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percorso ... da sistemare (Carlo?)

L'inizio: una domanda che non trovava risposta

Tutto è iniziato con una frustrazione professionale. Dopo anni di project management, mi sono accorto che qualcosa non quadrava. I framework funzionavano, le metodologie producevano risultati, eppure mancava qualcosa di essenziale. I progetti sembravano macchine efficienti ma prive di vita, strutture che funzionavano ma non respiravano.

La domanda che mi ha accompagnato in questo percorso è stata: perché i progetti più riusciti non seguono mai davvero il piano? E soprattutto: cosa rende un progetto davvero vivo?

Ho iniziato a cercare risposte non nei manuali di management, ma altrove. In filosofia, nelle scienze naturali, nell'osservazione diretta dei team che funzionano davvero. Quello che segue è il racconto di questa ricerca, attraverso cinque tappe che mi hanno portato a una consapevolezza inaspettata.

Prima tappa: la critica al meccanicismo

Il primo passo è stato riconoscere il problema. Nel saggio Contro la meccanizzazione del Project Management, ho messo a fuoco la deriva burocratica che affligge la disciplina. L'ossessione per i processi, la moltiplicazione dei rituali, la trasformazione dei daily standup in liturgie vuote.

"Il project management non è una tecnica da applicare, né una macchina da programmare. È un modo di stare nel mondo: tra incertezza, decisione e fallibilità."

Il feticismo delle certificazioni

Parallelamente a questa presa di coscienza, mi sono scontrato con un altro sintomo della deriva meccanicista: l'ossessione per le certificazioni. PMP, Agile Master, Scrum Certified — titoli che proliferano come francobolli da collezione, spesso richiesti più dai recruiter che dalla realtà operativa.

Ho visto colleghi brillanti scartati perché "mancava il bollino", e candidati mediocri promossi grazie a un acronimo nel CV. Ma cosa attesta davvero una certificazione? Nel migliore dei casi, una conoscenza momentanea nel momento del test. Nel peggiore, la fortuna di aver indovinato abbastanza risposte a crocette.

La vera competenza nel project management — quella che ho imparato a riconoscere nei professionisti più capaci — non si certifica. È fatta di intuito relazionale, capacità di leggere i contesti, sensibilità per i tempi giusti. È l'arte di sentire quando un team è sotto stress, di riconoscere un conflitto che covava sotto le apparenze, di sapere quando fermarsi ad ascoltare invece di procedere con il piano.

Questa competenza si coltiva, non si ottiene per grazia di un ente certificatore. E forse è proprio qui che inizia la precarietà di cui parlerò più avanti: quando la legittimità professionale dipende da concessioni esterne invece che da competenze radicate.

Questo primo articolo è stato liberatorio ma insufficiente. Sapevo cosa non funzionava, ma non ancora cosa dovesse sostituirlo. La critica era necessaria, ma non bastava.

Seconda tappa: l'intelligenza nascosta

Proseguendo la ricerca, mi sono imbattuto in un paradosso apparente: nelle organizzazioni, l'intelligenza c'è sempre, ma spesso viene sprecata. In L'intelligenza sprecata, ho esplorato come i sistemi rigidi soffochino la creatività naturale dei team.

"Tutti sanno cosa servirebbe fare. Pochi sanno — o vogliono — decidere. E così si convoca una riunione. Poi un'altra. E poi un'altra ancora."

Ho capito che il problema non era la mancanza di competenze, ma l'incapacità di creare spazi dove l'intelligenza collettiva potesse emergere. I migliori progetti che avevo visto nascevano sempre dai margini, dalle conversazioni informali, dai momenti non pianificati.

Terza tappa: la lezione delle piante

La svolta è arrivata leggendo Stefano Mancuso. In Imparando dalle piante, ho esplorato un modello completamente diverso di organizzazione: quello del mondo vegetale. Le piante non hanno un cervello centrale, eppure mostrano forme di intelligenza collettiva straordinarie.

"Il mondo vegetale, descritto da Mancuso come una rete decentralizzata e collaborativa, si rivela essere un modello perfetto per i team Agile. In un progetto software, infatti, non c'è un'unica entità che prende tutte le decisioni: ogni membro del team, dal Product Owner agli sviluppatori, contribuisce attivamente, in una sorta di intelligenza collettiva."

Questa analogia biologica mi ha aperto una prospettiva nuova. I progetti migliori non sono macchine, sono ecosistemi. Non si gestiscono, si coltivano. La resilienza non nasce dal controllo, ma dall'adattamento distribuito.

Quarta tappa: metamorfosi e kaizen

Approfondendo questo filone, in Progetti come metamorfosi, ho incontrato la filosofia Kaizen e il pensiero della complessità. Ho scoperto che il cambiamento autentico non è lineare ma evolutivo, non è imposto ma emergente.

"Kaizen non è la ricerca dell'efficienza come valore assoluto, bensì un'etica della presenza operativa. Non produce automatismi, ma richiede osservazione, dubbio, apprendimento."

Ho iniziato a vedere i progetti come processi di trasformazione continua, dove ogni iterazione non è solo un avanzamento verso l'obiettivo, ma un momento di apprendimento sistemico. Il fallimento smette di essere un problema da evitare e diventa un segnale da interpretare.

Quinta tappa: oltre il controllo

Il culmine di questo percorso è stato l'incontro con una riflessione pubblicata su Stultifera Navis, intitolata Oltre il controllo. Qui ho trovato la sintesi teorica che mancava alla mia ricerca: la necessità di ripensare i fondamenti epistemologici del project management, non solo le sue tecniche operative.

L'articolo mostra come sia urgente passare dal project management come "disciplina del controllo" al project management come "pratica dell'apprendimento". Ogni progetto diventa un esperimento, una ricerca aperta su ciò che non è stato ancora esplorato. Come scrive l'autore: "Il project manager non è più un esecutore di piani. Si avvicina piuttosto alla figura dell'architetto della conoscenza, capace di progettare contesti in cui l'apprendimento possa emergere e consolidarsi."

Questa prospettiva ha rivoluzionato il mio approccio. Ho capito che la conoscenza "non si possiede: si costruisce nel dialogo tra differenze, attraverso un processo continuo di scambio, negoziazione e co-creazione." Il team non è più un aggregato di competenze individuali, ma un sistema cognitivo interconnesso, un organismo che apprende collettivamente.

L'articolo cita esempi straordinari: dalle pratiche di Netflix con il Chaos Engineering (che introduce volutamente errori per testare la resilienza) fino alle antiche forme di governance afghane come la shura, dove le decisioni emergono dal dialogo collettivo, non dall'imposizione gerarchica. Ho realizzato che esistono forme di intelligenza collettiva che si attivano solo nella relazione, nell'ascolto, nella reciprocità.

La conoscenza non è una risorsa da gestire, ma "il linguaggio stesso con cui un'organizzazione costruisce il proprio futuro." E qui si chiude il cerchio: i progetti sono organismi viventi perché sono sistemi di apprendimento, non macchine da ottimizzare.

La scoperta: progetti come organismi viventi

Al termine di questo percorso, la consapevolezza è cristallina: i progetti sono organismi viventi, non macchine. Come tutti gli organismi, hanno bisogno di:

  • Nutrienti (risorse, informazioni, energia)
  • Respiro (ritmi sostenibili, pause, riflessione)
  • Relazioni (connessioni, comunicazione, fiducia)
  • Adattamento (capacità di rispondere ai cambiamenti)
  • Crescita (apprendimento continuo, evoluzione)

Gestire un progetto significa creare un habitat favorevole alla vita, non costruire una macchina efficiente. Il successo non si misura solo in deliverable raggiunti, ma nella salute dell'ecosistema, nella qualità delle relazioni, nella capacità di generare valore anche oltre gli obiettivi originari.

Verso una nuova pratica

Questa consapevolezza sta già cambiando il mio modo di lavorare. Invece di imporre processi, osservo pattern emergenti. Invece di controllare, facilito. Invece di pianificare tutto, creo spazi di possibilità. I risultati sono sorprendenti: team più motivati, progetti più resilienti, risultati spesso migliori di quelli pianificati.

Oltre la precarietà: progetti come diritto ontologico

Durante questa ricerca, mi sono imbattuto nella vera etimologia della parola 'precarietà'. Non significa solo temporaneità o incertezza — significa ottenuto per grazia, revocabile ad arbitrio altrui. Ed è esattamente la condizione in cui operano troppi progetti: team che 'supplicano' risorse, obiettivi che cambiano per decisioni arbitrarie, autonomia concessa e revocata a piacimento.

Un organismo vivente, al contrario, non è precario: ha diritto di esistere. Ha le sue stagioni, i suoi ritmi, le sue necessità non negoziabili. Trattare i progetti come organismi significa riconoscere loro questo diritto ontologico: non sono concessioni temporanee, ma realtà che meritano di crescere secondo la loro natura.

Il project management del futuro, forse, non sarà più una disciplina di controllo, ma un'arte della coltivazione. Non avremo più manager che dirigono, ma giardinieri che curano ecosistemi progettuali.

E in questo nuovo paradigma, ogni progetto sarà davvero un organismo vivente: unico, irripetibile, capace di crescere oltre le aspettative di chi l'ha concepito.


Note e approfondimenti

Per chi volesse approfondire le basi teoriche di questo percorso di ricerca, segnalo un testo fondamentale che ha ispirato molte delle riflessioni qui esposte: Il project management come sistema complesso di Francesco Varanini.

Varanini, con il rigore del filosofo e l'esperienza del consulente, ha saputo anticipare molte delle questioni che la disciplina sta oggi affrontando. La sua visione sistemica del project management come pratica complessa, non riducibile a procedure lineari, è stata una bussola preziosa in questo viaggio di scoperta.

Questo percorso continua. Le domande che nascono sono più interessanti delle risposte che ho trovato. E forse è proprio questo il segno che la ricerca è viva.

Pubblicato il 11 giugno 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto