"Se il timbro è la pelle della voce, il tono è la sua carne emozionata." (Miguel Ángel Arcas)
La voce è suono prima che parola, il più carnale dei suoni, e questo puro suono è già in grado di porci in relazione con noi stessi e con il mondo. Ascolto una voce e presuppongo una interiorità.
La voce rappresenta di solito il primo contatto con l’altro. Già dalla voce attingiamo le prime informazioni, non solo per i contenuti che esprime, ma per il timbro, il ritmo e il tono. Per l’emotività che traspare o per il controllo che rivela. La voce può accarezzare o può ferire come una lama. La voce può dare potere al di là dei significati che comunica.
La storia della filosofia, secondo Adriana Cavarero, è la storia della valorizzazione del pensiero come puro logos, pura contemplazione senza voce. Il senso che domina la speculazione filosofica greca è la vista: theorein è guardare e contemplare con la mente. Inoltre il logos, definito da Aristotele phoné semantiké separa il significato, che è frutto della mente, dal suono, privo di senso, che ci avvicina al mondo animale. La voce, privata del logos, spaventa.
La voce può accarezzare o può ferire come una lama. La voce può dare potere al di là dei significati che comunica.
Nella mitologia classica, invece, alla voce è riconosciuto un indubbio potere: Ulisse tura le orecchie dei compagni con la cera e si lega all’albero maestro per poter ascoltare il canto delle sirene e per poter resistere alla fascinazione della loro voce. Sirene che cantano in modo diverso in relazione alla natura di chi ascolta.
La tradizione filosofica ha ignorato questo tema, si è concentrata sul concetto astratto di Uomo, ponendo in ombra le diversità, anche la differenza sessuale. La devocalizzazione del logos è la cancellazione di ciò che è unico, perché è proprio attraverso la comunicazione con la voce che ognuno comunica la propria unicità.
Quando parliamo, affiorano quegli aspetti della personalità che Wittgenstein definisce ‘evidenze imponderabili’. Sono aspetti che sfuggono, che trasmettono significati che vanno oltre la logica e il linguaggio, che segnalano la relazione tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’: una condizione di nervosismo porta ad alzare il tono della voce, senza che lo si voglia; una voce che trema indica uno stato d’animo alterato o angosciato.
Nel mito di Narciso raccontato da Ovidio (Le Metamorfosi) la ciarliera ninfa Eco, punita da Giunone, è condannata a ripetere le ultime parole dette da altri, privandole così di significato. Mentre il suo corpo si scarnifica perché Narciso non ricambia il suo amore, le parole diventano un balbettio e la sua voce arriva all’altro come un riverbero. È una vocalità che veicola ancora il semantico, ma ritmato, spezzato, come avviene nelle esperienze della prima infanzia, ninne nanne o girotondi, che procurano tanto piacere ai bambini.
I gesti vocali dei piccoli, come il pianto, il riso, l’urlo, il richiamo, antecedono il logos e si situano, secondo Julia Kristeva, in un luogo indistinto, da lei chiamato ‘chora’, termine ripreso dal Timeo di Platone. Nel Timeo, la chora è un materiale informe che il demiurgo plasma, su modello del mondo delle idee, per dare origine al mondo sensibile. La chora di cui parla Kristeva è un indistinto sonoro, è lo spazio di relazione affettiva e cognitiva tra madre e bambino. É il luogo da cui la lingua si genera, ma che eccede la lingua stessa.
L’unicità della voce è esaltata in modo mirabile da Italo Calvino nel racconto ‘Un re in ascolto’:
Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre. Una voce che mette in gioco l’ugola, la saliva, l’infanzia, la patina della vita vissuta, le intenzioni della mente, il piacere di dare una propria forma alle onde sonore. [1]
Il re, seduto sul trono, teme per il suo potere e per questo tende l’orecchio ai suoni che provengono dal suo palazzo, un labirinto sonoro. Ma le voci che ascolta non hanno più nulla di vitale. Sanno di essere udite e decifrate dal re e quindi acquistano una vitrea compiacenza. Una notte, il canto di una donna proveniente dalla città risveglia, nel re insonne, il piacere dell’ascolto di ‘quella’ voce (che sente come unica) e ridesta il desiderio di lei. Prova a risponderle, ma invano, perché in quel momento proprio la sua voce viene improvvisamente a mancare. Come dire che il potere, inteso come controllo, diventa un ostacolo per l’esplorazione di nuove modalità di vita.
Nel campo della politica, forse nessuno ha dato rilievo alla voce unica di ogni essere umano più di Hannah Arendt. Se la politica è, come lei la intende, occasione e terreno di libertà, è perché riguarda una pluralità di esseri unici che si incontrano per parlare e confrontarsi in uno spazio che li raccoglie e nello stesso tempo li separa:
Nessuno, da solo e senza compagni, può comprendere adeguatamente e nella sua piena realtà tutto ciò che è obiettivo, in quanto gli si mostra e gli si rivela sempre in un'unica prospettiva, conforme e intrinseca alla sua posizione nel mondo. Se egli vuole vedere ed esperire il mondo per come è realmente può farlo solo considerandolo una cosa che è comune a molti, che sta tra loro, che li separa e li unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e dunque diviene comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le loro posizioni e prospettive… Vivere in un mondo reale e parlarne insieme agli altri sono in fondo una cosa sola. [2]
Quando cresce l’individualismo e aumenta il rilievo dato al lavoro e alla produzione, si riduce lo spazio della libera partecipazione e diminuisce l’agire interpersonale e comunicativo che determina l’area della politica. Per Arendt, una vera comunità politica, per dare voce a ognuno dei suoi componenti, ha bisogno di uno spazio. Prima ancora del Parlamento, lo spazio è la piazza, intesa come luogo fisico pubblico (agorà). Le piazze virtuali non sono in grado di sostituirla per tante ragioni, ma in particolare perché sono recinti privati su cui i proprietari detengono il controllo. Inoltre, con la complicità di algoritmi che uniscono il simile con il simile, l’interazione avviene prevalentemente con utenti che condividono le stesse opinioni, rinchiusi come sono nelle ‘echo chambers’ (camere dell’eco) all’interno delle quali è difficile trovare un punto di vista diverso.
L’utilizzo invasivo dei dispositivi elettronici ha rafforzato il primato della vista, che da tempo caratterizza la nostra cultura. Ore trascorse davanti allo smartphone, con gli occhi che non riescono a staccarsi dallo schermo, sono il segnale di una dipendenza sempre più pericolosa sia sul piano fisico che su quello psichico. E segnalano una difficoltà crescente a entrare in relazione, con la propria voce, con l’Altro Umano, dotato di interiorità e di una voce unica.
Bibliografia
[1] Italo Calvino, Sotto il sole giaguaro, Garzanti, Milano 1986 p.82
[2] Hannah Arendt, Che cos’è la politica, Einaudi, Torino 2006 p. 40