunciando a essere e a esistere? Citando Quine lei sostiene anche che l’esistenza non è una proprietà o un predicato, non è una qualità separata o separabile, ma che esistenza è quella di esseri umani trasformati in semplici dati, entità digitali disincarnate, private della loro ricchezza relazionale e complessità irriducibile? Dentro questa complessità, oggi frammentata e virtualizzata, fatta di processi, eventi e situazioni, può essere sufficiente spiegare la realtà dell’esistere come semplici catene di causa-effetto? Può bastare ricorrere all’astrazione e alla tecnica per dominare una realtà ridotta a calcolo e a controllo, o bisogna ripartire dal vivente, come elemento dinamico ed emergente, per comprendere, raccontare e dare senso alla realtà, che poi è sempre una realtà incarnata dentro situazioni concrete?
Nel secondo capitolo faccio riferimento a Quine, è vero, ma in termini critici (per me quindi l’esistenza è proprio una proprietà, mai garantita, di cui è possibile fruire).
L’idea secondo cui esiste solo ciò che riusciamo a quantificare in una teoria è troppo povera, troppo “desertica” (per citare un’espressione quineana); abbiamo bisogno di un’ontologia più ospitale, capace di includere anche ciò che non rientra in quel modello. Per questo propongo di spostare il criterio: non “essere valore di una variabile”, ma “avere potere causale”. Esiste tutto ciò che è in grado di produrre effetti in uno spazio condiviso.
Questo vuol dire che anche le entità digitali, i profili, le tracce algoritmiche possono e devono essere considerate realtà, perché incidono sulle nostre vite: classificano, escludono, orientano, premiano. Ma vuol dire anche che non esistono solo quelle. Esiste anche il corpo che resiste a farsi interamente tradurre in cifre, esistono le situazioni incarnate, esistono i testi e le istituzioni. La mia è un’ontologia potenziata perché è più ricca di mondo, non perché è rassegnata alla sola realtà computazionale.
Dentro questa cornice, la sua preoccupazione sul fatto che la realtà sia diventata una catena di causa-effetto dominata dalla tecnica è comprensibile, ma è ancora formulata col linguaggio del paradigma che il libro cerca di allentare. Il problema non è la causalità in sé: l’esistenza va pensata attraverso il prisma della performatività, cioè a partire dai suoi effetti.
Il problema si pone quando la tecnica pretende di essere l’unico dispositivo legittimo per farli valere e, di conseguenza, per decidere che cosa esiste davvero. Lì sì che bisogna “ripartire dal vivente”: non nel senso di un ritorno naturalistico o sentimentale, ma nel senso di riattivare piani di esperienza che hanno ancora una capacità di generare effetti non integralmente previsti e non del tutto calcolabili. È così che si costruisce “un’altra storia” della realtà: non negando che la realtà digitale sia reale, ma affiancandola ad altri registri di realtà che oggi sono sotto-rappresentati.
Lei sostiene che lo statuto della realtà è storicamente determinato, ma anche che la realtà è il frutto di una macchinazione narrativa. Nella maggior parte dei casi però non siamo consapevoli di quanto la realtà e le nostre stesse affermazioni siano arbitrarie e storicamente determinate. L’inconsapevolezza ci impedisce di costruire un’altra storia della realtà per provare a imporla a quelle dominanti. Oggi a essere determinato è anche il nostro immaginario, sempre meno produzione soggettiva e sempre più prodotto artificiale generosamente elargito, semioticamente modellizzato e fabbricato (uso dei prompt e non solo) dalla tecnolog-IA. Resistere alla realtà e all’immaginario dominanti, nei mondi virtuali e digitali che abitiamo, sembra una missione impossibile. Lo dice anche lei quando afferma che ogni azione di resistenza e di liberazione non portano che a un altro modo di “essere assoggettati”. Dovremmo per questo buttare la spugna, arrenderci, accettare di stare al caldo incatenati dentro la Caverna (Platone, Saramago, Ballard) digitale? Anche se non si esce dalla (questa) realtà non crede che valga comunque la pena provare a emanciparsi, liberarsi (non fuggire), adottare registri diversi per catturare e raccontare il mondo, provando a riconfigurare la realtà, facendola emergere come protagonista di una nuova narrazione?
Ha ragione: nel libro dico che ogni disassoggettamento è al tempo stesso una nuova forma di soggettivazione, un altro modo per reincantare lo sguardo. Questo però non è un invito alla resa. È, al contrario, un invito alla presa di parola consapevole: se so che il fondamento è arbitrario e oggettivo, allora posso rivendicare il diritto di raccontare un’altra storia, senza però dover fingere che venga “da nessun luogo”.
Quindi: no, non buttiamo la spugna, e no, non restiamo “al caldo nella caverna”. Semplicemente riconosciamo che anche la caverna è un piano di realtà, e che ogni possibile forma di emancipazione è destinata comunque a produrre altri dispositivi, altri registri, altre forme di montaggio del visibile.
Nei termini del libro: allargare il multiverso immanente della realtà facendo emergere piani che oggi sono compressi dall’immaginario dominante – anche se sappiamo già che, una volta emersi, verranno a loro volta normalizzati. Ma questa circolarità non è un fallimento: risponde forse alla condizione storica del pensare e dell’agire.
Da amante dell’opera di Philip Dick e di film come Matrix, il capitolo del suo libro che mi ha intrigato di più è stato quello sul Multiverso. Un capitolo pieno di domande su cosa sia reale o meno (esiste la realtà?), su realtà generate dalle IA e che per questo non sono meno reali, su come possiamo stabilire che qualcosa esista davvero, sul fatto che forse viviamo soltanto dentro una grande illusione, un sogno continuo. Per cercare delle risposte lei si rivolge alla fisica per sostenere che la nostra percezione della realtà rimane sopravvalutata. Guardando alla fisica, se ho capito bene, lei abbandona (in parte, perché la realtà non è mai o/o ma e/e) il primato della causalità per sposare l’approccio probabilistico (come quello delle IA generative?). Una scelta basata sulla considerazione che la realtà non è mai un insieme di semplici dati, ma di elementi che concorrono allo svolgimento di una trama comune. Potrebbe spiegare come e quanto la fisica possa aiutarci oggi a comprendere meglio la realtà (sempre plurale) “multiversale” e senza centro, e la nostra comprensione della stessa?
La fisica mi serve nel libro per una ragione molto concreta: mostrare che la pretesa di mettere in questione l’idea di una realtà unica, continua, centrata e imperturbabile non è una stramberia postmoderna, ma un esito interno alla scienza contemporanea.
Relatività: il tempo non è uno, è una rete di tempi locali; meccanica quantistica: tra una misura e l’altra c’è un mondo di possibilità e potenzialità; interpretazione a molti mondi: ciò che ci raccontiamo come un’unica storia potrebbe essere il ramo di una biforcazione più ampia. Tutto questo serve per sottolineare come la nostra percezione “compatta” del reale sia oltremodo sopravvalutata.
La fisica, insomma, ci toglie il centro: ci dice che non esiste “il” punto di vista da cui giudicare il reale; esistono dispositivi di osservazione che fanno essere certi aspetti del reale e non altri.
Il suo libro, non facile, impegnativo, non può essere riassunto, a me è sembrato un flusso di pensiero che vive del tentativo di dipanare la verità sulla realtà, dentro le molteplici contraddizioni che sempre ogni riflessione sulla realtà (come sulla verità) porta con sé, contraddizioni dalle quali non ci si libera mai. Il libro merita di essere letto e per questo le chiedo di dare alcune motivazioni a un potenziale lettore affinché provveda all’acquisto del suo libro per leggerlo. Io tra queste motivazioni inserirei la sua attualità in un momento nel quale moltitudini di persone sembrano avere delegato alle IA non solo la costruzione e la narrazione della realtà ma anche dell’immaginario (sempre più colonizzato). Poi però ci sono anche le numerose tematiche che il libro propone: il ruolo della scienza (che dilata i confini della realtà) nella riflessione sulla realtà, i limiti della nostra esperienza quotidiana che condizionano la nostra concezione della realtà, il ruolo della verità in mondi “multiversi”, il fondamento (metafisico) della realtà, e molti altri. Su tutti per me, e per questo suggerisco la lettura del suo libro, è l’invito esplicito che lei fa a mettere in discussione la realtà per come la conosciamo. Cosa aggiunge a queste mie motivazioni? Quale cambiamento pensa possa avvenire nel lettore dopo che ha letto il libro? Ci sono strumenti filosofici da suggerire?
Penso che uno degli obiettivi del libro abbia a che fare con l’opportunità di de-naturalizzare la realtà, così da coltivare uno sguardo critico. Molte discussioni contemporanee sulla “vera” realtà contro lo storytelling, sul mondo incarnato contro la finzione, sono già inscritte all’interno di un racconto che ha dimenticato di essere tale. Ho cercato perciò di incrinare la compattezza di una simile visione per allargarne le maglie.
C’è poi una seconda ragione: ampliare il nostro sguardo sulla realtà attraverso un criterio ontologico relativamente semplice. L’idea che esiste tutto ciò che esercita un potere causale è una bussola che funziona sia offline sia negli spazi digitali, nei testi filosofici come nelle piattaforme: permette di dire perché un atto burocratico, un romanzo e un avatar abitano lo stesso piano di realtà. E non perché sono “uguali”, ma perché tutti e tre possono produrre effetti.
Infine, c’è l’aspetto dell’immaginario. Il quarto capitolo su James, l’universo Marvel, la realtà virtuale non è decorativo: serve a riconoscere che viviamo già in un multiverso immanente e che una parte della cultura estranea all’accademia universitaria ha contribuito a rendere visibile ciò che la filosofia aveva faticato a formulare. Non dobbiamo evadere verso un “altrove” per trovare altri mondi: sono già qui, il problema è imparare a riconoscerli e ad abitarli. Se il libro funziona, chi lo chiude non diventa scettico, ma più esigente: chiede a ogni discorso sulla realtà di dichiarare da dove parla e a cosa serve.
Infine, se ha tempo per un’altra domanda, mi piacerebbe che lei potesse condividere con i naviganti della STULTIFERANAVIS una sua prima impressione sul progetto. Stanchi delle piattaforme, nostalgici del WEB dei suoi inizi, convinti del disincanto crescente verso la tecnologia (e non solo), noi siamo convinti che la soluzione sia nell’investire sulla lettura e sulla scrittura, sulla conoscenza (basta con la semplice informazione!), sulla (tecno)consapevolezza e sulla responsabilità, senza visioni apocalittiche ma puntando sul principio speranza (Hans Jonas). Per noi un modo per contrastare l’individualismo e l’egoismo imperanti sta nel riscoprire la comunità, la cooperazione e la solidarietà. A oggi la nave contiene già più di mille contributi. Se della nave ha una buona percezione, la invito a salire a bordo.
Quello che descrive della Stultifera Navis mi sembra in linea con il tipo di prospettiva che provo a suggerire nel libro: una comunità che non si accontenta della realtà come sfondo neutro, ma la tratta come qualcosa che si fa e si rifà attraverso testi, letture, scambi – attraverso azioni dotate di potere causale. Non è un semplice gioco letterario, bensì un piano ontologico aggiuntivo. Si tratta di creare e legittimare altri piani di esistenza. In un’epoca che tende a centralizzare lo sguardo, la lettura e la scrittura puntano nella direzione contraria: lo ridistribuiscono, moltiplicando a dismisura le realtà possibili.
Conclusione
Grazie professor Gatto per questa opportunità di intervistarla, per la sua disponibilità e per questo dialogo stimolante. Il suo libro obbliga chi lo legge (oggi non legge più nessuno!) a riflettere sulla realtà, che poi è un modo per riflettere su sé stessi e sulle cose del mondo. Il nostro inconscio, il nostro essere insieme alle cose agiscono sulle nostre esistenze, rimodella percezioni, comprensione, geografie e narrazioni della realtà. Per la STULTIFERANAVIS è urgente contrastare l’idea che la realtà sia fatta di semplici dati e di informazioni, per provare a costruire una storia diversa rivolgendo maggiore attenzione al mondo incarnato e cercando di stabilizzare le nostre (nude) vite, oggi tramortite dalla volontà di potenza della tecnologia. Il suo libro e la sua intervista servono ad aggiungere molteplici e ulteriori spunti di riflessione.
Speriamo che questa intervista stimoli ulteriori riflessioni e impegni, all’interno del progetto stultiferanavis.it, verso una società più giusta, (tecno)consapevole, tecnologicamente matura e responsabile.
Nota redazionale
Intervista realizzata per Stultifera Navis da Carlo Mazzucchelli (ottobre 2025)