Eppure di filosofia si parla ancora, eccome. E, personalmente, sono convinto che il suo ruolo sia ancora oggi di primo piano. E vorrei proprio dimostrare l’importanza della riflessione filosofica, oggi e nei tempi a venire. Quindi non solo una filosofia che guarda alla sua (gloriosa) storia, ma anche al futuro. Per ottenere questo risultato vorrei proporre una definizione di filosofia che possa rendere conto di quello che stiamo facendo quando facciamo filosofia.
La sostanza del mio ragionamento si può anticipare dicendo che, dal mio punto di vista,siamo tutti (un po’) filosofi e qualcuno, sicuramente, lo è di più.
Un punto dal quale si può partire è la evidente compenetrazione tra scienza e filosofia.
Isaac Newton nel 1687 intitolò la sua opera “I principi matematici della filosofia naturale”.
Ancora nel 1970 Jacques Monod, premio Nobel per la medicina nel 1965, ritiene di sottotitolare il suo “Il caso e la necessità” come “saggio sulla filosofia naturale della moderna biologia”. Torneremo su Monod.
Quindi partiamo da questa evidenza: gli scienziati in certi momenti non esitano a definire filosofiche le loro riflessioni. Scienza e filosofia possono quindi convivere.
Chiediamoci: e le riflessioni esistenziali? Quelle sì, si dirà, sono patrimonio esclusivo della filosofia. Mi dispiace dissentire. Le riflessioni sulla vita nascono da diversi punti di vista ed i progressi delle neuroscienze promettono di ridurre gli spazi per la speculazione filosofica, almeno quella classica.
Quindi dove mettiamo questa ingombrante e poco pratica filosofia?
Comincerei con fare la conoscenza del più noto bugiardo della storia della logica: Epimenide.
Costui, chiunque fosse, era un noto bugiardo ed era pure un cretese ed ebbe l’ardire di affermare che “Tutti i cretesi sono bugiardi” scatenando una ridda di contestazioni.
I logici lo hanno messo alla gogna perchè hanno argomentato in questo modo. Questo signore afferma che tutti i cretesi sono bugiardi e quindi perché dovremmo credergli, visto che lui stesso è un cretese, quello che dice è assudo. Se dice la verità,visto che lui stesso è un cretese e quindi bugiardo, allora mente. D’altra parte se mente, lui cretese, allora tutto sommato non tutti i cretesi sono bugiardi.
Questo è uno dei tanti paradossi che i logici hanno usato per analizzare il livello semantico del linguaggio.
Come la mettiamo? La soluzione potrebbe essere che il signor Epimenide dovrebbe esimersi da affermazioni nelle quali lui stesso è parte in causa. Insomma se proprio qualcuno deve affermare che tutti i cretesi sono bugiardi almeno dovrebbe avere il buon senso di non essere cretese lui stesso. Al che la sua affermazione potrà essere almenoverificata e non messa in discussione come contradditoria.
Questa faccenda della contradditorietà fu presa in considerazione con la massima serietà e con il massimo impegno da Kurt Gödel. Gödel dimostrò che un insieme di assiomi (nel suo caso le regole dell’aritmetica) non erano esenti da problemi di contraddittorietà o di indeterminazione.
Sembra che abbiamo un terreno comune. Quando siamo all’interno di un insieme abbiamo dei limiti conoscitivi, verso l’interno, verso il basso. Se non siamo cauti andiamo incontro a dei seri problemi.
Guardandoci intorno possiamo riconoscere come la mente, nel farsi della storia, abbia elaborato delle strategie per superare nella prassi corrente questi potenziali problemi.
In campo politico la lotta tra uguali ha portato a parecchio sangue e si è creata l’idea mentale del sovrano il quale altro non è che un elemento che governa un insieme, ma è fuori dall’insieme e al quali è così possibile delegare una serie di prerogative. Hobbes descrive con efficacia questa delega.
E la giustizia che si basa sulla terzietà del giudice, dell’arbitro. Sono ruoli gerarchici ai quali le parti delegano la soluzioni di problemi altrimenti insolubili almeno dalle parti stesse che appartengono alla stesso livello di analisi, lo stesso insieme. Le organizzazioni sono basate su queste gerarchie.
La loro genesi è stata determinata da lotte, da tentativi ed errori: ma forse è possibile trovare il razionale logico di queste modalità del quotidiano.
Bertrand Russell aveva già affrontato il problema. Vorrei riportare integralmente l’argomentazione che espone in “My philosophical development” (1959).
“Nella mia introduzione al Trattactus, suggerii che, sebbene in ogni linguaggio dato ci sono cose che il linguaggio non può esprimere, è sempre possibile costruire un linguaggio di un ordine più alto nel quale queste coxse possono essere dette. Ci saranno ancora, in questo nuovo linguaggio, cose che non è possibile dire, ma che possono essere dette nel successivo linguaggio, e così via ad infinitum. Questa riflessione, che allora era una novità, è diventata ora un accettato luogo comune della logica. Questo risponde al misticismo di Wittgenstein a, penso, ai nuovi interrogativi sollevati da Gödel” (traduzione mia)
Questa soluzione, apparentemente semplice, può essere resa più rigorosa se prendiamo in esame la teoria della verità di Tarskj. Egli afferma che “la definizione di verità-in-O, dove ‘O’ è il linguaggio oggetto (il linguaggio per il quale la verità viene definita), deve essre fornita nel meta-linguaggio ‘M’ (il linguaggio in cui la verità-in-O viene definita)”. (“Filosofia delle logiche”, Susan Haack)
Bene, si dirà, tutto questo cosa ha a che fare con la filosofia?
Possiamo ipotizzare che se vogliamo cogliere la conoscenza su un campo di studio è meglio se lo vediamo dall’esterno, nella sua interezza. Quindi dovremo utilizzare un linguaggio che si allontana dal linguaggio oggetto e assume le caratteristiche di un metalinguaggio in grado di superare i limiti del linguaggio oggetto.
In questo meccanismo io vedo l’autentico e originale approccio della riflessione filosofica.
La filosofia è un metalinguaggio che permette di oggettivare qualsiasi altro campo del sapere e di lizzarlo per rilettere su di esso, sui suoi limiti che, abbiamo visto, sono strettamente legati ai limiti epistemologici interni all’insieme.
Non è forse questo che hanno fatto da sempre i filosofi?
Possiamo vedere la filosofia come una fuga dal linguaggio oggetto alla ricerca del nuovo, dell’inesplorato, della possibilità,
La filosofia ha anticipato il pensiero scientifico lasciandogli poi il campo quando questo ha sistematicamente indagato campi specifici e li ha indagati con un rigoroso linguaggio oggetto.
La cosa sorprendente è che gli stessi scienziati, riconoscendolo o meno, hanno riscoperto la filosofia partendo dai loro campi del sapere. Le librerie sono piene di splendidi testi di filosofia che non vengono inquadrati come tali solo perché scritti da studiosi di campi particolari della scienza.
Lo scienziato parte dal suo campo specifico e lo indaga e poi sente il bisogno di riflessioni più ampie, esce dal rigore del suo specifico linguaggio oggetto per librarsi nel metalinguaggio e così amplia gli orizzonti del pensiero.
Daniel C. Dennett in “Intuition pump” riporta una locuzione che coglie il processo stesso del filosofare: “going meta”.
E Ray Kurzweil si spinge ancora più in là, ipotizzando che il tipo di riflessione che per livelli sia in effetti dovuto alla stessa struttura conoscitiva della neocorteccia: “abbiamo la capacità di un pensiero gerarchivo, di comprendere una struttura composta da elementi differenti organizzati in uno schema, di rappresentare quella disposizione con un simbolo e poi di usare quel simbolo come un elemento in una configurazione ancora più eleborata” (“Come creare una mente”, 2012)La spinta è incontenibile: la filosofia accompagna la ricerca in uno scambio reciproco di sollecitazioni.
Ecco perché chiunque può essere un filosofo.
Torniamo a Jacques Monod. Il suo saggio parte con frasi del tipo: “L’acido aspartico possiede un atomo di carbonio asimmetrico, quindi è otticamente attivo” per finire con frasi del tipo: “Il prestigioso sviluppo della conoscenza da tre secoli a questa parte impone all’uono contemporaneo un’angosciosa revisione del concetto di se stesso e del suo rapporto con l’universo, concetto ormai radicato in lui da decine di migliaia di anni”.
Stephen Hawking, nel suo “A brief History of time” (1988) sintetizza questa dialettica in un passaggio: “Mi piace sottolineare che questa idea che tempo e spazio dovrebbero essere finiti senza confini è solo una proposta. Come ogni altra teoria scientifica, può essere stata inizialmente avanzata per ragioni estetiche o metafisiche, ma il test definitivo è se le sue previsioni si accordano con l’osservazione”
Dunque la continuità tra filosofia e scienza è garantita dagli stessi scienziati nel momento che trascendono il loro campo specifico per afferrare una visione diversa. L’immaginazione che Einstein riteneva essere il suo strumento più efficace.
Riprendendo un’iniziale affermazione: siamo tutti (un po’) filosofi e qualcuno, sicuramente, lo è di più, sono in grado ora di precisare che la base di partenza costituita da una solida conoscenza in un linguaggio oggetto rende il filosofare più plausibile. Uno scienziato, sia esso un fisico, un astronomo, un medico, un biologo, potrà espandere il suo universo salendo su un poderoso e consolidato insieme di conoscenze oggettuali. Ma in fondo tutti siamo un po’ filosofi. Lo è il muratore che dal suo punto di vista riflette sull’evoluzione delle case, il cuoco che cerca ispirazione in altri campi per trovare il senso di nuove ricette.
Ma alla fine c’é un limite a tutto ciò?
Plank avvertiva che “La scienza non può svelare il mistero fondamentale della natura. E queso perché, in ultima analisi, noi stessi siamo parte dell’enigma che stiamo cercando di risolvere” ( da John D. Barrow “I numeri dell’universo”).
Possiamo fare nostra questa affermazione, l’ultimativa dimostrazione dei limiti della conoscenza.
Ma quei limiti sono ancora piuttosto lontani e allora perché non lasciare che la mente scali la gerarchia dei metalinguaggi esaminando i problemi ai quali via via si trova di fronte e che non sono circoscrivibili in un rigoroso linguaggio oggetto?
Perché non lasciarci affascinare dalla filosofia?
La mia proposta di definizione è questa.
La filosofia è un modalità di ragionamento che prende ad oggetto delle sue metariflessioni campi diversi del sapere e dell’esistenza al fine di ampliare l’oggetto della riflessione.
Niente di più e niente di meno.