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Nel campo dell’audio professionale esiste un software chiamato Pro Tools, lo stesso ambiente digitale in cui nascono molte produzioni musicali contemporanee. È uno strumento che può servire tanto a modellare una voce quanto a filtrare il rumore, rendendo più chiare le frequenze di un suono. In ambito tecnico, viene impiegato anche per scopi di analisi acustica, come la pulizia e la separazione delle voci in registrazioni ambientali effettuate dalle Forze dell'Ordine. La differenza non sta nel programma, ma nell’intenzione di chi lo usa. Nel primo caso, la macchina serve a rivelare meglio la realtà; nel secondo, a coprirla con un effetto di perfezione. Pro Tools, usato bene, chiarisce ciò che il rumore nasconde. L’Auto-Tune, usato male, cancella ciò che la voce autentica potrebbe dire. È la stessa linea sottile che separa l’intelligenza artificiale come strumento di comprensione da quella usata come trucco cognitivo. Tutto dipende da come si sceglie di ruotare la manopola: verso la verità o verso l’effetto artificiale.


L’Auto-Tune è stato ideato come strumento tecnico per correggere piccole imperfezioni d’intonazione nella voce di un cantante. Oggi è diventato un marchio di fabbrica, un effetto che uniforma tutto. Le voci si assomigliano, perdono respiro, diventano artificiali. È la vittoria della macchina sulla sfumatura, dell’omogeneità sull’espressione.

Questo meccanismo ha trovato un suo equivalente nel mondo del linguaggio e del pensiero: l’intelligenza artificiale. Anche qui l’intento iniziale era di aiuto, non di sostituzione. Ma il confine è sottile, e in molti casi già superato. Sempre più spesso l’AI viene usata per mascherare l’incapacità di scrivere, di argomentare, di costruire un discorso logico e coerente. È l’Auto-Tune del pensiero: corregge la superficie, cancellando la sostanza.

Scrivere non serve a rendere belle le parole, ma a capire meglio ciò che vogliamo dire. Le parole rivelano il modo in cui una mente organizza il mondo che ci circonda. Quando un testo “sembra ben scritto” ma non dice nulla, siamo di fronte a un pensiero accordato artificialmente. È lo stesso effetto di una canzone perfetta ma senza emozione.

Il rischio, oggi, non è che la macchina ci renda superflui. È che ci renda credibili nella nostra inconsistenza. Frasi corrette, toni giusti, ma nessuna profondità. Si delega alla tecnologia la parte più faticosa del lavoro cognitivo: scegliere, sbagliare, riscrivere. Eppure, è proprio in quell’imperfezione che si forma la comprensione.

L’AI può essere un alleato straordinario se usata con consapevolezza: come lente, non come maschera. La differenza è tutta qui. Il punto non è rifiutare la tecnologia, ma ricordare che essa non pensa per noi: amplifica ciò che già siamo. Se manca la competenza, amplifica il vuoto. Se c’è rigore, amplifica la chiarezza.

L’errore, nel canto come nella scrittura, non corrompe: illumina. Dove la voce si incrina, lì comincia la verità.

La vera intelligenza, quella che non può essere artificiale, è la capacità di distinguere tra forma e senso. Di capire, in altre parole, quando una voce è solo filtrata e fedele servitrice del business effimero a cui la "mentalità usa-e-getta" imposta dagli Stati Uniti ci ha purtroppo abituati, e quando invece comunica davvero qualcosa.


Libro di riferimento: Silence di John Cage
John Cage non parla di Auto-Tune né di algoritmi, ma del valore del silenzio e dell’ascolto. “Silence” insegna che anche il rumore fa parte della musica, e che il compito dell’artista non è cancellarlo ma comprenderlo. È una lezione che vale anche per chi scrive o pensa: il silenzio non è assenza, è spazio di discernimento.

StultiferaBiblio

Pubblicato il 09 ottobre 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto