Ci sono libri che non cercano l’effetto, ma l’eco. Non impongono una voce, ma offrono un ascolto. Memorie di una Cipressa di Dionisio Pratelli è così: non ci insegna nulla, ma ci fa ricordare — e, ricordando, pensare.
Il narratore è un albero: una cipressa femmina, solitaria e antica, testimone della vita rurale toscana degli anni Quaranta. È lei a raccogliere e restituire il racconto, come se le sue radici fossero fatte di memoria. La voce dell’autore si affida a quella della pianta, e in questo gesto si compie un ribaltamento sottile: l’umano tace, ascolta, si fa ospite del paesaggio.
Il dialogo fra l’autore e l’albero è semplice, quasi infantile, ma carico di tempo. Rievoca la mezzadria, il pane duro, le zappe, gli spaventi del dopoguerra. Ma non c’è mai nostalgia compiaciuta, semmai una forma di umiltà: la consapevolezza che quei frammenti, se non raccolti, si perdono.
E allora si salva tutto: i proverbi (“lo segno col carbon giallo”), i modi di dire, le espressioni contadine. La lingua diventa fossile vivente, architettura del mondo. Una lingua che non serve più a nulla, e proprio per questo dice il necessario. Perché — scriveva Calvino — la leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore. E qui, ogni parola sembra poggiare sulla pagina con quella leggerezza.
La prefazione di Andrea Friscelli richiama le ricerche botaniche di Stefano Mancuso sull’intelligenza vegetale. Non è un vezzo accademico, ma una chiave: la Cipressa non è metafora, è organismo narrante. È coscienza che non giudica, ma osserva. E ci chiede, senza pretese: “Ti ricordi chi eri, prima di correre così forte?”
In fondo, Pratelli non scrive per lasciare un messaggio, ma per non perdere un tono. Scrive perché qualcosa resti. Non la trama, non il personaggio. Ma il respiro. Il passo lento. La possibilità, ancora oggi, di fermarsi e sentire che anche un albero può raccontare noi.
E che, senza parlare, ci ricorda che siamo parte di qualcosa che non ci appartiene.