“De te fabula narratur”, è di te che parla la favola. Questa frase presa dalle Satire di Orazio mi è tornata in mente dopo aver visto diventare lentamente virale una storia, peraltro piuttosto ben raccontata, dell’incontro fra un leone e un robot guidato dalla cosiddetta intelligenza artificiale (sul cosiddetta ci torno, abbiate pazienza) che ho utilizzato in alcune delle illustrazioni di questo nuovo numero della newsletter.
Secondo questa favola contemporanea, un gruppo di ingegneri in Africa aveva addestrato un robot capace di riconoscere emozioni. Il prototipo aveva imparato a definire gioia, rabbia, dolore e paura.Di fronte a un leone vero, però, il sistema si blocca. Registra solo: “Grande gatto. Paura.”, ripetendo ossessivamente “Spaventato”. Ogni tentativo di riavvio fallisce: reagisce nello stesso modo a ogni animale, dalle capre ai gattini. Serve distruggere parte del processore, con enormi perdite economiche, per recuperare la salute mentale del primo robot con “disturbo post-traumatico da stress”, simbolo del limite umano dell’AI. Alla fine si scopre che non si trattava di robot o di leoni, ma più semplicemente di una bufala, questo però ai fini di questo articolo è assolutamente ininfluente perché, appunto, è di noi che parla la favola.
Sarà che quest’ estate mi sono dedicato alla lettura di un libro molto interessante com “Visioni” di Carl Gustav Jung (lo ammetto, sono a poco più della metà ma sono due tomi di circa 700 pagine ognuno), ma in questa moderna fabula esopiana ho trovato due archetipi che fanno parte entrambi della nostra coscienza collettiva. Da un lato il leone che rappresenta l’energia primordiale, la potenza della natura che non può essere addomesticata del tutto, dall’altra l’essere di puro spirito raffigurato alla stregua di angeli tecnologici. L’incontro fra i due ha come esito la trasformazione di questa creatura superiore in qualcosa di “Umano troppo umano”, per dirla con Nietzsche, esorcizzando le paure e le idolatrie che da sempre accompagnano lo sviluppo delle nuove tecnologie, come l’intelligenza artificale, appunto.
E qui chiedo l’aiuto di Walter Quattrociocchi, che dal suo profilo Facebook sta facendo una grande opera di divulgazione sulla vera essenza di quella che, impropriamente, chiamiamo “Intelligenza artificiale”. In uno dei sui post più recenti afferma che “ Quando interpretiamo questi output usando metafore prese da psicologia, fenomenologia o fantascienza ,“coscienza”, “mente estesa”, “comprensione profonda”, non stiamo spiegando il fenomeno: lo stiamo decorando (...) Descrivere un LLM come una mente è comodo. Ma è inutile. Non serve chiedersi se “pensa”. Serve capire come funziona, che effetti ha, quando regge, dove sbaglia e possibilmente perché. Serve uscire dal regime della proiezione con competenze da terza media, e rientrare in quello dell’analisi seria. Smettiamola di evocare nuove metafisiche farlocche solo per evitare di guardare in faccia la realtà.” Cioè di mettere i robot davanti ai leoni, attribuendo loro reazioni che sono solo nostre.
Siamo noi che, quando ci troviamo di fronte a realtà che non conosciamo e che ci fanno paura, reagiamo ripetendo ossessivamente formule magiche imparate in precedenza, come i “lazzaroni” o i “weekend lunghi” invocati di fronte alle piazze che si sono autoconvocate per Gaza, o recitando litanie di date propizie per esorcizzare la paura di una data infausta con un rassicurante calendario dell'avvento, ripetendo all’unisono gridi di guerra che appartengono alla nostra tribù per sentirci meno soli di fronte al pericolo (zecche rosse, sinistronzi, pescivendola, carciofara lo psiconano di memoria grillina, il siero sperimentale…). Se c’è qualcuno che mostra i segni da disturbo da stress post traumatico, quelli siamo noi quando ci troviamo di fronte all’irruzione dell’incontrollabile, di quel leone interiore che non si lascia addomesticare e che chiede ascolto e trasformazione. Siamo noi il robot, e di leoni ce ne troviamo di fronte uno nuovo ogni giorno: la tecnologia, le guerre, la crisi economica, il cambiamento climatico… Tutti mostri che si nutrono delle nostre paure, facendoci sentire bloccati e incapaci di ogni cambiamento.
Come succedeva con Freddy Krueger in “Nightmare”, guardarli fermamente negli occhi e riaffermare il proprio senso di realtà è l’unico modo per ridimensionarli.