La mutevolezza, spesso vissuta con timore, rappresenta in realtà la più alta manifestazione della nostra apertura ontologica. È la cifra dell’umano come essere in divenire, come progetto incompiuto e mai definitivamente chiuso su sé stesso. Come ricorda il celebre frammento attribuito a Eraclito, panta rei: tutto scorre. Ma ciò che scorre, se abitato con consapevolezza, non si disperde: si trasforma. Ed è in questa trasformazione che si radica la nostra possibilità di crescita. Non si tratta di fuggire da ciò che si è, ma di lasciarlo evolvere. In questo senso, il contrario del cambiamento non è la stabilità, ma l’inerzia: l’assenza di tensione vitale, di desiderio, di futuro.
ciò che scorre, se abitato con consapevolezza, non si disperde: si trasforma (Eraclito)
Il cambiamento autentico non coincide con un mero adattamento alle circostanze esterne. Non è una strategia di sopravvivenza passiva. Al contrario, si manifesta come una spinta ascensionale, una tensione verticale verso una condizione più piena, più giusta, più integra. La mutevolezza, letta attraverso lenti aristoteliche, non è fragilità o capriccio, ma potenza: ciò che ancora non è, ma che può essere. Un’energia latente, pronta a incarnarsi se solo le si concede spazio. L’identità, in questa prospettiva, non è un possesso da difendere, ma una soglia da attraversare.
Una simile visione sovverte radicalmente la retorica difensiva del “sé coerente”, oggi dominante. Una cultura ossessionata dalla performance, dalla produttività e dalla visibilità tende a leggere il cambiamento come instabilità, smarrimento o addirittura fallimento. Eppure, come osserva Simone Weil, solo chi si espone alla metamorfosi può davvero toccare il cuore dell’esperienza umana. Il mutamento non è un rischio da evitare, ma la via regia dell’autenticità.
Ma perché abbiamo così paura di cambiare? Forse perché cambiare ci espone a una perdita temporanea di identità: ci costringe a lasciare ciò che conosciamo senza garanzie su ciò che ci attende. E questa sospensione, se non accompagnata da strumenti interiori e relazionali, genera smarrimento. Tuttavia, in questa stessa soglia incerta si apre lo spazio della creatività, intesa come capacità di dare forma al nuovo senza tradire ciò che siamo stati.
Ogni cambiamento profondo è un atto creativo. Non si cambia attraversando semplicemente da uno stato all’altro, come si attraversa una porta. Si cambia ricostruendo la struttura stessa dell’abitare, riconfigurando le mappe interiori e relazionali con cui abitiamo il mondo. In questo senso, la trasformazione autentica non è una traslazione, ma una trasfigurazione: un’opera di senso.
Perché questa opera possa compiersi, è necessario abbandonare l’illusione di un “io” unitario e compatto. Esistono molte versioni di noi stessi, molteplici identità che coesistono, si alternano, talvolta si contraddicono. Il cambiamento dà voce a queste presenze interiori: fa emergere parti silenziate, desideri rimossi, possibilità sopite. Come nei romanzi di Saramago, l’identità è un dialogo plurivoco, un coro dissonante che cerca armonia.
Questa pluralità non è patologica, è strutturale. Ed è ciò che consente l’opera artistica della vita. L’artista non inventa il mondo: lo ascolta, lo attraversa, lo trasforma. Ogni gesto creativo è una dichiarazione di apertura: un’offerta di sé al possibile. Ma questa arte non appartiene solo agli atelier. Ogni gesto quotidiano di rinnovamento — un abito lasciato, un perdono concesso, un’idea rimessa in discussione — può diventare forma minima di rivoluzione.
In fondo, la mutevolezza è ciò che ci rende non solo adattabili, ma profondamente vivi. È la facoltà di apprendere, dimenticare, riconfigurare. Di non essere prigionieri del già stato, ma alleati del possibile.
E in un’epoca in cui ci si chiede di essere funzionali, performanti, profilabili, il diritto a cambiare diventa un atto di resistenza. Un gesto politico. Cambiare significa disertare i modelli prescritti. Rivendicare la propria ambivalenza. Dire, con dolce radicalità: “non sono finito: sono ancora da venire, e in questo sta il mio valore”.