La tecnologia non è più un oggetto che accendiamo e spegniamo. Non è la radio che restava muta la notte, o la televisione che iniziava i programmi nel pomeriggio.
È entrata nelle giornate senza che ce ne accorgessimo. Sta lì, come l’acqua del rubinetto o la luce della lampadina. Non ci chiediamo più quando l’abbiamo accesa.
Si dice che siamo ancora liberi. In parte è vero. Ma le scelte ci arrivano già ordinate. Ci vengono mostrate in fila, come piatti su una tavola.
Ci sembra di volere una cosa, e invece la vogliamo perché ci è stata messa davanti.
Un tempo era diverso. Ricordo quando andavo in libreria. Si girava tra gli scaffali. A volte si usciva con un libro scelto a caso, altre volte senza niente. La scelta nasceva anche dal vuoto.
Oggi i libri ci vengono consigliati in base a ciò che abbiamo già letto. Sembra una comodità, ma è una perdita. Il vuoto non lo incontriamo più.
Non possiamo dare tutta la colpa alle macchine. Ma non possiamo crederle innocenti. Ci restituiscono un’immagine semplificata di noi stessi. Se ci specchiamo solo lì, diventiamo più poveri.
La responsabilità rimane nostra. È la stessa che sentivamo quando arrivava una lettera. Non si rispondeva subito. La si lasciava sul tavolo per giorni. La risposta maturava lentamente.
Oggi si pretende che rispondiamo subito. Ma nel subito rischiamo di perderci. Bisogna tornare al corpo. Al respiro che si ferma. Al cuore che batte più forte davanti a un volto inatteso.
Queste cose non si possono prevedere. Non si possono programmare.
La libertà non è un clic. È fermarsi un momento prima di compiere quel gesto. È lasciare che l’emozione diventi pensiero e che il pensiero diventi responsabilità.
Un mattino, in cucina, ho visto il telefono illuminarsi sul tavolo. Non l’ho preso. Ho guardato il vapore del tè salire e svanire. Ho pensato che la libertà fosse lì, nel non rispondere.
Non era un grande atto. Era una pausa piccola. Ma in quella pausa ero intera.
Forse dobbiamo imparare a convivere con le macchine come si convive con i rumori della città. Non si eliminano. Restano.
Ma possiamo ancora riconoscere ciò che è nostro: il dubbio, l’incertezza, la meraviglia, la capacità di tacere quando tutto ci spinge a parlare.
In quella povertà, fatta di silenzio e di piccoli gesti, rimane la nostra ricchezza più vera.