Dopo che, in contemporanea con la pubblicazione della teoria della relatività di Einstein (1906), il genio di Picasso aveva iniziato a mandare in frantumi lo spazio classico impostato sulla prospettiva, avviando una rivoluzione inarrestabile nell’arte figurativa, tutto il mondo delle arti contemporanee ha sicuramente cambiato il rapporto fra le persone e le cose, ma anche quello fra l’artista e i fruitori delle sue opere. In verità è cambiato proprio il concetto di “opera”, dato che l’arte (o quanto meno quella visiva), messa in crisi filosofica prima dalla riproducibilità tecnica dell’opera stessa attraverso la stampa (che l’ha emancipata per la prima volta nella storia dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale[1]) e poi dal macroscopico sviluppo dell’uso della fotografia come interprete della realtà, ha smesso in molti casi di essere costruita sugli oggetti e si è spesso dematerializzata, dovendo quindi reinventarsi necessariamente per sopravvivere nell’era post-moderna; nel suo ulteriore variegato universo avanguardistico, alimentato dall’idea che ogni artista deve necessariamente essere più all’avanguardia di tutti coloro che l’hanno preceduto o che sono suoi contemporanei, ha così finito per fondere dimensioni, materiali, concetti, processi comunicativi, simbolismi, perfino discipline artistiche e non artistiche, integrando strumenti e performance, ideazione e fruizione attraverso quelle che oggi sono definite “installazioni” e che appaiono non solo come le “ultime” invenzioni degli artisti, ma in un certo senso quasi le uniche forme d’arte che abbiano oggi diritto di esistenza[2].
Ma, al di là delle cose, dei luoghi e degli strumenti che collaborano a definire e a realizzare un’installazione, a mutare strutturalmente è qui anche l’agency dell’artista-creatore, dato che una delle caratteristiche principali della sua opera è adesso il fatto che essa abbia come soggetto principale il fruitore. Proprio qui sta il grande cambiamento antropologico: l’idea dell’artista è solo un progetto in divenire e tutto ciò che serve a creare l’opera è costruito e assemblato per modificare o comunque sollecitare la percezione del fruitore, che diviene quindi parte integrante dello stesso lavoro creativo e soggetto indispensabile di qualunque processo comunicativo. Per questo ogni installazione comporta la disposizione particolare di oggetti e materiali in un ambiente, coinvolgendo quindi parametri di tempo e spazio e rendendo piuttosto difficoltosa una definizione univoca.
Ci hanno provato in tanti, ma forse la più significativa è quella contenuta in uno studio di vari autori che definisce un’installazione come «uno spettacolo, ma senza palco; un gioco, ma anche un impegno quotidiano; un significante, ma anche un significato [...]. La scena carnevalesca dove non c’è palcoscenico, non c’è “teatro”, è scena e vita, gioco e sogno, parola e spettacolo»[3]: insomma, per un verso una disciplina artistica inesauribile, spesso eroica nelle sue dimensioni, talvolta spirituale e sovversiva, anche se generalmente effimera; dall’altro un modo di concepire l’arte come integrazione con la vita, coerentemente con molte altre attività intellettuali e con la scienza moderna, che sempre più propende a una sintesi globale della realtà sia fenomenica che psicologica, con una lettura integrata dell’uomo e dell’ambiente.
Vale forse qui la pena di ricordare alcuni esempi famosi di installazioni artistiche, come i “ready-made” di Duchamp, fra cui spicca il suo famoso “orinatoio”, o le forme più recenti di “land art” di Christo, divenuto famoso per aver “impacchettato” interi siti naturali o grandi edifici come il Reichstag di Berlino con teloni, corda e spago al fine di privarli della loro funzione originaria e impedirne la visione o addirittura il passaggio e fare così in modo che l’oggetto o il luogo nascosto venga in realtà risaltato perché immaginato, anelato (il soggetto esiste, ma tolto al nostro sguardo rivela tutto il vuoto che lascia il suo non esserci e il valore che potremo perdere se non ci fosse). Ma è giusto ricordare che fra i precursori delle più recenti installazioni vi sono state anche le performance di “process art”, come le messe in scena di Edward Kienholz, Claes Oldenburg o Allan Kaprow, la cui produzione è stata caratterizzata dalla realizzazione di “environements”, cioè di ambienti artefatti nei quali gli artisti avevano lo scopo di fare trasparire attraverso manichini e oggetti d’uso quotidiano lo squallore della società contemporanea e della condizione umana in generale. Con artisti come lo statunitense Bruce Nauman o la giapponese Chiharu Shiotgiunge è quindi giunta alla piena maturità l’arte “concettuale”, che era nata con l’obiettivo di perseguire una ricerca di ordine ideale e teoretico privilegiando il processo, lo schema concettuale e costruttivo che determina l’opera stessa. Per far questo l’arte concettuale doveva liberarsi dalla sottomissione alla banalità dei materiali (come la tela e i pennelli per la pittura, il marmo e lo scalpello per la scultura, ecc.), volgendosi prevalentemente alla progettazione e all’ideazione dell’opera stessa e alla concettualizzazione di un’immagine elaborata per stimolare il pubblico, come misero in pratica Alberto Burri, incollando sulla tela pezzi di vecchia juta rattoppata e dando quindi forma d’arte a materiali di scarto, o Lucio Fontana con le sue tele monocromatiche strappate, come se volesse realizzare una forma d’arte slegata dalla bidimensionalità della pittura e dalla staticità della scultura per espandersi nello spazio.
La prima definizione di arte concettuale, di estrema importanza nell’ambito della relazione fra antropologia e arte, si deve tuttavia a Joseph Kosuth, che la utilizzò già a metà degli anni ’60 del secolo scorso per definire il suo obiettivo di un’arte fondata sul pensiero e non più su un ormai frainteso ed equivoco “piacere estetico”. Nel momento in cui l’opera d’arte può abbandonare il regno delle immagini per trasferirsi nel regno dei concetti e dei nomi, tuttavia, l’arte diventa teoria dell’arte e riflessione sull’arte: «l’arte esiste solo come idea», affermava d’altronde Kosuth. Alla teoria Kosuth appoggiò la pratica artistica, come nell’opera “Una e tre sedie”, composta da una vera sedia con a sinistra una sua riproduzione fotografica e a destra un pannello con la definizione ripresa da un dizionario della parola “sedia”: l’artista si proponeva così di richiamare lo spettatore a meditare sulla relazione fra immagine e parola, in termini logici e semiotici.
Appare evidente anche da questi pochi esempi che l’arte contemporanea ha messo in moto un sisma culturale cambiando profondamente il rapporto fra le persone (cioè i soggetti, dall’artista al pubblico) e le cose (cioè gli oggetti), così che le opere d’arte ormai non possono essere più considerate solamente alla stregua di artefatti fisici, materiali, fissi e immobili nello spazio e nel tempo, come invece erano state ancora nell’ambito delle avanguardie del primo ‘900 quadri e sculture, assumendo solo forme stilisticamente diverse. In questo caso parliamo di una riclassificazione dell’opera d’arte, che diventa tale solo per il suo impatto sul pubblico, con il contributo attivo di quest’ultimo e con un ruolo dell’artista che si limita in particolare all’ideazione di un progetto, la cui materialità è invece legata a una fruizione plurisensoriale (e non solo visiva o acustica) del pubblico; insomma un mondo dell’arte in cui ci siamo quasi abituati anche a varie stranezze, se non talvolta pure a provocazioni.
Spesso è come se l’arte contemporanea ci tenesse ad apparire ai profani come una disciplina incomprensibile, presentandosi accessibile solo a chi la fa e a chi la mette in mostra, ma in qualche modo estranea a chi la va solamente a “vedere” (in un museo, in una galleria, ecc.), anche se pure ne subisce il fascino. Perché il fruitore non deve più solo “vederla” passivamente, cioè “subirla”, ma interpretarla, facendosi parte attiva della stessa filosofia e del messaggio che l’opera possiede ed è là pronta a emanare coinvolgendolo. L’arte occidentale del mondo contemporaneo, si può dire, premia l’innovazione rispetto all’imitazione, l’originalità rispetto alla fedeltà alla tradizione e la capacità dell’artista di distinguersi anche fra i suoi pari. «La logica stessa del regime di singolarità vuole infatti che il principio trasgressivo finisca inevitabilmente per radicalizzarsi a mano a mano che le sue produzioni vengono diffuse, integrate e accettate dalla società: in questo caso, insomma, è l’effetto (la radicalizzazione della singolarità) a determinare la causa (la sua normalizzazione)»[4].
Se quindi con la pop art aveva già iniziato a consumarsi la separazione definitiva fra l’arte e l’estetica, adesso ecco svelarsi in senso propriamente antropologico il grande segreto dell’arte contemporanea, quello per cui qualsiasi cosa può diventare un’opera d’arte, e lo può diventare secondo percorsi diversi, come insegna la recente vicenda della banana di Cattelan, appesa con lo scotch sul muro di un museo e strappata da lì per essere mangiata da un visitatore perché non aveva fatto colazione la mattina e aveva fame. L’episodio, al limite del ridicolo, spiega comunque la capacità dell’arte contemporanea di inglobare tutto, di raggiungere e rielaborare ogni elemento del reale, secondo un’attitudine onnivora che può perfino essere letta come l’altra faccia della medaglia del processo di “estetizzazione del mondo”, quello che secondo Gilles Lipovetsky e Jean Serroy caratterizza «l’attuale stadio del tardo capitalismo»[5]. Dall’altro lato «questo porta con sé una centralità sempre maggiore dell’artista nella produzione del significato di un’opera. È vero che la presenza dell’artista appare sempre meno decisiva nel processo di fabbricazione materiale dell’opera»; tuttavia, «ogni artista deve distinguersi non solo dalla tradizione precedente, ma anche dalla sua stessa opera, in un processo bulimico che finisce peraltro per mettere in crisi un concetto storico come quello di “avanguardia”. La conseguenza più visibile di questo meccanismo è però il fatto che l’attenzione passa dall’opera all’artista, alla sua capacità di reinventarsi continuamente, e non solo nelle sue creazioni, ma anche (e talvolta soprattutto) nella messa in scena della sua personalità»[6].
Alla fine è ciò che accade anche con la personalizzazione e l’esibizione del proprio corpo da parte di quegli individui che ne fanno un’opera d’arte attraverso l’arte del tatuaggio. Qui non stiamo ovviamente parlando di chi si fa tatuare un qualche oggetto, un volto amato o semplicemente un nome o un motto su un braccio, su una caviglia o sul torace, ma di chi trasforma il proprio corpo, nella sua totalità, in un oggetto d’arte unico e irripetibile.
Da millenni, infatti, alcune persone amano adornarsi con disegni che avevano (e spesso hanno ancora oggi) precisi significati simbolici, legati anche a pratiche e processi di iniziazione anche mistici e religiosi, a volte frutto di pratiche sciamaniche o di adesione a gruppi specifici (come le gang criminali in particolare del sud-America), in ogni caso dal profondo significato sociale; ma oggi nella maggior parte dei casi i tatuaggi sono il risultato di una pura modifica estetica ed esibizionistica del proprio corpo. Trasformarne la sua totalità in un’opera d’arte vivente può essere considerata, in ambito psicologico, una patologia correlata anche a un atteggiamento narcisistico che però «può essere studiato e interpretato non solo in chiave psicoanalitica, guardando al singolo, ma anche in chiave socio-antropologica, guardando al fenomeno sociale nella sua interezza»[7], come per altro hanno testimoniato in un volume pubblicato pochi anni fa anche Vincenzo Cesareo e Italo Vaccarini[8]; in questo loro studio gli autori sostengono la tesi secondo la quale la società occidentale viva in una sorta di “era del narcisismo”, capace di soppiantare anche le ideologiche umanistiche che l’hanno preceduta fino al ‘900: e il fenomeno del “total tattoo”, per altro in netta espansione in occidente, ne è un esempio.
Se dunque, come abbiamo visto, nelle varie espressioni “artistiche” della società contemporanea è sicuramente cambiato il rapporto fra le persone (i soggetti) e le cose (gli oggetti), si giustifica ancor di più il fatto che nel suo ulteriore variegato universo esplorativo l’antropologia culturale si sia indirizzata verso la necessità di prendere in considerazione l’uomo nella sua continua e costante interazione sia con gli oggetti della vita quotidiana che con gli artefatti di qualsiasi natura, seguendo le orme di una più diffusa ed eterogenea teoria dell’arte e del gusto.
Questo vale, con le relative “ricerche sul campo” in ogni ambito culturale, ma soprattutto nella cultura occidentale (quella verso la quale la stessa antropologia ha ormai volto maggiormente il suo sguardo e le sue attenzioni); una cultura che, seppur variegata geograficamente e in continua evoluzione, a maggior ragione e con dinamiche in continuo mutamento sempre più soggetto e oggetto non sono più pensabili come entità separate, ma piuttosto come «mutualmente interdipendenti all’interno di un processo di interazione continua durante il quale vengono creati sia gli esseri umani, sia gli oggetti materiali»[9]. Mai come oggi, peraltro, si è fatta tanta arte magari senza che autori e pubblico ne fossero consapevoli, dato che sempre più vengono creati e diffusi oggetti e immagini che vengono posti intenzionalmente o quasi sbadatamente sotto il segno dell’arte[10].
Ma, citando Mike Featherstone, «se la dimensione estetica, la dimensione sensibile ed emozionale della esperienza assume oggi un’importanza sempre maggiore è proprio perché è la struttura sociale stessa a esserne impregnata»[11], dato che insieme alle opere che vengono veicolate nei tradizionali circuiti del mondo dell’arte e insieme agli artefatti che trovano destinazione distinta rispetto agli usuali manufatti quotidiani, anche moda, design, industria culturale e perfino internet e i social media nel loro insieme hanno contribuito a fare del consumo di prodotti estetizzati qualcosa di idealmente accessibile a tutti, allargando definitivamente i confini culturali dell’individuo e del suo gruppo sociale o di popoli interi e consentendo a chiunque, ovunque si trovi, di entrare in contatto con persone, gruppi e culture diverse e lontane.
Per esempio, attraverso gli smartphone non solo si scambiano telefonate e messaggi, ma si veicolano immagini e, con i motori di ricerca, ci si propone davanti un mondo intero; nel contempo siamo noi stessi ad aprirci idealmente al mondo proiettando ed esibendo noi stessi, e così facendo estetizziamo perfino la nostra realtà, e quindi noi stessi o le forme con le quali vogliamo esprimerci o essere visti dagli altri, e anche ciò che desideriamo cambiare, almeno all’apparenza, facendogli prendere forma.
Ma non dobbiamo pensare che questo meccanismo appartenga solamente alla nostra cultura: si dà il caso che si possa definire universale se anche una donna masai, seduta scalza tra la polvere del suo villaggio sperduto in mezzo all’Africa, è ritratta mentre usa il suo smartphone per provare a sognare una realtà diversa, altrove; se un mandriano della tribù dei kalenjin messaggia sotto il sole della savana kenyota con un amico emigrato in Europa che magari gli propone un prodotto occidentale da tempo agognato: semmai possiamo affermare che questi sono segnali di quella che è stata definita la “rivoluzione mobile” dell’Africa, quella che magari a macchia di leopardo e silenziosamente sta cambiando le abitudini e le prospettive economiche, sociali e culturali di un intero continente che conta oggi oltre settecento milioni di sim operative in un territorio in cui per gran parte le linee telefoniche fisse sono un lusso di pochi, le infrastrutture sono assenti, i conti in banca quasi inesistenti e in cui da almeno un decennio le ricariche telefoniche sono perfino utilizzate al posto del denaro contante come pagamento per il consumo abituale di beni.
Gli utilizzatori vedono nel “telefonino” una nuova e insperata modalità di contatto con i villaggi vicini e con parenti e amici emigrati nel “ricco” occidente; più che la necessità di una integrazione culturale, i messaggi e le immagini scambiate diventano strumento privilegiato per interpretare e mostrare agli altri anche il proprio modo di esistere e di essere, con modalità finanche estetiche che possono assumere forme molto diverse per chi proviene da Paesi poveri, forme legate a un desiderio inappagato o a esibizioni parodistiche, come l’immagine di sé davanti alla propria baracca fatiscente di una periferia urbana su cui svetta l’insegna “Grand Hotel”.
Questa espressività a suo modo estetica si lega chiaramente anche alle logiche dell’esibizione e del consumismo tipicamente occidentali; atteggiamenti e modalità che provano quotidianamente a estendere la loro filosofia non solo su tutti gli strati della popolazione (anche in quelli meno abbienti), ma anche nelle società in via di sviluppo al di fuori del mondo occidentale, alimentando il bisogno di cose, ma anche di tempo libero in cui consumare, quindi di divertimento, di “bellezza” e, se vogliamo, di gratificazione sensoriale. L’adattamento anche per molti immigrati, se non alle abitudini, quanto meno alle aspirazioni di una società non più (o non solo) basata sul lavoro e sui rapporti familiari, ma basata sul piacere e sul bisogno di apparire, di farsi forma superando la realtà (attraverso un’estetica delle relazioni che di fatto vuole andare al di là della realtà, aumentandola grazie anche ai sempre più sofisticati meccanismi e tecniche della rivoluzione digitale), è in diretto collegamento con il desiderio di possesso di quantità sempre maggiori di oggetti emblematici del consumo (di massa) con cui si esibiscono (o si prova a esibire) quelle relazioni che un tempo legavano invece le persone ad altre persone attraverso la semplice realtà oggettiva e materiale.
D’altronde, in un mondo che ormai non può fare a meno di internet e dei social, non sono proprio i social a essere diventati il tramite nei rapporti interpersonali? In questo contesto la stessa vita è demandata all’esistenza di relazioni alimentate da like, che sfruttano una dimensione (quanto meno apparentemente) estetica dell’individuo, della sua presenza e finanche del suo agire nel mondo. Se quindi l’artefatto ha cessato nella sua funzione di fare da tramite fra la creazione dell’artista e la fruizione di un pubblico, adesso è la stessa vita delle persone, in pratica, a trasformarsi in esperienza da cui è deducibile una dimensione estetica che nella realtà nulla ha a che vedere con l’arte, ma che sfrutta di essa i canali comunicazionali ed emozionali per una trasmissione del proprio sé nel tentativo di apparire più che di essere, magari con la speranza di trasformare la persona in un/una “influencer”, traendo guadagni così come l’azienda che promuove attraverso la sua figura un proprio prodotto. Ed eccoci, così, nuovamente a parlare di mercificazione, dato che l’ascendente di questa nuovissima figura professionale (il suo modello estetico) va ben oltre la mera vendita di prodotti, trasformando sé stesso/a in merce e valore e influenzando così a sua volta i desideri, i valori, gli stili di vita e perfino l’identità di una comunità on-line e modellandone aspirazioni e desideri in una bolla estetica individuale che tuttavia solleva interrogativi sulle forme degli ideali collettivi e sui condizionamenti a cui la “community” viene sottoposta.
Ma anche lasciando da parte influencer e modelli artefatti di vita, e tornando quindi agli oggetti (cioè ai semplici “manufatti” di cui abbiamo ampiamente parlato nelle pagine precedenti), «utilità e funzionalità non sembrano poterne sempre spiegare ormai né la produzione né il consumo: sempre più spesso la differenziazione fra prodotti tecnicamente e materialmente simili avviene attraverso la loro rielaborazione estetica, il packaging, la pubblicità, il marcatore immateriale del brand e del logo che ne costituisce l’elaborazione grafica»[12]. Si tratta di «immagini che evocano e veicolano sensazioni ed emozioni intorno a cui si costruiscono nuove forme di socialità, mondi abitabili all’ombra della marca». Si tratta di un nuovo rapporto che pone definitivamente l’arte e i suoi strumenti di comunicazione a disposizione del mondo economico e produttivo, facendo da tramite fra il consumatore e la merce (che non è più l’artefatto) ma che «si costruisce intorno all’icona immaginaria e personificata del brand», questo sì frutto di un’elaborazione artistica, ricreando una «relazione basata sulla fiducia e la fedeltà acquisita attraverso strategie di fidelizzazione (la più banale è la tessera punti o fidelity card) […]. L’investimento estetico della realtà trasforma in modo sempre più pervasivo anche lo spazio e l’ambiente in cui viviamo attraverso la produzione manieristica di paesaggi, la patrimonializzazione dei siti culturali, la moltiplicazione dei parchi naturalistici e di divertimento, di centri commerciali e villaggi vacanze»[13], i ben noti «non-luoghi» di cui parlava Marc Augé[14].
E così, in una società nella quale l’industria culturale e le forme immateriali dell’economia hanno acquistato ormai un’importanza determinante anche nella determinazione del PIL, la dimensione creativa, estetica, artistica ed emozionale svolge così una funzione centrale nelle definizione del valore delle merci, sovrapponendo continuamente artefatti e manufatti, idee e prodotti materiali, nelle strategie di marketing e nell’innovazione produttiva. L’industria culturale non si limita a parassitare le culture esistenti, ma partecipa essa stessa alla produzione di cultura in senso antropologico, fornendo le risorse simboliche che costituiscono la possibilità stessa dello stare insieme e di costruirsi un’identità riconoscibile, ma nelle forme programmate di un marketing relazionale ed esperienziale che si occupa sempre meno di vendite e di prodotti e sempre più della vita dei clienti, per allacciare rapporti duraturi che facciano orbitare tutta la loro esistenza sotto l’ombrello del marchio[15], spesso esibito come valore ma in concreto solo veicolo di chiara pubblicità aziendale: un esempio fra i tanti è quello delle diverse “polo” vendute nei negozi di abbigliamento, che si contraddistinguono fra loro solo per il marchio cucito in bella vista sul davanti, anche se spesso questo è solo taroccato e farlocco, ma consente l’acquisto di un prodotto mediocre esibendolo come originale a chi non se lo può permettere economicamente.
In questo contesto la creatività e l’immaginazione che in passato costituivano il segno distintivo dell’artista sono oggi invece diffuse e richieste in modo assai più …banale in molte professioni e in molti settori dell’economia, dalla produzione al commercio, fino a divenire il tratto distintivo di un nuovo ceto sociale, la “creative class”, composta da tecnici del marketing, pubblicitari, giornalisti, artisti, designer, ecc.[16]. E, come sottolinea ancora Ivan Bargna, «le capacità creative, immaginative e di improvvisazione che erano dell’arte e del mito divengono così parte del lavoro quotidiano comune di molte persone perché l’incertezza crescente e la rapidità dei cambiamenti fanno dell’abitudine una disposizione poco vantaggiosa tanto nei Paesi ricchi come in quelli poveri. L’importanza sociale delle pratiche immaginative, che incrociano immaginazione individuale e immaginario sociale, non è dunque una prerogativa esclusiva dell’occidente così come la sua diffusione su scala globale non è il semplice effetto dei processi di occidentalizzazione»[17].
Ecco perché, anche nell’ambito del mondo dell’arte e delle matrici culturali connesse ai valori e ai sentimenti estetici, fra le varie rivoluzioni a cui stiamo assistendo in questo nuovo millennio la più importante è sicuramente quella informatica, che ha digitalizzato a suo modo anche le coscienze e le persone e che sembra aver consentito il formarsi di un’intelligenza collettiva[18] o di un’intellettualità diffusa di cui Wikipedia rappresenta forse la forma più compiuta, essendo un’enciclopedia (mondiale anche nella sua offerta linguistica) del sapere universale, compilata e continuamente corretta e integrata dagli individui e dalle comunità che vi partecipano al di fuori dalle gerarchie e dai canali “accademici”[19].
Ma si tratta di una dinamica più generale che, come abbiamo già detto, è anche alla base di tutti i social network: «una domanda posta in un blog sollecita una molteplicità di risposte che s’inanellano le une alle altre»[20]. E le risposte non sono di certo solo testuali. Dalle immagini fotografiche “lavorate” da facili software friendly used alle emoticon e alle altre forme espressive ormai in uso nella comunicazione social è nata una nuova creatività artistica e multimediale: intervallando alla scrittura varie forme che riproducono caratteri di gestualità e mimica facciale, i social hanno consentito di sviluppare una nuova forma composita di comunicazione verbale e nel contempo non verbale, trasformando i testi scritti in veicoli di emozioni (da qui il termine) che sono in grado di modificare, aumentare, attenuare o perfino ridicolizzare la percezione che gli altri hanno di ciò che scriviamo e influendo quindi ogni relazione sociale nel momento in cui questa prende vita o si concretizza mediante una comunicazione. Ma l’invenzione sempre continua di questi “caratteri grafici” è opera di nuove professioni che condividono con l’artista di un tempo ben più di una caratteristica “professionale”.
Pochi avrebbero fino a pochi anni fa inserito le emoticon fra le espressioni dell’arte contemporanea, mentre non deve adesso stupire se in meno di vent’anni di vita queste sono trattate oggi come opere d’arte dal MOMA di New York, facendo parte della collezione permanente del museo come una tela di Matisse o di Picasso o una scultura di Giacometti o Boccioni. E così l’ormai generale condivisione di queste forme grafiche ci porta a parlare coerentemente non solo di una nuova forma d’arte ma di una nuova cultura che è alimentata quotidianamente attraverso canali e forme reticolari che trasformano l’informazione e i rapporti sociali in una generalizzante “cultura partecipativa”, che è diventata a sua volta anche un utile canale del nuovo rapporto seducente e amichevole che le aziende sono state capaci di creare con il proprio pubblico infiltrandosi nella vita dei consumatori e innestando i loro prodotti nell’intimità delle loro relazioni quotidiane. L’espressività artistica si è posta definitivamente al servizio della produzione attraverso il marketing digitale che ha fagocitato nelle sue forma tutte le arti che avevano autonoma vita fino a questo momento.
E che dire infine del processo creativo che ha portato alla “realtà aumentata” e quindi alla “realtà virtuale”? Se, com’è noto, l’A.R. (acronimo dell’inglese Augmented Reality) si può definire come l’inserimento di informazioni digitali (video, immagini, tracce audio, modelli 3D statici o con animazioni, link a contenuti online) nell’ambiente in cui si trova l’utente, avendo come conseguenza un “arricchimento” della sua percezione della realtà, la realtà virtuale (V.R., dall’inglese Virtual Reality) offre la possibilità di spostarsi all’interno di uno spazio interamente immaginario, un ambiente artificiale che esiste nelle immagini e nei suoni in cui ci si trova ad agire al di fuori della vita reale, come se si trattasse di una realtà parallela creata dalla fantasia.
Sempre di creatività stiamo parlando, e a maggior ragione di “arte”, o meglio di una nuova arte che è in grado non più di progettare e realizzare un singolo artefatto, un’opera che, nata dall’immaginazione di un artista, sia poi concessa in fruizione a una o più persone in un luogo specifico (un museo, una galleria d’arte, un edificio privato, ecc.), ma di un intero mondo che, grazie ad applicazioni informatiche sempre più sofisticate e, in genere, un visore e altri strumenti come braccia e mani digitali, è stato creato per fornire esperienze “realistiche” al di fuori dello spazio fisico dell’utente, che si trova quindi proiettato in mondi immaginari senza mai lasciare il soggiorno della sua casa, magari solo per giocare o fare attività sportiva o per provare a vivere un’esperienza “immersiva” in un altro mondo o in un’altra realtà, stavolta virtuale. In questo caso, grazie anche alle applicazioni dell’intelligenza artificiale, parliamo di “metaverso”, che ha una componente virtuale diversa dalla V.R. tradizionale, essendo una rete di mondi interconnessi, basata su piattaforme aperte che offrono la possibilità anche di costruire digitalmente contenuti e perfino oggetti interagendo con altri utenti collegati in contemporanea e collaborando anche alla personalizzazione ulteriore degli ambienti virtuali in cui si opera, magari in collaborazione con applicazioni che ormai sfruttano l’I.A.
Il futuro dell’arte (o, quanto meno, uno dei futuri possibili), dopo tutte le strade provate dagli artisti delle varie avanguardie del ‘900, potrebbe quindi essere quello legato all’evoluzione del metaverso, ovviamente con il contributo spesso davvero determinante dell’intelligenza artificiale (o, meglio, delle intelligenze artificiali, al plurale); secondo i più visionari, ci sarà addirittura un’unica vita di cui occuparsi prima o poi (come vari film futuristici hanno proposto), e non potranno farlo solo gli scienziati, gli informatici e i liberi pensatori, ma proprio gli artisti della realtà digitale, persone in grado di incarnare professionalmente una nuova “specializzazione” nel mondo dell’arte che non potrà essere appannaggio solamente di ingegneri del software e dell’hardware. Il loro compito? Non più utilizzare tele, colori e pennelli, creta, marmo e scalpelli piuttosto che uno o più strumenti musicali (o anche un sintetizzatore di suoni digitali come il moog o qualcosa di ancora più moderno); ma piuttosto dare forma alle loro fantasie per ideare e creare sempre nuovi mondi digitali per integrare quello fisico e reale o per convincere le persone a trasferirsi in mondi del tutto alternativi da vivere come e più di quello della loro vita reale; sempre che a organizzare, progettare e realizzare tale digisfera alternativa non sia direttamente un’intelligenza artificiale a cui è stato inizialmente attribuito e demandato il compito di …narcotizzare definitivamente le coscienze umane.
Per questo c’è chi già oggi pensa che «i protagonisti e i “padroni” del metaverso e di questa vita ibrida saranno un’evoluzione di tutto ciò che caratterizza oggi il nostro mondo fisico»[21]. Ma esisterà fino ad allora un’antropologia[22] in grado di studiare realtà virtuali e metaversi?
Note
[1] Cfr. Walter Benjamin: “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” – Francoforte sul Meno, 1937; trad. it. Torino, 1966.
[2] Per installazione si intende oggi un genere di arte visiva (ma non solo) che comprende oggetti, media e forme espressive di qualsiasi tipo “installati” in un determinato ambiente, che può essere una struttura museografica o una galleria o finanche un luogo naturale.
[3] Nicolas De Oliveira - Michael Petry - Françoise Gaillard - Thames Hudson: “Installation, l'art en situation” – Londra, 2004.
[4] Nathalie Heinich: “La sociologia dell’arte” - Parigi, 2001; trad. it. Bologna, 2004.
[5] “L’estetizzazione del mondo. Vivere nell’era del capitalismo artistico” – Parigi, 2016; trad. it. Palermo, 2017.
[6] Giacomo Raccis: “L’arte contemporanea è una cosa diversa”, da “La balena bianca”, dicembre 2022.
[7] Per approfondimenti rimando al mio articolo “Il narcisismo: da patologia individuale a epidemia sociale” pubblicato dalla rivista “Etnie” nel mese di giugno 2024.
[8] “L'era del narcisismo” – Milano, 2012.
[9] Daniel Miller: “Per un'antropologia delle cose” – Londra, 2011; trad. it. Milano, 2013.
[10] Cfr. Joost Smiers: “Arts under pressure: promoting cultural diversity in the age of globalisation” – Londra, 2003.
[11] Op. cit.
[12] Ivan Bargna: “Gli usi sociali e politici dell’arte contemporanea fra pratiche di partecipazione e di resistenza” - da “Antropologia” – ottobre 2013. Non è un caso, d’altronde, se ormai in quasi tutte le Accademie di Belle Arti è stato istituito anche in Italia un corso di studi indirizzato alla grafica pubblicitaria, intesa quindi non solo come disciplina di studi, ma proprio come arte a sé stante rispetto a quelle “tradizionali” (pittura, scultura, ecc.).
[13] Ivan Bargna, op. cit.
[14] Cfr. “Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità” - Parigi, 1992; trad. it. Milano, 2009.
[15] Cfr. Mauro Ferraresi - Bernard Schmitt: “Marketing esperienziale. Come sviluppare l'esperienza di consumo” – Milano, 2006.
[16] Cfr. Richard Florida: “The Rise of the Creative Class” – New York, 2002. Le teorie sociali avanzate da Florida teorizzano l’esistenza di una nuova classe emergente, composta da “lavoratori della conoscenza” (intellettuali e vari tipi di artisti, tradizionali e non, al servizio dell’economia reale), in grado di diventare una forza economica sempre più importante anche nelle economie dei Paesi emergenti perché i suoi membri sono in grado di stimolare la crescita economica attraverso l’innovazione e la creatività.
[17] Op. cit.
[18] Per Pierre Lévy (“L'intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio” – Parigi, 1994-2000; trad. it. Milano, 1996-2002) internet è diventato oggi il simbolo del grande medium, eterogeneo e transfrontaliero, definito cyberspazio. Quanto poi al futuro che esso dischiude, non esiste un determinismo tecnologico o economico; si prospettano per i governi, i grandi operatori economici, i cittadini scelte politiche e culturali fondamentali: si tratta di inventare tecniche, sistemi di segni, forme di organizzazione sociale che permettono di pensare assieme, concentrare forze intellettuali e spirituali, moltiplicare immaginazioni ed esperienze, insomma rendere in un certo senso la società «intelligente a livello di massa», come egli stesso afferma.
[19] Cfr. Don Tapscott - Anthony Williams: “How mass collaboration changes everything,” – New York, 2006.
[20] Ibidem.
[21] Fabio Moioli: “Metaverso, non confondiamolo con la Virtual Reality”, da “Digital360”, settembre 2022.
[22] Chi volesse approfondire l’argomento trattato in questo articolo potrà leggere il volume “Introspezioni. L’antropologia culturale di fronte all’universo delle forme, delle espressioni e dei linguaggi artistici”, dello stesso autore (Fotograf Edizioni – 2024).