Da sempre l’essere umano si interroga sul senso ultimo dell’universo. Ci chiediamo se la realtà abbia un fine, un disegno, un orientamento intrinseco, oppure se sia soltanto il prodotto cieco di processi fisici e biologici privi di intenzione. È una domanda che attraversa millenni di pensiero e che, lungi dall’essere superata dall’avanzare della scienza, riemerge con forza proprio oggi, in un’epoca in cui la nostra capacità di conoscere e manipolare la materia ha raggiunto livelli un tempo inimmaginabili. Eppure, più sappiamo sul come il mondo funziona, più il perché sembra sfuggirci.
Due figure, profondamente diverse per formazione e per visione, hanno affrontato questa domanda da angolazioni opposte ma complementari: Stanley L. Jaki, fisico e sacerdote benedettino, e Federico Faggin, fisico e inventore del primo microprocessore. Entrambi condividono il rifiuto del riduzionismo materialista, la consapevolezza che libertà, coscienza e significato non possano essere spiegati solo attraverso leggi fisiche. Ma divergono radicalmente sulla via per rispondere alla domanda sullo scopo ultimo di tutto ciò che esiste.
Stanley Jaki è stato uno dei pensatori più influenti del Novecento sul rapporto tra scienza e fede. Nel suo libro Lo scopo di tutto (Edizioni Ares, 1994), affronta di petto la questione della finalità cosmica, mettendo in luce i limiti intrinseci del metodo scientifico quando cerca di rispondere a domande sul senso. La scienza, afferma Jaki, è straordinariamente efficace nel descrivere i meccanismi dell’universo, nel formulare leggi, nel predire fenomeni. Ma non ha strumenti per dire perché l’universo esista, né perché esistano la vita e la coscienza. Le leggi della fisica spiegano come si muovono i corpi celesti, ma non dicono nulla sul significato del loro moto. La biologia descrive l’evoluzione delle specie, ma non può stabilire se l’evoluzione abbia un fine intenzionale. Persino teorie come il principio antropico, che osservano come l’universo sembri “tarato” per la comparsa della vita, si fermano di fronte al passo decisivo: trasformare l’osservazione in senso.
Secondo Jaki, questo limite non è un difetto della scienza, ma un segno della sua natura: essa è nata per rispondere al come, non al perché. Ma se la domanda di senso rimane aperta, allora occorre guardare oltre. Per Jaki, la chiave per comprendere la finalità ultima del cosmo sta nel riconoscere che l’universo non è autosufficiente: ha bisogno di una causa esterna, trascendente, personale. La libertà e la coscienza – due realtà che sfuggono a ogni spiegazione puramente meccanica – diventano qui indizi cruciali. Se tutto fosse determinato da leggi cieche, parlare di scopo sarebbe privo di senso. Ma il fatto che noi siamo capaci di intenzionalità, di scelta, di interrogativi morali, suggerisce che la realtà è più profonda della materia che la costituisce.
Da questa prospettiva, l’universo trova il suo senso ultimo solo se pensato come creato da un Dio personale, capace di imprimergli un orientamento e un destino. In questa cornice, la figura di Cristo rappresenta – per Jaki – il compimento storico della finalità cosmica: non un’aggiunta religiosa alla scienza, ma la chiave per interpretare il cosmo nel suo insieme. Scienza e fede, in questa visione, non sono rivali: la prima esplora il funzionamento dell’universo, la seconda ne illumina il significato.
Una pagina significativa del libro mostra quanto questa prospettiva tocchi corde profonde dell’esperienza umana. Jaki cita il pensiero del filosofo Samuel Alexander, autore di Space, Time and Deity, che descrive il cosmo come un sistema impersonale, privo di scopo e di soggettività, in cui persino la preghiera sarebbe solo un’illusione psicologica. Ma lo stesso Alexander, di fronte alla prospettiva della morte, riconobbe che il rifiuto dell’immortalità personale dipendeva meno da ragioni oggettive che da fattori soggettivi: il modo in cui identifichiamo la mente con il corpo, il desiderio di sopravvivere nella memoria altrui, la nostra capacità di accettare la finitezza. In altre parole, la domanda sullo scopo non è mai soltanto cosmologica: è anche, e forse soprattutto, antropologica. Nasce dal nostro vissuto, dalla paura della morte, dal desiderio di lasciare traccia, dalla nostra relazione con il tempo e con gli altri.
la finalità non è solo una questione di strutture oggettive dell’universo, ma anche di coscienza soggettiva
Questo riconoscimento sposta la riflessione su un terreno decisivo: la finalità non è solo una questione di strutture oggettive dell’universo, ma anche di coscienza soggettiva. È la coscienza che pone la domanda di senso; è il sentimento umano, non solo la logica, a rendere inaccettabile l’idea di un cosmo senza scopo. Persino chi rifiuta ogni prospettiva di sopravvivenza personale si trova a fare i conti con questo bisogno profondo. Ed è proprio qui che si incontrano, sorprendentemente, la visione trascendente di Jaki e quella radicalmente diversa di Federico Faggin.
Faggin, celebre per aver inventato il microprocessore, negli ultimi anni ha proposto una visione che rovescia completamente la prospettiva tradizionale: la coscienza non è un prodotto della materia, ma la sua origine. L’universo non nasce da un’esplosione di particelle che a un certo punto genera la coscienza; al contrario, la coscienza è la realtà primaria da cui emerge la materia stessa. In questa prospettiva, ogni livello dell’essere possiede una forma di esperienza interiore: un’idea che si avvicina a certe versioni del panpsichismo e dell’idealismo filosofico, ma che Faggin tenta di reinterpretare alla luce della fisica contemporanea.
Come Jaki, Faggin rifiuta il riduzionismo scientista e denuncia l’insufficienza della fisica classica per spiegare libertà e intenzionalità. Ma mentre Jaki cerca risposta in un principio trascendente esterno al mondo, Faggin individua la chiave all’interno del mondo stesso: nella coscienza come struttura originaria della realtà. Se per Jaki il senso viene “dall’alto”, da un Creatore che dona finalità al cosmo, per Faggin esso è intrinseco al reale perché appartiene alla natura stessa della coscienza.
La differenza è abissale, ma il punto di contatto è evidente: entrambi rifiutano l’idea che l’universo sia un incidente privo di significato. Entrambi affermano che la domanda sul senso non può essere eliminata né derubricata a residuo psicologico. Ed entrambi mostrano che scienza, filosofia e – in modi diversi – spiritualità devono dialogare se vogliono affrontarla seriamente.
Il passaggio del libro di Jaki in cui Alexander riconosce il ruolo dei fattori soggettivi rivela, anzi, quanto questo dialogo sia inevitabile. Il bisogno di finalità non è un’invenzione della religione né una debolezza dell’intelletto: è una componente strutturale della coscienza. Che lo si interpreti come segno di una trascendenza personale o come manifestazione di una coscienza cosmica, esso resta il punto da cui partire per interrogare il senso dell’universo.
Il confronto tra Jaki e Faggin illumina così la tensione più profonda del pensiero contemporaneo. Da un lato, la spinta a cercare un principio esterno, trascendente, capace di fondare il senso e di rispondere alla nostra domanda di destino. Dall’altro, la ricerca di una spiegazione interna alla realtà stessa, che faccia della coscienza non un prodotto finale, ma l’origine da cui tutto scaturisce. Due strade divergenti, ma animate dalla stessa convinzione: che l’universo non sia soltanto una somma di particelle in moto, ma un intreccio di libertà, consapevolezza e intenzionalità.
Forse non esiste una risposta definitiva alla domanda sullo scopo di tutto. Ma proprio nel confronto tra visioni così diverse emerge qualcosa di più prezioso di una soluzione: la consapevolezza che interrogare il senso è parte essenziale dell’essere coscienti. E che la nostra sete di significato, lungi dall’essere un’illusione, è forse il segno più profondo del mistero che ci abita e ci trascende.
a differenza delle IA la nostra sete di significato, lungi dall’essere un’illusione, è forse il segno più profondo del mistero che ci abita e ci trascende