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Il conflitto, nei progetti, non è un’eccezione. È la norma. Non tanto nella forma esplosiva della lite, quanto nell’attrito silenzioso delle incomprensioni, nella frizione tra priorità divergenti, nei fraintendimenti tra ruoli e aspettative. Ogni progetto è un terreno attraversato da tensioni – culturali, emotive, cognitive – che si manifestano a più livelli: tra stakeholder, all’interno del team, nel rapporto con i clienti. Non è un male, ma un dato strutturale. La vera questione, allora, è come affrontare il dissenso in modo intelligente.


Una risposta interessante arriva dalle neuroscienze e dalla psicologia, che oggi offrono strumenti per comprendere ciò che accade nel cervello e nella mente quando ci troviamo in conflitto. Il volume di Judith Rafferty, Neuroscience, Psychology and Conflict Management (2024), è una lettura fondamentale per chi, come chi scrive, si occupa di guidare progetti complessi e desidera farlo con una consapevolezza più profonda delle dinamiche umane.

L’apporto delle neuroscienze è decisivo per almeno un motivo: ci costringe a spostare lo sguardo dall’evento visibile (la discussione, la resistenza, il rifiuto) al processo invisibile che lo genera. Rafferty ci ricorda che durante un conflitto si attivano specifici circuiti cerebrali, tra cui l’amigdala – responsabile della percezione della minaccia –, il cingolato anteriore – che monitora il disaccordo – e la corteccia prefrontale dorsolaterale – che governa la razionalità e l’autocontrollo. In una riunione tesa o in una retrospettiva delicata, non stiamo solo “parlando”: stiamo reagendo biologicamente. Il corpo è già nella discussione prima ancora delle parole.

anche nel project management la capcità del cervello, di regolare le condizioni cognitive ed emotive determinate dalla collaborazione, è fondamentale

Questo implica che l’efficacia di un project manager non si misura solo nella capacità di programmare e organizzare, ma anche – e forse soprattutto – nella capacità di regolare le condizioni cognitive ed emotive in cui si svolge la collaborazione. Conflitti gestiti male generano stress cronico, e lo stress, come dimostra la ricerca, compromette l’accesso alle risorse razionali. Il cervello sotto pressione si chiude, si difende, reagisce. E più un team resta in uno stato di iperattivazione limbica, meno sarà in grado di apprendere, adattarsi, innovare.

Serve dunque una forma diversa di leadership: una guida che comprenda il funzionamento della mente in contesti di pressione, che sappia riconoscere i segnali precoci di disconnessione relazionale, e che usi la conoscenza neuropsicologica non per controllare ma per comprendere. Il punto non è manipolare le emozioni, ma creare le condizioni perché possano circolare senza degenerare.

Rafferty ci invita anche a esplorare il contributo della psicologia della personalità. Ogni membro del team porta con sé tratti stabili – apertura, stabilità emotiva, grado di socievolezza – che condizionano il modo in cui si relaziona al conflitto. Alcuni sono predisposti al confronto diretto, altri evitano lo scontro, altri ancora tendono al perfezionismo. Conoscere questi aspetti, senza etichettare, aiuta a distribuire meglio le responsabilità, a calibrare i momenti di confronto, a prevenire reazioni disfunzionali.

Ma il dato più interessante, almeno per chi lavora quotidianamente tra backlog e roadmap, è l’idea che le neuroscienze possano aiutarci a progettare ambienti progettuali più “neurocompatibili”. Un riferimento utile è il modello SCARF di David Rock, che identifica cinque domini psicologici fondamentali: status, certezza, autonomia, relazione e giustizia. Ogni volta che una decisione di progetto (una retrocessione, un cambio di priorità, un’esclusione da una call) impatta su uno di questi domini, il cervello reagisce come se fosse in pericolo. Lo stato di minaccia percepita, anche se implicito, riduce la disponibilità alla collaborazione e amplifica il rischio di conflitti.

Pensare il project management in termini di SCARF significa reimpostare le pratiche quotidiane – feedback, delega, assegnazione dei compiti – alla luce delle reazioni neuroaffettive che generano. La differenza tra un team in stress e un team in flow non sta nella quantità di task, ma nella qualità dell’ambiente relazionale in cui si agisce.

Un altro aspetto poco esplorato, ma centrale per chi lavora con deadline aggressive, è l’effetto del conflitto cronico sulla memoria e sull’apprendimento. Lo stress costante compromette l’ippocampo, e con esso la capacità del team di ricordare cosa ha funzionato, di riflettere sull’esperienza, di sviluppare una cultura condivisa. In questo senso, la gestione del conflitto non è un’attività accessoria ma un elemento strutturale della performance. Un team che vive nella tensione permanente non migliora, semplicemente sopravvive.

Nel concreto, cosa significa tutto questo per chi gestisce progetti IT, digitali o operativi? Significa che occorre sviluppare un doppio sguardo: uno sul sistema e uno sul cervello. Significa che una discussione accesa su una feature non è solo una divergenza di opinioni, ma può essere il sintomo di una dissonanza profonda nel vissuto relazionale. Significa che un project manager non è solo un facilitatore, ma un regolatore di emozioni collettive. E significa che la gestione dei conflitti deve diventare un’area strutturata del pensiero progettuale, non un ripiego emergenziale.

Alcune buone pratiche, suggerite sia dalla ricerca che dall’esperienza, includono:

  • momenti regolari di debriefing emotivo, oltre i consueti meeting operativi;
  • introduzione di tecniche di co-regolazione (es. pausa di silenzio, domande metacognitive);
  • uso consapevole del linguaggio per abbassare il tono minaccioso e riattivare la corteccia frontale;
  • formazione dei team sui meccanismi neuropsicologici del conflitto, per creare una cultura della consapevolezza.

Non si tratta di “psicologizzare” il lavoro di progetto, ma di riconoscere che ogni progetto è un fatto umano, e ogni fatto umano è anche un fatto cerebrale. Lontano da ogni moda neuroscientifica, questo approccio restituisce complessità e profondità al lavoro di chi costruisce software, servizi, strutture organizzative. Un lavoro che non si fa solo con i Gantt e i Kanban, ma anche – e soprattutto – con l’intelligenza affettiva.

Il futuro del project management, se vuole affrontare la complessità crescente dei contesti e delle relazioni, passerà da qui: dalla capacità di unire rigore e umanità, struttura e plasticità, gestione e comprensione. Perché il vero conflitto non è tra persone, ma tra modelli mentali. E solo conoscendo meglio come quei modelli si formano, si attivano, si scontrano e si trasformano, potremo davvero fare la differenza.

bsogna imparare a riconoscere che ogni progetto è un fatto umano, che ogni fatto umano è anche un fatto cerebrale

Bibliografia ragionata

Rafferty, Judith (2024). Neuroscience, Psychology and Conflict Management. James Cook University. ISBN: 978-0-6454198-8-7.
Testo fondamentale per comprendere come neuroscienze, psicologia cognitiva e sociale possano essere integrate nella gestione dei conflitti. Ricco di esempi, strutturato per l’applicazione pratica, accessibile anche a chi non ha una formazione scientifica.

Fitzduff, Mari (2021). Our Brains at War: The Neuroscience of Conflict and Peacebuilding. Oxford University Press. ISBN: 978-0-19-751265-4.
Saggio chiave per chi vuole approfondire il legame tra neurobiologia e relazioni intergruppo. Offre prospettive utili anche per la gestione delle dinamiche organizzative.

Bruneau, Emile (2015). Putting Neuroscience to Work for Peace. In E. Halperin & K. Sharvit (a cura di), The Social Psychology of Intractable Conflicts (pp. 143–155). Springer. ISBN: 978-3-319-17861-5.

Questo capitolo offre una prospettiva innovativa sull'applicazione delle neuroscienze alla comprensione e alla gestione dei conflitti intergruppo. Bruneau discute l'uso di tecniche di neuroimaging per identificare i processi cognitivi ed emotivi sottostanti ai conflitti, proponendo un approccio basato sull'evidenza per sviluppare interventi più efficaci.

Rock, David; Cox, Christine (2012). SCARF® in 2012: Updating the Social Neuroscience of Collaborating with Others. NeuroLeadership Journal, Issue 4.
Breve ma illuminante, introduce il modello SCARF che ogni project manager dovrebbe conoscere. Rende tangibile l’impatto delle micro-esperienze sociali sul comportamento collaborativo.

Freberg, Laura (2019). Discovering Behavioral Neuroscience: An Introduction to Biological Psychology (4a edizione). Cengage Learning. ISBN: 978-1-337-55783-2.
Manuale ben strutturato, consigliato per chi desidera una panoramica chiara dei processi cerebrali alla base del comportamento. Ottimo riferimento per chi si avvicina alla materia.

Pubblicato il 13 maggio 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto