Abbiamo risposto alla complessità del mondo “complessificando” noi stessi, le nostre identità. Non due campi, ma mille. Mille definizioni, ognuna con il suo nome e il suo confine preciso. Questa proliferazione non risolve nulla – moltiplica il disordine. Abbiamo trasformato la ricchezza dell'esistenza in un catalogo di micro-identità separate, ognuna rinchiusa nel proprio recinto.
E mentre il dibattito pubblico si concentra ossessivamente sulle etichette – su come definirsi, su quale termine usare, su quale identità dichiarare – i diritti concreti, quelli che riguardano la vita reale, la possibilità effettiva di vivere, restano sullo sfondo o scompaiono del tutto. Sui social possiamo dire tutto, dichiararci in ogni modo possibile. Ma fare? Nella vita concreta, la libertà si restringe. Il dibattito si è ridotto alle parole, alle identità dichiarate. Non più ai diritti sostanziali, a ciò che permetterebbe davvero di esistere pienamente.
Il codice a barre identitario
Non abbiamo più opinioni. Siamo diventati le nostre opinioni. Il verbo essere ha sostituito il verbo pensare. L'identità personale si è ridotta a un codice a barre: un insieme di etichette sovrapposte, un pacchetto preconfezionato di posizioni coerenti tra loro. Donna, caucasica, bisessuale, vegana, di sinistra – ogni combinazione produce un codice unico, decodificabile dagli algoritmi ma sempre più illeggibile per gli altri esseri umani.
Una singola posizione su un tema – i vaccini, la guerra, il clima – ti colloca automaticamente su tutto il resto. Non sei più una persona complessa e contraddittoria, sei un marchio identificabile, una bandiera riconoscibile, un'appartenenza definita. Il codice a barre ti rende leggibile dal sistema – profilabile, targetizzabile, vendibile – ma incomunicabile con chi ha anche solo una etichetta diversa dalla tua.
Nella vita concreta, la libertà si restringe. Il dibattito si è ridotto alle parole, alle identità dichiarate
L'inclusione che esclude
Qui emerge il paradosso più crudele: l'ossessione contemporanea per l'inclusione ha prodotto nuove forme di esclusione. Nella corsa a riconoscere e nominare ogni micro-differenza, nella moltiplicazione infinita delle categorie identitarie, abbiamo creato confini sempre più rigidi. Ogni etichetta include chi vi si riconosce ed esclude tutti gli altri. Ogni nuova definizione traccia una linea di separazione.
L'inclusività proclamata si trasforma in frammentazione reale. Volevamo che nessuno si sentisse invisibile, e abbiamo finito per rendere tutti invisibili gli uni agli altri. Volevamo riconoscere le differenze, e abbiamo perso di vista ciò che ci accomuna. L'imperativo a distinguersi – ad avere una propria identità unica, a essere originali – produce esattamente l'effetto opposto: un conformismo frammentato, dove tutti cerchiamo di essere diversi allo stesso modo.
E l'etichetta blocca il dialogo. Quando qualcuno viene immediatamente categorizzato – "Ah, sei uno di quelli..." – ogni possibilità di confronto si chiude. Non serve ascoltare, non serve comprendere. L'etichetta ha già detto tutto. La persona scompare dietro il suo codice a barre, e con essa scompare ogni possibilità di relazione autentica.
l'ossessione contemporanea per l'inclusione ha prodotto nuove forme di esclusione
Creare fuori, condividere dentro
C'è una confusione fondamentale che alimenta questo meccanismo. Sui social possiamo dire tutto, ma non possiamo fare. Il fare accade nel mondo reale – nelle aule, nei luoghi di lavoro, nelle strade, negli spazi dove i corpi si incontrano e le parole hanno peso perché pronunciate davanti a qualcuno. Sui social possiamo solo condividere ciò che è stato creato altrove.
Eppure abbiamo invertito l'ordine. Crediamo di creare online, quando in realtà stiamo solo rimescolando opinioni nate da altre opinioni. E se le nostre identità si formano attraverso questo rimescolio continuo di contenuti digitali, è inevitabile che diventiamo noi stessi etichette. Non persone che hanno opinioni, ma opinioni incarnate. Codici a barre ambulanti.
La conoscenza vera, invece, nasce dall'esperienza diretta, dalla relazione concreta, dal confronto incarnato. Nasce quando si costruisce qualcosa insieme, quando ci si scontra e ci si riconosce, quando le parole non sono pixel ma voce. Ciò che vale la pena condividere sui social dovrebbe nascere sempre da questo terreno. Prima creare nel mondo reale, poi eventualmente diffondere. Non il contrario.
Per quanto mi riguarda, quello che scrivo e condivido nasce sempre dalle discussioni con persone reali, dal confronto quotidiano con i miei studenti in classe, dall'esperienza vissuta della relazione. Non dalla navigazione algoritmica, non dalla lettura di altri articoli online. Dall'esperienza concreta che si costruisce nel tempo attraverso la presenza reciproca.
I social non sono il nemico. Sono strumenti potenti di diffusione. Ma se ci portiamo dentro opinioni nate da opinioni, contenuti generati da contenuti, produciamo solo rumore. Se invece condividiamo conoscenza nata dall'esperienza reale, allora possiamo produrre senso che circola, contamina, apre possibilità di dialogo autentico.
La conoscenza vera nasce dall'esperienza diretta, dalla relazione concreta, dal confronto incarnato.
La morte della Politica
La Politica – intesa come capacità collettiva di immaginare e costruire un futuro comune – appare oggi morta. Con essa è morta la fiducia in qualsiasi forma di azione collettiva. Non è un caso. Quando le identità si frammentano in mille etichette separate, quando ognuno è rinchiuso nel proprio codice a barre, quando il dibattito pubblico si riduce a scontro tra tribù, la dimensione del "noi" diventa impensabile.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: ci muoviamo come monadi isolate, ognuno nella propria bolla, decodificabile dagli algoritmi ma illeggibile per gli altri umani. La sfiducia nelle istituzioni ha prodotto disfattismo, passività, complicità con dinamiche che sappiamo distruttive. Meglio rifugiarsi nell'identità personale, nel proprio piccolo mondo coerente, che rischiare il confronto con chi porta etichette diverse.
Ma senza Politica – senza la capacità di agire insieme per obiettivi comuni – ogni rivendicazione identitaria resta pura dichiarazione. Possiamo dichiararci sui social, moltiplicare le definizioni, affinare le etichette. Ma i diritti concreti, quelli che si conquistano solo attraverso l'azione collettiva, restano fuori portata. E così il cerchio si chiude: più ci frammentiano in identità separate, meno siamo capaci di agire politicamente per cambiare la realtà concreta.
Ma senza Politica, senza la capacità di agire insieme per obiettivi comuni, ogni rivendicazione identitaria resta pura dichiarazione.
Pensare in termini ecosistemici
Eppure una via d'uscita esiste. Richiede un cambio di prospettiva radicale: guardare a noi stessi in una dimensione ecosistemica. In un ecosistema, ogni elemento esiste in relazione con tutti gli altri. La forza del sistema non sta nell'unicità dei singoli componenti ma nella qualità delle loro relazioni, nella capacità di sostenersi reciprocamente. Nessun elemento cerca di essere "originale" – eppure l'insieme è ricco, diversificato, vitale proprio grazie all'interdipendenza.
Applicato agli esseri umani, questo significa riconoscerci, prima di ogni etichetta, come parte di una specie comune. Rispetto all'universo, alla vastità del cosmo, siamo tutti semplicemente esseri umani. Questa è la nostra dimensione condivisa, il nostro ecosistema fondamentale. Prima delle mille categorie che ci dividono, c'è questa appartenenza comune – con i suoi bisogni, le sue paure, le sue speranze.
Non si tratta di annullare le differenze. Si tratta di riconoscere che le differenze hanno senso solo sullo sfondo di una comunanza più profonda. Che il confronto è possibile solo se parte dal riconoscimento reciproco come persone, non come etichette in guerra. Che la ricchezza della diversità si esprime in un tessuto di relazioni, non nell'isolamento di identità separate.
La frammentazione individualista non produce conoscenza – produce solo rumore. Per costruire qualcosa di reale serve lavorare su ciò che ci unisce. Non per uniformarci, ma per creare le condizioni perché il confronto sia possibile e il dissenso fertile. Per ricostruire quella dimensione del "noi" senza la quale non c'è comunità, non c'è dialogo, non c'è futuro condiviso.
In un'epoca in cui stiamo delegando funzioni cognitive sempre più sofisticate alle macchine, diventa urgente rivendicare ciò che ci caratterizza come umani: l'intuizione, l'immaginazione, l'empatia, la costruzione di relazioni autentiche, la trasmissione di conoscenza attraverso l'esperienza vissuta insieme. Non nell'originalità isolata, ma nella capacità di stare in relazione.
La frammentazione individualista non produce conoscenza, produce solo rumore.
Una follia saggia
Qualcuno ha scritto: "In un mondo in cui domina l'ignoranza, la follia è essere saggi. Nei tempi in cui ci si affanna a chiedere luce a intelligenze artificiali, la novità sta nell'affidarsi al lume del pensiero umano." Forse è proprio questa la follia saggia di cui abbiamo bisogno.
La follia di credere ancora che sia possibile costruire insieme, in un tempo che ci vuole divisi in mille tribù isolate. La follia di cercare ciò che ci unisce, quando tutto ci spinge a marcare le differenze. La follia di difendere l'umano – la relazione, il confronto reale, l'esperienza condivisa – quando tutto sembra dirci che basta dichiararsi online per esistere.
Non si tratta di nostalgia per un passato che non tornerà. Si tratta di scegliere consapevolmente dove investire le energie, cosa coltivare, cosa difendere. Forse la cosa più importante da difendere oggi è proprio la possibilità della relazione autentica, del confronto che nasce dall'esperienza condivisa, della costruzione di significati che non siano pre-confezionati o algoritmicamente suggeriti.
Oltre le etichette non c'è il vuoto. C'è la complessità irriducibile delle persone, la ricchezza delle relazioni possibili, lo spazio per costruire insieme. C'è la vita reale, con i suoi diritti concreti da conquistare attraverso l'azione collettiva, non solo da dichiarare online. C'è l'umano da ritrovare, al di là dei codici a barre che ci riducono a categorie leggibili dalle macchine ma illeggibili tra noi.
C'è, semplicemente, la possibilità di riconoscersi come esseri umani prima che come etichette. E forse è da qui che bisogna ripartire.
Si tratta di scegliere consapevolmente dove investire le energie, cosa coltivare, cosa difendere.
StultiferaBiblio
Carlo Mazzucchelli, In difesa dell'umano, Stultiferanavis, Dicembre 2025
Francesco Varanini, Architetti della disuguaglianza, Stultiferanavis, Dicembre 2025
Carlo Mazzucchelli, Stultiferanavis: produrre conoscenza, fare opinione, Stultiferanavis, Dicembre 2025