C'è un punto invisibile da cui tutto parte. Prima ancora delle competenze, prima della motivazione, persino prima dei sogni. È quel nucleo profondo da cui prendono forma le scelte, i limiti che ci diamo, il modo in cui ci relazioniamo al mondo e a noi stessi.
Si chiama autostima. E troppo spesso la sottovalutiamo.
Cos’è, davvero, l’autostima?
Parlare di autostima non significa parlare di arroganza o di ego gonfiato. Non è quella voce interiore che ci dice “sei il migliore”, né tantomeno un’affermazione generica da calendario motivazionale. L’autostima è, nelle parole dello psicoterapeuta Nathaniel Branden, “la disposizione a considerarsi competenti per affrontare le sfide della vita e degni di felicità”. Due dimensioni quindi: il sentirsi capaci e il sentirsi degni.
Non basta sapere di avere delle abilità, se dentro di noi sentiamo di non meritare davvero ciò che di buono ci accade. E viceversa: non serve sapere di avere valore come persone, se ci sentiamo impotenti di fronte alle sfide quotidiane.
Le radici dell’autostima
L’autostima non si compra, non si eredita, non si trasmette con una formula magica. È un processo che nasce e si sviluppa fin dall’infanzia, nel dialogo tra il nostro mondo interiore e lo sguardo degli altri. Quando un bambino si sente visto, ascoltato, incoraggiato – e anche corretto con rispetto – comincia a costruire dentro di sé una base solida: “sono amato”, “conto qualcosa”, “posso sbagliare senza perdere valore”.
Lo psicologo umanista Carl Rogers, padre della terapia centrata sulla persona, parlava del “bisogno incondizionato di considerazione positiva”. Non si tratta di elogiare sempre e comunque, ma di far percepire all’altro – e in particolare al bambino – che il suo valore non è condizionato dalla prestazione. Che esiste, e merita rispetto, in quanto persona.
Autostima e performance: un legame circolare
In un mondo che ci chiede continuamente di “performare”, l’autostima può sembrare un lusso accessorio. Ma è l’esatto opposto. Senza autostima, le performance vacillano. Perché l’insicurezza ci blocca, il confronto con gli altri ci schiaccia, la paura di sbagliare ci paralizza.
Al contrario, una buona autostima crea un circolo virtuoso: più ci sentiamo capaci, più agiamo con fiducia. Più agiamo, più impariamo. Più impariamo, più cresciamo. E così la stima che abbiamo per noi stessi si rafforza.
Anche sul lavoro, l’autostima è un motore silenzioso ma decisivo. I professionisti con una buona autostima sono più aperti al feedback, più resilienti di fronte agli errori, più capaci di collaborare senza sentirsi costantemente sotto esame. Non hanno bisogno di competere per esistere. Sanno che il loro valore non dipende dal giudizio esterno, ma da un baricentro interno stabile.
Quando l’autostima manca
L’assenza di autostima si manifesta in tanti modi, spesso sottili. Eccessiva timidezza, perfezionismo ossessivo, difficoltà a dire di no, bisogno continuo di approvazione, autosabotaggio. Tutti segnali che parlano di un dialogo interno povero, duro, giudicante.
Chi ha una bassa autostima spesso vive in una gabbia invisibile: non osa, non si espone, non crede di meritare qualcosa di buono. A volte si accontenta di relazioni tossiche, di lavori frustranti, di contesti che lo fanno sentire piccolo. Perché, in fondo, pensa di non valere abbastanza per chiedere di più.
Ecco perché coltivare l’autostima non è un gesto egoistico, ma un atto di cura verso sé e verso gli altri. Più siamo in pace con noi stessi, meno diventiamo fonte di guerra per chi ci circonda.
Si può coltivare?
La buona notizia è che sì, l’autostima si può coltivare. Non è fissa, non è immutabile. Possiamo rafforzarla nel tempo, lavorando su alcune leve fondamentali:
- Il dialogo interno: imparare a riconoscere la voce del critico interiore e a rispondere con compassione, non con rassegnazione.
- La consapevolezza emotiva: sapere cosa proviamo e perché, accogliendo anche le emozioni “scomode”.
- La congruenza: vivere allineati con i nostri valori profondi, anche quando è difficile.
- L’azione responsabile: agire, scegliere, mettersi in gioco, senza aspettare che la sicurezza arrivi prima. È l’azione che genera fiducia, non il contrario.
E poi c’è un gesto semplice, potente, spesso sottovalutato: curare le nostre relazioni interpersonali. Le relazioni possono nutrire o prosciugare l’autostima. Scegliere con cura chi lasciamo entrare nella nostra vita non è selettività: è responsabilità.
Un bene prezioso per il futuro
In un’epoca dominata da immagini perfette, filtri, like e confronti costanti, l’autostima è un bene sempre più raro. E mai come oggi, i giovanissimi hanno bisogno di adulti che li aiutino a costruirla con lentezza, con autenticità, con presenza.
Non basta dire loro “credi in te stesso”. Serve creare spazi dove possano sperimentare, sbagliare, imparare, senza sentirsi giudicati. Serve ascoltarli davvero. Serve essere modelli credibili, che non negano le proprie fragilità, ma mostrano come conviverci con dignità.
Perché l’autostima non è pensarsi perfetti. È sapere di poter affrontare la vita imperfetti, ma interi.
Conclusione: seminiamo autostima e raccoglieremo futuro
Coltivare l’autostima non è solo una pratica individuale. È un investimento sociale. È creare comunità dove le persone possano esprimersi senza paura, educare figli che non abbiano bisogno di ferire per sentirsi forti, formare professionisti che lavorano con senso, non con ansia da prestazione.
E allora iniziamo da noi. Dalle parole che usiamo con noi stessi ogni giorno. Dalle scelte che facciamo anche quando nessuno ci guarda. Dai messaggi che mandiamo – con i gesti più che con le frasi – alle nuove generazioni.
Perché se educhiamo all’autostima, educhiamo alla libertà. E ogni ragazzo o ragazza che cresce con una sana stima di sé è un adulto in meno che dovrà ferire per sentirsi vivo.
se educhiamo all’autostima, educhiamo alla libertà