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Un’esplorazione personale e lucida di cosa significhi crescere accanto a un genitore sofferente. Il dolore come struttura conoscitiva, l’empatia come strumento analitico, e la lettura come forma di resistenza.


Crescere accanto a un genitore afflitto da un dolore invisibile è come abitare in una casa perennemente avvolta da una sottile nebbia. Sai che qualcosa c’è, ma non riesci a vederlo chiaramente. Da bambino, osservavo il volto di mio padre o di mia madre alla ricerca di un segnale di sollievo che spesso non arrivava. Così provavo a costruirlo io: con un disegno, una battuta, o semplicemente restando in silenzio vicino. Era il mio modo di reagire a ciò che non si poteva nominare.

In quell’ambiente si impara presto a leggere i silenzi come se fossero testo. Ogni gesto, ogni parola non detta, ogni assenza diventa parte di un linguaggio cifrato. E così, senza accorgersene, si cresce. Si sviluppa una lucidità precoce, una vigilanza costante. Si diventa piccoli analisti del contesto, sempre pronti a intervenire, anche solo per alleggerire l’atmosfera. Ogni espressione offerta è un tentativo di far emergere un frammento di chiarezza; ogni contatto, un modo per dire: “Sono qui, e capisco”.

Da quell’esperienza nasce una forma di empatia che non ha nulla di sentimentale: è un metodo di lettura del mondo. Ti abitui a osservare, a interpretare, a chiedere — con reale interesse — come stia davvero l’altro. Sapere cosa significhi essere fraintesi ti rende capace di cogliere i segnali minimi, quelli che sfuggono allo sguardo distratto. Scopri così che la fragilità non è una condizione da correggere, ma una delle strutture portanti dell’umano. E che chiedere aiuto, se necessario, è più simile a un atto di lucidità che non a una resa.

Vivere accanto al dolore sviluppa inoltre una competenza specifica: la capacità di valutare le persone con precisione. Riconosci chi ti guarda con onestà, chi merita la tua attenzione, chi invece agisce per convenienza. Comprendi chi sfrutta, chi manipola, chi si aspetta da te una complicità forzata. Questo non è istinto: è un sistema operativo interiore, affinato da anni di osservazione. Una forma di difesa, certo, ma anche uno strumento per navigare con maggiore nitidezza tra le ambiguità relazionali.

Il dolore, inteso non come evento ma come condizione, è una matrice comune che plasma e resta. Ho attraversato quella fase in un tempo storico in cui — per chi viveva in Italia — la guerra sembrava vicina, importata da altri ma resa presente dai notiziari e dall’ansia collettiva. In quel contesto ho compreso che il dolore non è un’eccezione: è la norma non detta. Non lo si sceglie, lo si affronta. E affrontarlo significa iniziare a comprendere.

In questo senso, la sofferenza assume un ruolo critico: costringe a guardare in faccia l’umano. Insegna a riconoscere le proporzioni reali dei problemi. Dopo aver conosciuto il dolore vero, le piccole miserie quotidiane — un progetto sabotato per invidia, la riunione inutile, il collega invidioso — perdono peso specifico. Le cose essenziali si rivelano. E si impara che certe battaglie non si combattono con arroganza o retorica, ma con sobrietà, con capacità analitica e con la fermezza tranquilla di chi ha visto altro.

Queste esperienze ti trasformano. Non sono “lezioni di vita”: sono strutture cognitive, modelli interpretativi. Diventano parte del tuo modo di leggere il mondo, di scrivere, di decidere. Perché quando cresci in un contesto che ti costringe a decifrare il non detto, sviluppi una forma mentis vigile, autonoma, non sentimentale.

E con te, negli anni, resta quel bambino che cercava di costruire senso, anche nel vuoto. Quel bambino ti ricorda che ogni gesto ha un significato. Che ogni parola può costruire una soglia di comprensione. Perché forse tutto ciò che facciamo, in fondo, è tentare di dare forma a ciò che altrimenti resterebbe opaco.

Ho imparato che il dolore non si evita: si attraversa. E lungo il cammino, ciò che davvero conta è sapere che non è necessario farlo da soli. Essere disposti ad ascoltare, a pensare, a connettere: sono questi gli atti che — se non salvano — almeno rendono il cammino meno cieco.

il dolore non si evita: si attraversa

StultiferaBiblio

Pubblicato il 27 giugno 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto