Go down

"Agire da folli. Sono d’accordo ed è una via che percorro. Si tratta del mantenersi in una postura interiore, di uno scioglimento di legami, continuando ad attraversare il quotidiano, ma evitando di cadere in quei meccanismi meramente reattivi, proiettivi e identificativi che sono l’esatto contrario di quanto è necessario alla divina mania [follia]. Tutto ciò può provocare, nelle relazioni come nel lavoro, incomprensioni, fraintendimenti, anche rotture. Si diventa e ci si rende, per più versi, “irriconoscibili”. Ci sottrae a quelle dinamiche che, sul piano meramente psicologico, appaiono così rilevanti. Essere riconosciuti, che l’altro mi riconosca, con tutto ciò che implica, su diversi piani, il riconoscimento. Per lo sviluppo di un bambino l’essere riconosciuto da uno sguardo che lo accoglie così come il riconoscersi allo specchio è una tappa evolutiva. Ma bisogna poi anche andare oltre al riflesso della superficie. Entrare nello specchio. "


Tra un motore di ricerca e un negozio online, per l’acquisto di un libro preferisco frequentare le sempre meno numerose librerie esistenti che ancora resistono. Mi capita così di incontrare, per caso, per scelta, per curiosità, libri che non avrei mai trovato online. Mi capita anche di rimanere quasi sempre soddisfatto dell’incontro casuale che ha determinato la mia scelta, portandomi a conoscere scrittori prima a me sconosciuti. Soddisfatto sono stato anche dalla lettura del libro Vertigine della soglia, scritto da Davide Susanetti, da me letto e gustato sulle spiagge di Kythera. Avendo scritto un libro sull’Oltrepassare, l’andare Oltre, Altrove, ho trovato in ognuna delle ventidue tappe in cui è organizzato il viaggio simbolico e filosofico del testo, particolarmente stimolante il richiamo all’Oltranza, a infrangere il limite che ci arresta, a imparare a muoversi nel labirinto nel quale siamo tutti imprigionati. Un limite, tutto umano, che oggi ci illudiamo di eliminare o affrontare con l’aiuto di Intelligenze (?) Artificiali (?) ma che invece assume un significato tutto esistenziale, iniziatico.  Da qui è nata la voglia di intervistare l’autore del testo e l’intervista che segue.

“Occorre Oltranza, per andare Oltre. Per infrangere il limite che ci arresta, per avanzare nei meandri del labirinto verso un’uscita di luce” (Vertigine della soglia – Davide Susanetti)

 

In questa intervista Carlo Mazzucchelli dialoga con Davide Susanetti, autore del libro Vertigine della soglia, pubblicato da Tlon.


 

Buongiorno Professore. Le confesso, a motivare l’acquisto del suo libro sono state due parole trovate in copertina: soglia e metamorfosi. L’era delle macchine e delle policrisi attuale ci ha portati tutti, con la nostra complicità, sull’orlo del caos, una porta (soglia, voragine) aperta su futuri esistenzialmente incerti, su percorsi morti e scenari da vertigine. I tempi sono quelli che sono, di soluzioni in vista non ce ne sono, servirebbe uno strappo, un cambio di passo, uno scarto, ma come trovarli? Lei ha qualche risposta, per i molti che oggi vivono nello “spaesamento e nella voragine, nell’assenza e nel vuoto? 

Anzi tutto, una considerazione di prospettiva a temperare lo sguardo e la percezione del presente. Noi tutti abbiamo la spontanea tendenza a ritenere che “le cose stiano”, che esse sussistano nel perdurare di una qualche stabilità e di modi cui siamo avvezzi. In realtà, le cose non “stanno” propriamente mai, ma muovono e si trasformano incessantemente nel flusso di un divenire.

La vita si evolve per “crisi” o, se vogliamo usare una espressione propria dei chimici, per successione di “stati attivati” dove il contatto tra elementi scatena reazioni, rompe legami, libera energie per poi, dopo un momento di picco, ridiscendere a coagularsi in una nuova configurazione. Salvo il ricominciare dello “stato attivato” un’altra volta, attraverso ulteriori mescolanze. 

Ora, il “caos” è propriamente ed etimologicamente un’apertura, una beanza, da cui promanano forme. Ogni forma compare, si stabilizza per poi dissolversi quando la sua funzione vitale è cessata. E, se vogliamo esprimerci alchemicamente, non si produce trasformazione del piombo in oro se non si passa per il “nero più nero”, se non si transita attraverso una “putrefactio”.

Tutto questo per dire una cosa. Stiamo vivendo, certo, una fase intensa, sconcertante e accelerata di trasformazioni. Forse più accelerata dalla possibilità percettiva della maggioranza di noi. Ma questo non è sinonimo di “fine” o di “catastrofe” senza appello, ma, appunto, un andare oltre le cui modalità concrete si invereranno progressivamente e sono suscettibili di percorsi molti diversi.

Quel che si potrà fare, a seconda delle posizioni individuali, è contribuire a indirizzare i vettori in una direzione più che in un’altra. Per questo, è tuttavia necessario, credo, compiere tre passi preliminari.

Il primo è rendersi conto che, per molti aspetti, noi agiamo come “zombie” inconsapevoli, morti che pensano di essere vivi. Che cosa intendo? Il fatto che molte delle nostre categorie mentali, delle nostre concettualizzazioni e degli schemi che ci orientano nel quotidiano appartengono a un’esperienza novecentesca e a un orizzonte-mondo che è, di fatto, già finito e portato a termine. Il che genera una sorta di sfasatura temporale rispetto al presente stesso e alla realtà che corre diversamente dal nostro passo.

Per questa stessa ragione, in secondo luogo, bisognerebbe sforzarsi di “osservare quel che c’è” nel modo più “spregiudicato” possibile. Ed uso l’aggettivo, anche qui, nel suo etimo, “senza pregiudizi”, cioè senza restare ancorati a schemi  abitudinari che, di fatto, ci impediscono di “vedere” perché già ritagliano e deformano ciò che si incontra.

In terzo luogo, bisognerebbe volgersi a una considerazione. L’opposto di caos è kosmos, “ordine”, o rta, secondo l’espressione dell’India vedica. Ma kosmos non è necessariamente l’“ordine” a misura e secondo l’utile dell’umano così come siamo abituati a configurarlo. Come insegna Guénon, facendo eco alla tradizione, gli stati dell’essere sono molteplici e molteplici i piani della realtà. E l’ordine non è solo ciò che è visibile, anzi, per la parte più significativa, sta in ciò che sfugge alla visibilità. C’è il manifesto e l’immanifesto. Noi siamo nodi di una rete attraverso cui la vita si esprime nella manifestazione, ma non si esaurisce in essa, così come noi non ci esauriamo nel dato del nostro essere in atto. Abbiamo molte possibilità di essere-diventare che giacciono latenti, sopite. Si tratta di venirne in contatto, di risvegliarle e di creare nuove sintesi. Da questo punto di vita, non siamo soli e smarriti. Abbiamo le immani risorse di una tradizione che ci sta alle spalle, tradizione non solo e non tanto di concetti, ma di pratiche di sé, grazie alle quali, in modo non fideistico, ma del tutto sperimentale, si possono sviluppare le possibilità cui accennavo, si può  — e auspicabilmente si dovrebbe — pervenire a una sintesi del digitale e dell’analogico, del discreto e del continuo, dei processi che agiscono in modo binario e secondo il principio di sostituzione e della modalità che opera, invece, nel tessuto coeso di una Mente unitaria che pervade e lega ogni cosa. 

 

Al punto in cui ci troviamo, travolti dal cinismo e dall’individualismo, lontani da ogni anelito spirituale e trascendentale, senza umanità, è come se girassimo, in forma di spirale, in tondo, ansiosi e senza pace, senza soluzioni. Servirebbe un grande reset (mentale, cognitivo, esistenziale, spirituale) ma come fare? Nel suo libro, se ho ben compreso, lei non offre soluzioni, ma suggerisce di mettersi in cammino, alla ricerca di un nuovo inizio, una nuova iniziazione, nel tentativo di varcare un confine. Facile a dirsi, difficile a farsi, visto che da tempo siamo immobili, chiusi in un individualismo esercitato su piattaforme che si dicono social ma hanno ucciso la socialità e la memoria (“Everything is on the Cloud, Stupid”), abbiamo dimenticato chi siamo, cosa sia la realtà (la verità), abbiamo perso la capacità di “fare una scelta”. Mettersi in cammino è frutto di una scelta, è uscire dalla inconsapevolezza per andare Oltre, alla ricerca di conoscenza e consapevolezza, allontanandosi “da una vita che si crede di vivere”. Cosa si sentirebbe di dire a chi su questo cammino oggi avesse scelto di incamminarsi? 

Lei, giustamente osserva, che non offro “soluzioni”. Questo è, in modo assai rilevante, la prima questione cui faccio segno nel disegnare il percorso del libro.

Sarebbe opportuno, e forse vitale a questo punto, spogliarsi della prospettiva — propria della modernità e del Novecento — che ci sia una “soluzione” intesa come un dato, un contenuto, un progetto, una ricetta o un procedimento che sia sufficiente “applicare” per “risolvere”.

Qualsiasi “dato”, come segnala anche qui la lingua, è un participio passato, una cosa che è già ed è già stata. Il richiamo all’esperienza “mistica” che percorre il mio libro, è, per contro, un movimento che, nell’interruzione e nella discontinuità del “dato” che siamo abituati a riconoscere e a maneggiare, ci porti, anzi tutto, a fare il “vuoto” e il “silenzio” della mente ragionante-discorsiva con cui ci identifichiamo e attraverso cui articoliamo insistentemente strategie per far presa sulla cosiddetta realtà come cosa altra ed esterna rispetto a noi.

Il “vuoto” e il “silenzio” sono ciò che ci porta a un punto di “origine” che non è un inizio cronologico, ma là dove, disfandosi tutto ciò che è stato, scaturisce, come da una sorgiva, il possibile di un movimento vitale da farsi. È nel “vuoto” e nel “silenzio” che si rigenera lo sguardo e il rapporto con il tutto, che si oltrepassa la soglia del “saputo” e dell’“avvenuto” in direzione del “sapiente” e dell’“avveniente”. Portarsi nell’esperienza pulsante di un participio presente, ovvero di un presente che è e rispetto al quale, come si diceva pocanzi, siamo tendenzialmente sfasati e scotomizzati.

Possiamo formularla anche in altri termini, pensando al taoismo: il saggio taoista pratica il wu-wei, il non-agire, che non è un’astensione dall’azione in sé, ma un’astensione appunto da quella modalità che ritiene di “applicare una strategia” e un “progetto” per modificare il reale.

Si tratta invece di porsi nel cuore del reale, nella sua pulsazione centrale, nel sentirsi-percepirsi all’interno di esso e di fluire con il suo stesso movimento. Ma, per questo, bisogna prima svuotarsi, spogliarsi dei contenuti, delle cristallizzazioni, degli strati morti di un’individualità che fa da schermo e da ostacolo. E, né in oriente né in occidente, mancano le pratiche per pervenire a questo.

Pratiche che agiscono sul corpo e sulla mente contemporaneamente nei modi di un’esperienza e di un linguaggio che appartengono al regime del “simbolico”. Attraverso il “simbolico” bisognerebbe potere “suonare” sé stessi come uno strumento e insieme come la melodia stessa. Come una melodia in cui la “salvezza” è forse nel rinunciare all’attitudine marziale di “volere” la salvezza, perché, da un altro versante, tutto è sempre salvo. Mi rendo conto che tutto ciò non sia semplice da accogliere e da attuare. Ma la “verità” e la “salvezza”, nell’orizzonte cui faccio cenno, è ciò che noi stessi inveriamo quando accettiamo il rischio di fare di noi stessi un “esperimento”. 

bisogna sapersi svuotare, spogliare dei contenuti, delle cristallizzazioni, degli strati morti di un’individualità che fa da schermo e da ostacolo.

Per affrontare i tempi malati e ignoranti che stiamo vivendo non rimane che agire da folli, la follia oggi è essere saggi, affidarsi al lume del pensiero umano, della parola e della poesia. Per farlo, richiamando le sue parole, bisogna estraniarsi da ciò di cui si è circondati, non abbassarsi alla meschinità che ci accompagna ovunque oggi andiamo. Bisogna essere come Socrate, atopos, senza luogo e senza collocazione. Bisogna trovare il coraggio di affrontare la derisione e lo sberleffo, la falsità e la manipolazione, bisogna esiliare la propria anima dalla città. Facendo questo il saggio rischia l’isolamento, lo spaesamento, la vertigine. In un mondo che ha scambiato l’informazione per conoscenza in che modo secondo lei è oggi possibile perseguire la sapienza, agire da saggi? 

Agire da folli. Sono d’accordo ed è una via che percorro. Non a caso, insieme a molte voci della tradizione sapienziale, della filosofia e della letteratura — da Novalis a Borges, da Platone a Goethe — evoco anche la lama dei Tarocchi in cui campeggia la figurazione simbolica del “Matto”.  

E anche qui bisogna intendersi su ciò che associamo al termine “follia”.  Se guardiamo alla Grecia arcaica e classica, mania  è parola che, da un lato, può indicare la pazzia nel senso patologico e organico del termine, ma, dall’altro, e in modo assai più prezioso e significativo, designa uno “stato non ordinario di coscienza”, uno “stato di intensità”, pensato e accolto come un dono divino, ovvero come ciò che va “oltre” la soglia del consuetamente umano. Ancora una volta, un’apertura, uno stato sorgivo, lo scaturire di una scintilla, un’espansione dell’essere che è, nel medesimo tempo, la sua massima concentrazione.

Andando all’India vedica, è il tapas, l’“ardore” cui il saggio perviene e che gli consente di lacerare la nebbia che per solito oscura lo sguardo (Roberto Calasso ci ha dedicato un bellissimo libro). Ora, è evidente che perseguire la mania o il tapas non è abbandonarsi a vaghe suggestioni, è questione di pura tecnica.

Una tecnica che comporta il fatto di strapparsi dal topos, dal “luogo” in cui si è normalmente confitti. Implica uno spostamento radicale. Un dis-allineamento rispetto a tutta una serie di atteggiamenti e processi in cui, per solito, siamo presi. Un abbandonare tutta una serie di punti di riferimento assodati per avventurarsi in altro.

Il che ha un costo. In prima battuta, provoca, di necessità, spaesamento o vertigine, per l’appunto. Ma è necessario, come insegnano anche tutte le pratiche iniziatiche. Così come è necessaria una sorta di “secessione” che è un isolarsi rispetto alla corrente maggioritaria e ordinaria dell’esistenza quotidiana e di quanto usualmente essa ci richiede o ci impone. Un distacco che, tuttavia, non va confuso con un isolamento materiale.

Si tratta, piuttosto, del mantenersi in una postura interiore, di uno scioglimento di legami, continuando ad attraversare il quotidiano, ma evitando di cadere in quei meccanismi meramente reattivi, proiettivi e identificativi che sono l’esatto contrario di quanto è necessario alla divina mania. Tutto ciò può provocare, nelle relazioni come nel lavoro, incomprensioni, fraintendimenti, anche rotture. Si diventa e ci si rende, per più versi, “irriconoscibili”.

Ci sottrae a quelle dinamiche che, pure, mi rendo conto, sul piano meramente psicologico, appaiono così rilevanti. Essere riconosciuti, che l’altro mi riconosca, con tutto ciò che implica, su diversi piani, il riconoscimento. Per lo sviluppo di un bambino l’essere riconosciuto da uno sguardo che lo accoglie così come il riconoscersi allo specchio è una tappa evolutiva. Ma bisogna poi anche andare oltre al riflesso della superficie. Entrare nello specchio. 

[serve] mantenersi in una postura interiore, di uno scioglimento di legami, continuando ad attraversare il quotidiano, ma evitando di cadere in quei meccanismi meramente reattivi, proiettivi e identificativi

 

La realtà si è fatta virtuale. Dentro i molteplici metaversi online stiamo sperimentando la sparizione del corpo, del volto (nulla a che fare con le facce di Meta) e dello sguardo. Identificati sempre più con i nostri profili digitali, assomigliamo a simulacri, automata, senza corpo ma anche senza un’anima, senza immaginazione (ci pensa ChatGPT con le sue allucinazioni), senza più possibili (Francois Jullien), privati di fantasia, incapaci di agire (nel senso esistenzialista di Miguel Benasyag), senza vita. Cosa potrebbe portarci a superare questa fase di stallo, ad avvicinarci alla soglia che ci potrebbe obbligare a fare una scelta, sulla base di una nuova conoscenza acquisita, di consapevolezza e, magari, di responsabilità? Lei sostiene che “a volte a scuoterci” potrebbe bastare un segno, un’apparizione, “il fugace balenio di qualcosa che accende il desiderio. Dove può nascere o dove si trova un segno come questo nel deserto del Kalahari nel quale ci siamo tutti rinchiusi, senza neppure più miraggi? 

In realtà, tutto è segno e tutto fa segno in una rete infinita di corrispondenze tra le singolarità che popolano la manifestazione e l’ulteriore orizzonte dell’immanifesto.

Tutto è simbolo, intendo per simbolo esattamente ciò che connette e che, in un dato del visibile e del percepibile, mi rinvia e mi connette a ciò che non è immediatamente qui, e pur lo diventa, per effetto della connessione. Simbolo è ciò che noi stessi diventiamo nel momento in cui aderiamo al suo richiamo. E non mi pare che ci muoviamo in un deserto. Quante testimonianze, quanti testi e contesti, sono iscritti nella nostra tradizione culturale e spirituale, che si forniscono vie e strumenti in questo senso.

Dai presocratici greci alle ricche esplorazioni del neoplatonismo, dalla galassia dell’ermetismo che attraversa carsicamente il pensiero europeo a certi esiti particolarmente sensibili della filosofia contemporanea che torna a tematizzare i modi del “diventare ciò che sei”. Si tratta solo di non essere distratti. Di essere capaci di sostare e, sostando attingere a questi tesori, che sono lì e che forse, come mai prima nella storia, sono disponibili, reperibili, alla portata di mano. Certo, gli orizzonti del main-stream vanno in altre assordanti direzioni. Ma ciò non è una ragione di scoraggiamento. Semmai, lo spunto ad essere infiltranti e virali nell’appello a queste risorse.

C’è un punto in cui, nel libro insisto in vario modo, esplicito o implicito. Ed è l’uso e lo sviluppo dell’immaginazione, di quella che la tradizione chiama “immaginazione vera”, che non è oziosa fantasticheria, ma è rigorosa tecnica, basterebbe solo pensare a Giordano Bruno, a Giulio Camillo o, andando verso Oriente, al mundus imaginalis dei sapienti dell’Iran.

Immaginazione che fa comunicare i piani della realtà, che materializza ciò che è intelligibile e smaterializza il sensibile, che restituisce forma e figura a ciò che, pur vediamo, ma non scorgiamo; così come essa, all’opposto, rende figurabile ciò che non ha per sua natura figura. Immaginazione che è risorsa potentissima di trasformazione personale nel momento in cui, prestando ascolto alla voce di miti, vicende simboliche, viaggi di conoscenza, diventiamo la realtà di quella stessa vicenda.

Mito e simbolo è ciò che noi stessi siamo quando aderiamo ad essi, diventando altri da noi e proprio per questo forse più propriamente noi. Il deserto è oasi e l’oasi è deserto. Dipende da che parte si guarda. Da come si guarda.

Come sarà il mondo a venire? — chiedeva qualcuno a un maestro della tradizione cabalistica. Lo stesso, ma leggermente diverso. E la differenza è lo sguardo. Dopo di che si può anche sperimentare il digitale, l’IA e ogni altra risorsa. Il problema non sono questi mezzi tecnologici, ma come ci muoviamo attraverso di essi.

Come osservavo anche di recente, in un articolo, l’IA semplicemente riproduce un piano e una modalità del funzionamento della mente. E può farlo più velocemente e più esattamente di noi. Ma questo libera, al contempo, delle energie per accedere a un piano che è oltre la ragione discorsiva e la razionalità calcolante.  Anche qui l’IA può essere un ostacolo o un’opportunità. Allo stesso modo del deserto e dell’oasi. Più complessa e non facilmente sintetizzabili qui la questione del corpo e della tendenza a rendere virtuale il corporeo a cui Lei accennava. Me la sbrigherò ricordando un adagio degli alchimisti. Non si tratta, alla fine, sempre di compiere lo stesso processo? Spiritualizzare il corpo e “corporificare” lo spirito, materializzare e smaterializzare. Principio ermetico e di tutta la magia rinascimentale. 

Come sarà il mondo a venire? —  Lo stesso, ma leggermente diverso. La differenza è lo sguardo. Dopo di che si può anche sperimentare il digitale, l’IA e ogni altra risorsa. Il problema non sono i mezzi tecnologici, ma come ci muoviamo attraverso di essi.

 

Torno sul concetto del cammino e del viaggio, a me caro, anche come co-fondatore con Francesco Varanini dell’iniziativa della SRULTIFERANAVIS (www.stultiferanavis.it), una nave al largo senza destinazioni predefinite e porti di attracco. Una nave dalla quale osservare il naufragio della terraferma, per andare oltre, forse semplicemente per tornare alla casa che si sente di avere perduto, smarrito. Lei scrive che “la via di casa non è mai la rotta più breve e lineare che il buon senso vorrebbe […], contraddice le illusioni, le facili speranze e i convincimenti più ovvi.” Tornare a casa potrebbe voler dire semplicemente risvegliarsi, comprendere la metamorfosi in corso, interrogarsi sulla fase di passaggio che si sta sperimentando, diventare consapevoli delle soglie già superate e di quelle che ancora si ergono di fronte a noi. Soglie insuperabili e inevitabili come quelle che nello storyelling dominante e colonizzatore sono assegnate alla tecnologia (oggi alle IA). E se la soluzione fosse semplicemente quella di “riconoscere la spazzatura che ci abita per transitare all’altra sponda dove si incontra l’angelo”? Come descriverebbe lei questo angelo e come potremmo oggi riconoscerlo? 

Argomento complesso e anch’esso non facilmente riducibile a sintesi rapida. Più questione di far segno che di “spiegare”.

Diciamo questo: l’“angelo” compare e traspare ogniqualvolta cessiamo di guardare alle “cose” come cose da usare, da possedere, da piegare a qualche scopo che sia a noi riferito. Quando, per usare un’espressione di Heidegger, lasciamo che “le cose coseggino” e “il mondo mondeggi” a prescindere da noi, da nostri bisogni e dalle nostre istanze.

L’angelo compare quando, per convocare la voce poetica di Rilke, la terra “risorge” invisibile in noi e, proprio per questo, per la prima volta davvero visibile e percepibile alla nostra coscienza.

E ancora, l’angelo compare quando invece di chiedere “che cosa?”, chiediamo “chi?, quando non reifichiamo e non definiamo, ma accogliamo la presenza delle singolarità del reale come presenze vive, come a loro volta “persone”.

Nel libro evoco i racconti esoterici di Attar’ e di Suhrawardi. In uno di essi, addentrandosi in una landa deserta, il protagonista incontra un essere misterioso, sembra giovane, ma è antico quanto l’origine. Uno strano colore lo contrassegna: il rosso purpureo. È l’angelo appunto che sta su quella duplice soglia del crepuscolo e dell’aurora quando il cielo si tinge di rosso per la mescolanza tra il bianco del giorno e la tenebra della notte.

Quando ci accostiamo a questa soglia, a questo confine tra luce e oscurità, tra bianco e nero, e diveniamo capaci di coglierle insieme, è un angelo colui che appare. Ma non è che noi stessi, divenuti capaci di questo movimento. Angelo, potremo infine aggiungere, è l’istante in cui ci connettiamo a quello che la sapienza greca chiamava daimon, ancora una volta altro da noi e insieme profondamente noi. Daimon è ciò che incessantemente ci chiama a trascendere la nostra datità. L’annuncio che l’angelo porta, secondo il suo etimo, è giustappunto questo. 

 

Infine, se ha tempo per un’altra domanda, mi piacerebbe se condividesse con i naviganti della STULTIFERANAVIS una sua prima impressione. Stanchi delle piattaforme, nostalgici del WEB dei suoi inizi, convinti del disincanto crescente verso la tecnologia (e non solo), noi siamo convinti che la soluzione sia nell’investire sulla lettura e sulla scrittura, sulla conoscenza (basta con la semplice informazione!), sulla (tecno)consapevolezza e sulla responsabilità, investendo sul principio speranza. Per noi un modo per contrastare l’individualismo e l’egoismo imperanti bisogna riscoprire la comunità e la solidarietà. A oggi la nave contiene già mille contributi. Se della nave ha una buona percezione, la invito a salire a bordo. Grazie per questa opportunità offertami per questa intervista. 

Un’impressione del tutto positiva per la ricchezza degli spunti nell’articolare una riflessione feconda e insieme attenta. Aggiungerei per chiudere due riflessioni.  

La prima è semplicemente questa: in verità, siamo tutti imbarcati, che lo sappiamo o meno. Allo stesso tempo, sarebbe saggio renderci conto che siamo insieme la nave e il mare. L’una e l’altro.

Navighiamo su qualcosa e con qualcosa e insieme siamo l’intera distesa su cui navighiamo.

E tale consapevolezza è già un positivo slargamento della percezione andando al di là delle dualità con cui spesso opponiamo noi stessi alla realtà e all’esistente.  

La seconda riguarda il principio della speranza che, certo, è virtù teologale e dunque importante risorsa. Essenziale rifarsi ad essa, ma al contempo sarebbe necessario “de-psicologizzarla” e renderla effettivamente “teo-logica”.  Perché dico questo?

Mi è più volte accaduto, anche di recente, di partecipare a contesti — conversazioni, festival o seminari — in cui, con serietà e positiva disposizione, venivano affrontati temi e questioni di filosofia in rapporto al nostro presente ed anche in rapporto ai temi che abbiamo evocato in questa intervista. Ho avuto modo di notare, al di là e insieme al sincero impegno delle discussioni, la tenace, ancorché spesso inconsapevole, tendenza a cercare, nella filosofia o nelle tradizioni sapienziali, un principio di rassicurazione a compensazione dello smarrimento e del senso di crisi.

Ecco, penso che il punto non sia quello di rassicurarci né quello di sperare nel nostro soggettivo persistere e durare, né infine quello di mettere in atto dei meccanismi difensivi rispetto a quanto pare incerto o inquietante. Da un certo punto di vista, mi verrebbe da dire per paradosso, si conosce quel che sia la speranza quando si smette di sperare. Per chiudere, una considerazione d’insieme che riguarda anche il vostro progetto.

Operativamente, per poter tentare di viaggiare nei territori e nelle modalità che abbiamo cursoriamente evocato e che il libro sviluppa, è certo importante disporre di quelle che, per usare un’espressione di Hakim Bey, potremmo designare come T.A.Z. ovvero Zone di Autonomia Temporanea, o  potremmo anche chiamarle, seguendo il diverso spunto di Foucault, eterotopie.

Luoghi in cui si possano effettivamente sospendere i linguaggi, i gesti e gli schemi di pensiero che pratichiamo abitualmente per poter sperimentare altro, per poterlo sperimentare in un “recinto” protetto, per poterlo anche condividere con altri. Superfluo aggiungere che la nave è, per eccellenza, un luogo simbolico di tale natura. La nave pirata o, appunto, la nave dei folli. Più si moltiplicheranno le navi nel mare, più si creerà una massa critica capace di orientare la direzione dell’oltre.  

il punto non sia quello di rassicurarci né quello di sperare nel nostro soggettivo persistere e durare, né infine quello di mettere in atto dei meccanismi difensivi rispetto a quanto pare incerto o inquietante


Davide Susanetti

Davide Susanetti (1966) è professore di Lette­ratura greca all’Università degli Studi di Pado­va. Si occupa di teatro antico, di filosofia greca e di tradizioni esoteriche.
Tra i suoi libri più recenti ricordiamo Luce delle muse. La sapienza greca e la magia della parola (Bom­piani, 2019), Il simbolo nell’anima. La ricerca di sé e le vie della tradizione platonica (Carocci, 2020), Il talismano di Fedro. Desiderare, vedere, essere (Carocci, 2021), Quei discorsi dell’amore. Leggen­do il Simposio di Platone (Carocci, 2025).

 

 

Pubblicato il 21 settembre 2025

Carlo Mazzucchelli

Carlo Mazzucchelli / ⛵⛵ Leggo, scrivo, viaggio, dialogo e mi ritengo fortunato nel poterlo fare – Co-fondatore di STULTIFERANAVIS

c.mazzucchelli@libero.it http://www.stultiferanavis.it