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L’idea di creatività è stata, nei secoli, progressivamente sequestrata da una mitologia individualista, che l’ha resa sinonimo di eccezionalità. Si è parlato, a lungo, del genio come di un essere eletto, solitario, dotato di facoltà misteriose, capace di operare l’impossibile al di là di ogni contingenza sociale. Questa figura, nutrita dal romanticismo e dall’estetica borghese, ha costruito attorno all’atto creativo un’aura di sacralità inaccessibile, alimentando una narrazione tossica e disabilitante: quella secondo cui “non tutti possono creare”.


Eppure, se liberiamo la creatività da questo alone mistificatorio, emerge un’evidenza antropologica: l’essere umano è costitutivamente un essere che crea. Non perché sia straordinario, ma perché è gettato in un mondo che continuamente gli chiede di reinterpretare, rielaborare, risignificare. La creatività, in questo senso, non è un talento elitario, bensì una funzione relazionale, una modalità sociale del pensiero e dell’agire.

l’essere umano è costitutivamente un essere che crea

Ogni atto creativo è un atto situato, ovvero inscritto in un contesto storico, linguistico, affettivo, materiale. Non esiste creatività che non sia, al contempo, espressione individuale e risposta collettiva. Non si crea nel vuoto, ma all’interno di un ecosistema: fatto di strumenti, interlocutori, modelli appresi, aspettative culturali, immaginari condivisi. La creatività, dunque, è un comportamento, non un’essenza. È qualcosa che si fa, non qualcosa che si è.

Un esempio paradigmatico di questa visione sistemica è offerto dalla figura di Thomas Edison. Lungi dall’essere il solitario demiurgo della modernità, Edison fu un architetto di contesti, un orchestratore di laboratori, un facilitatore di intelligenze plurali. La sua capacità non consisteva tanto nel concepire idee inedite, quanto nel costruire ambienti favorevoli alla loro emersione. L’innovazione, nel suo caso, fu l’esito di una trama cooperativa, non il frutto di una mente isolata.

Ciò che questo esempio ci insegna è che la creatività autentica non può essere compresa senza tenere conto della dimensione intersoggettiva e infrastrutturale. Dove non c’è dialogo, dove non c’è accesso a strumenti, dove non c’è riconoscimento simbolico, la creatività langue. E non perché manchino le idee, ma perché mancano le condizioni per renderle visibili, articolabili, trasformative.

la creatività autentica non può essere compresa senza tenere conto della dimensione intersoggettiva e infrastrutturale

In quest’ottica, educare alla creatività significa distribuire potere semantico. Significa consentire a più voci di emergere, a più mani di costruire, a più soggetti di essere agenti di senso. È un gesto democratico, perché implica che nessuno sia escluso dal diritto di generare nuovi significati. E al contempo è un gesto etico, perché ci obbliga a pensare il nostro agire come parte di un ecosistema comunicativo e simbolico più ampio.

Questo si riflette anche nelle molteplici definizioni di arte che il pensiero contemporaneo ha elaborato, ognuna delle quali sottolinea una diversa funzione della creatività: l’arte come sistema di produzione, come canale di comunicazione biografica, come dispositivo critico e interrogativo, come pratica di improvvisazione situata. In tutte queste visioni, l’artista è meno un solista che un nodo reticolare, un interprete in dialogo continuo con il proprio tempo.

Da questa pluralità emerge una verità epistemica essenziale: la creatività non è l’opposto della disciplina, ma la sua complice più evoluta. Per improvvisare occorre conoscere. Per deviare occorre sapere da cosa si devia. Per innovare, occorre prima comprendere il codice che si vuole riscrivere. In questo senso, la creatività autentica è sempre anche un atto di memoria, un esercizio di ascolto della tradizione per poterla superare con intelligenza e grazia.

Infine, la creatività come comportamento sociale si misura nella sua capacità generativa: non produce solo opere, ma relazioni, comunità, nuovi modi di abitare il senso. Quando una società investe nella creatività, investe nella propria resilienza epistemica. Si rende capace di rispondere al mutamento non con rigidità, ma con flessibilità intelligente. Non con paura, ma con immaginazione.

In un’epoca in cui la ripetizione algoritmica e la standardizzazione funzionale minacciano la complessità del pensiero umano, promuovere la creatività come comportamento sociale è un atto sovversivo. Significa affermare che pensare è ancora possibile, e che ogni essere umano, se messo nelle condizioni, può contribuire alla tessitura del mondo.

pensare è ancora possibile

Pubblicato il 23 maggio 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto