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Viviamo circondati da oggetti. Li usiamo ogni giorno senza pensarci: tazze, vestiti, penne, libri. Altri li custodiamo con cura, come se contenessero un pezzo di noi. Alcuni ci sopravvivono e finiscono in un museo; altri spariscono e restano soltanto nei racconti. Ma dietro questa presenza silenziosa si nasconde qualcosa di molto più profondo: gli oggetti non sono semplici strumenti né meri sfondi della vita umana. Sono presenze attive, capaci di trattenere il tempo, condensare significati, raccontare storie e partecipare alla costruzione della memoria collettiva.


È questo il cuore di La memoria degli oggetti — volume a cura di Matteo Giancotti, Luigi Marfè e Patrizia Violi — che esplora il ruolo delle cose nella formazione della memoria, nella rielaborazione dei traumi e nella costruzione dell’identità, individuale e collettiva. L’idea di fondo è radicale: gli oggetti non sono solo temi o simboli, ma attori della storia. Intervengono nell’economia cognitiva e psichica di individui e comunità, plasmano narrazioni e diventano spazi di negoziazione del senso.

Per molto tempo la critica letteraria e cinematografica li ha letti soprattutto come indicatori del “negativo”: emblemi del rimosso, dell’indicibile, delle contraddizioni disseminate dal progresso. In prospettiva psicoanalitica, le cose sono state viste come tracce di ciò che è stato represso; in chiave decostruzionista, come punti di crisi nel tessuto dei significati. Questo libro propone un cambio di paradigma: guardare agli oggetti come funzioni transitive, come nodi attraverso cui passano esperienze, memorie e racconti. Sono punti di raccordo tra fasi diverse della vita e tra “strati” differenti della psiche, condensazioni di senso da cui si generano nuovi discorsi.

Questa prospettiva si fa cruciale quando gli oggetti sono legati a esperienze traumatiche. Lì dove la violenza ha spezzato esistenze e comunità, le cose assumono un ruolo che va oltre la testimonianza: diventano strumenti di elaborazione o di rimozione, mediatori di memoria o agenti di oblio. Pensiamo alle scarpe ammucchiate ad Auschwitz, alle valigie nei centri di raccolta per i deportati, ai giocattoli ritrovati nelle case bombardate. Apparentemente banali, questi oggetti si trasformano in testi complessi. Possono aiutare a rielaborare il dolore, aprendo uno spazio di racconto e confronto con il passato, oppure possono spingerlo nel silenzio, se non trovano un contesto narrativo in cui essere interpretati.

Un passaggio chiave del volume è la distinzione tra oggetti-serie e oggetti-assoluti. I primi — vestiti, ciotole, utensili — diventano significativi per accumulo: testimoniano vite anonime, mostrano la ripetizione e l’annullamento dell’individualità nei luoghi dello sterminio. Gli oggetti-assoluti, invece, sono quelli unici, irripetibili: un diario scritto di nascosto, un giocattolo cucito in segreto, un biglietto d’addio. In essi il passato non è solo documentato, ma incarnato in un frammento tangibile di esistenza. Questa distinzione aiuta a capire come la cultura materiale funzioni su due piani: da un lato la massa anonima che testimonia l’annientamento, dall’altro la singolarità che resiste e racconta.

Il potere degli oggetti, tuttavia, non si limita al ricordo. Essi producono narrazione. Non solo conservano il passato, ma lo rendono raccontabile. Ogni oggetto è un nodo da cui può partire un discorso, un punto di accesso a una vicenda più ampia. Nei musei della memoria, per esempio, un singolo oggetto può diventare il centro di una storia collettiva. Un vestito consunto può evocare un’intera biografia; un frammento di muro può raccontare il crollo di un regime. La materia, qui, non è un semplice residuo: è un linguaggio attraverso cui il passato prende parola.

Questa funzione narrativa si lega strettamente alla dimensione interculturale e intergenerazionale. Gli oggetti sono ponti tra esperienze storiche diverse: permettono a chi non ha vissuto un evento di entrarvi in relazione, di costruire un dialogo con chi lo ha vissuto. In questo senso, diventano strumenti di traduzione tra generazioni, tra culture, tra memorie differenti. Pensiamo al cucchiaio conservato in una famiglia di sopravvissuti: per chi lo ha usato era un oggetto quotidiano; per i discendenti è un simbolo di sopravvivenza e continuità. Così la materia costruisce legami là dove le parole non bastano.

Il libro insiste anche su un altro aspetto fondamentale: gli oggetti sono strumenti politici. La loro presenza o assenza può costruire o cancellare memorie. Decidere quali oggetti esporre in un museo della memoria, quali monumenti preservare, quali simboli distruggere è sempre un atto politico, perché orienta la narrazione collettiva del passato. Non esistono cose “neutre”: ogni oggetto porta con sé una scelta su cosa ricordare e cosa dimenticare.

In questa prospettiva emerge una tensione centrale: quella tra presenza e assenza. Ogni oggetto che sopravvive è anche una traccia di ciò che non c’è più. Le scarpe rimaste ad Auschwitz parlano non solo delle vite che le hanno indossate, ma anche dell’assenza dei corpi a cui appartenevano. La materia evoca, per contrasto, il vuoto. È proprio questa dialettica — tra ciò che resta e ciò che manca — a dare agli oggetti il loro potere evocativo e simbolico. Non sono solo prove di ciò che è stato, ma aperture verso ciò che non può più tornare.

Il volume nasce dall’incontro tra semiotica e critica letteraria — frutto della collaborazione tra il centro TraMe dell’Università di Bologna e il Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università di Padova — e si avvale di contributi fondamentali, come quelli di Cathy Caruth, sul trauma e la memoria. In questa prospettiva, la cultura materiale non è un residuo marginale della storia, ma una sua componente essenziale: un dispositivo di mediazione tra passato e presente, tra esperienza e racconto.

Nel nostro tempo, dominato dal digitale e dall’effimero, questa riflessione assume un significato particolare. Potremmo pensare che la memoria si costruisca ormai solo attraverso immagini e dati, ma la materia continua a esercitare un potere insostituibile. Gli oggetti, anche i più umili, ci parlano con una forza che nessun file potrà mai avere. Sono il luogo dove il tempo diventa tangibile, dove l’assenza prende forma, dove il trauma trova parole che il linguaggio spesso non possiede.

Guardare agli oggetti come fa questo libro significa imparare a leggere la storia in un altro modo: non solo attraverso i grandi eventi o i protagonisti, ma anche attraverso le cose che hanno toccato la vita quotidiana delle persone. Significa capire che la memoria non è fatta solo di date e documenti, ma anche di cucchiai, scarpe, fotografie e fili cuciti in silenzio. E che ogni oggetto, se interrogato con attenzione, può diventare un ponte tra il presente e ciò che non deve essere dimenticato.

Potremmo pensare che la memoria si costruisca ormai solo attraverso immagini e dati, ma la materia continua a esercitare un potere insostituibile.


Appendice di ispirazione

Questo articolo è inoltre liberamente ispirato da un illuminante intervento di Vincent Halles, intitolato A Cocktail Called Revolution, pubblicato su Medium. Halles esplora con lucidità come gli atti simbolici, gli oggetti e gli elementi apparentemente marginali possano agire da catalizzatori di cambiamenti sociali e rivoluzioni culturali, sospendendo la distanza tra il materiale e il simbolico, tra l’azione e il mito. In particolare, Halles mostra come certi artefatti — bevande, merci, simboli urbani — si carichino di significati politici che trascendono la loro funzione d’uso, trasformandosi in strumenti di memoria, visibilità e trasformazione.

Chi desidera approfondire la riflessione può leggere l’articolo completo di Vincent Halles a questo indirizzo




StultiferaBiblio

  • Matteo Giancotti (a cura di), Luigi Marfè (a cura di), Patrizia Violi (a cura di), La memoria degli oggetti Mimesis, 2023,

Pubblicato il 06 ottobre 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto