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Felisberto Hernández, uruguayano, pianista mancato, autore di racconti, ci invita a vivere fedeli a noi stessi. Ci invita a cercare il nostro modo di essere artisti. Ci insegna anche -tramite la metafora di una piccola pianta, di cui osserviamo la crescita- a lasciare che, per quanto possibile, le nostre narrazioni 'si scrivano da sole' e i nostri progetti si sviluppino liberi da un asfissiante controllo.


Felisberto Hernández nasce a Montevideo (Uruguay) il 20 ottobre del 1902. La famiglia è dominata dalle presenze femminili: prozia autoritaria, madre iperprotettiva. A nove anni comincia a studiare pianoforte. A quindici anni lascia la scuola per dedicarsi a tempo pieno allo strumento. Si scopre musicista.

Le difficoltà economiche della famiglia gli impongono di lavorare: accompagna come pianista i film muti. Studia, compone, ma resta lontano dal successo desiderato.

Dai ventisei ai quarant'anni è pianista itinerante nella provincia uruguayana ed argentina: modesti concerti in circoli, scuole, istituti di beneficenza.

Prostrato dalle difficoltà, vende il piano.

Abbandona -ma non del tutto- la musica e accetta un impiego amministrativo (doveva tra l'altro stenografare: non essendo riuscito a imparare nessun metodo, ne aveva inventato uno; col tempo questo sistema di scrittura diventerà per lui l'unico).

Si sposa quattro volte - ma torna poi ogni volta a vivere con la madre. Già minato nel fisico dall'obesità, muore di leucemia il 13 gennaio 1964.

Continuò a esibirsi in concerti, nelle rare occasioni che la sorte gli offerse. Ma intanto aveva trovato un modo più 'economico' di vivere la sua vita di artista: scrivere racconti.

Sempre precario -per impossibilità di essere altrimenti- suonava e scriveva innanzitutto per sé, e per una ristretta cerchia di amici e ammiratori. Tra questi, il poeta franco-uruguayano Supervielle.

Aveva cominciato a pubblicare racconti e frammenti (a proprie spese) nel 1925. Pagine lacunose e misteriose, apparentemente trasandate, scritte come in trance, segnate da una inconfondibile poetica: grandi silenzi, malinconia, nostalgia, rimpianto, sogno, sensualità arcana e sottesa.

Monopolizzato il cognome da altri Hernández, grandi della letteratura rioplatense, il nostro -che non vuole essere un grande- può e deve essere chiamato per nome. Felisberto: un uomo, uno scrittore, un pianista che non ha mai smesso di credere nei propri talenti, non ha mai cessato di seguire la propria vocazione, nonostante i momenti di fatica e di sconforto. Un uomo che ha saputo convivere con la propria sofferenza, senza nasconderla, senza occultarla dietro insincere esibizioni di virilità.

Felisberto è un marginale, un borderline, un drop out, un outsider, diciamo come vogliamo: ma come sono lontane queste espressioni dal clima di queste pagine! Perché Felisberto non usa mai parole fatte, non si rifà mai a concetti consolidati: ci parla esclusivamente di sé, di quello che nasce nel profondo della sua soggettività.

E dal profondo della sua soggettività osserva il mondo. E ci insegna a guardare a ciò che non sappiamo vedere, a ciò che di solito trascuriamo.

Diceva: “Non credo di dover scrivere solo di quello che so, ma anche de lo otro”, dell'altro, di tutto il resto, di ciò che a prima vista consideriamo invisibile o indicibile.

Di Felisberto, in apparenza un perdente, destinato all'oblio -in realtà grande maestro di vita e di letteratura- parlo distesamente nel mio Viaggio letterario in America Latina.

Tra le varie pagine di Felisberto che non dovremmo mancare di leggere, sta una sorta di meta-pagina, una pagina dove racconta come scrive i propri racconti. O forse dovremmo dire: una pagina dove racconta come i racconti si lasciano raccontare da lui.

Questa pagina -che ripropongo di seguito in mia traduzione- può anche essere letta, se vogliamo, come meraviglioso modo di intendere il progetto, ogni progetto. L'invito profondo è: lascialo emergere. Non fargli violenza con le tue pretese di controllo.

In un certo momento penso che in un angolo di me nascerà una pianta. Comincio a osservarla, come di soppiatto, pensando che in quell’angolo è successo qualcosa di strano. Presento o desidero che abbia foglie di poesia; o qualcosa che si trasformi in poesia se la guardano certi occhi. Devo curare che non occupi molto spazio, che non pretenda di essere bella o intensa, ma solo che sia la pianta che è destinata ed essere, ed aiutarla ad esserlo.

Spiegazione falsa dei miei racconti

Obbligato o tradito da me stesso a dire come faccio i miei racconti, ricorrerò a spiegazioni esterne a loro.

Non sono completamente naturali, perché non è che la coscienza non intervenga per nulla. Questo mi sarebbe antipatico. Ma non sono dominati da una teoria della coscienza. Questo mi sarebbe ancora più antipatico. Preferirei dire che l’intervento della coscienza è misterioso. I miei racconti non hanno strutture logiche. E nonostante la coscienza tenti di imporre una vigilanza costante e rigorosa, anche questa mi resta sconosciuta.

In un certo momento penso che in un angolo di me nascerà una pianta. Comincio a osservarla, come di soppiatto, pensando che in quell’angolo è successo qualcosa di strano, che però potrebbe non avere un futuro avvenire artistico. Sarei felice se questa idea non fallisse del tutto. Tuttavia, devo aspettare un tempo che ignoro: non so come far come favorire, né come curare la sua crescita; solamente, presento o desidero che abbia foglie di poesia; o qualcosa che si trasformi in poesia se la guardano certi occhi. Devo curare che non occupi molto spazio, che non pretenda di essere bella o intensa, ma solo che sia la pianta che è destinata ed essere, ed aiutarla ad esserlo.

Allo stesso tempo lei crescerà d'accordo con un osservatore al quale però non farà molto caso, caso mai lui volesse suggerirle troppe intenzioni o manie di grandezza.

Se è una pianta padrona di sé stessa avrà una poesia naturale, sconosciuta a lei stessa. Lei deve essere come una persona che vivrà non si sa quanto, con esigenze proprie, con un orgoglio discreto, un po’ impacciato, quasi improvvisato.

Lei stessa non conoscerà le sue leggi, che pure ci saranno, tanto profonde da non essere alla portata della coscienza. Non saprà il grado e la maniera in cui la coscienza interverrà, ma in ultima istanza imporrà la sua volontà. E insegnerà alla coscienza ad essere disinteressata.

La sola cosa sicura è che io non so come faccio i miei racconti, perché ognuno di loro ha una vita strana e propria. Ma so anche che vivono litigando con la coscienza per evitare gli estranei che lei gli raccomanda.


Fonti:

Felisberto Hernández, “Explicación falsa de mis cuentos”, premessa a Las Hortesias, 1949, in Obras Completas, Siglo XXI, México, 1983, vol II. In italiano sta in Felisberto Hernández, Nessuno accendeva le lampade, traduzione di Umberto Bonetti, con una Nota introduttiva di Italo Calvino, Einaudi, Torino, 1974, pp. 257-258. La traduzione qui proposta è stata condotta da me sull'originale spagnolo.

Francesco Varanini, Viaggio letterario in America Latina, capitolo: "Le illusioni accarezzate. La poetica di Felisberto Hernández".

Pubblicato il 15 giugno 2025

Francesco Varanini

Francesco Varanini / ⛵⛵ Scrittore, consulente, formatore, ricercatore - co-fondatore di STULTIFERA NAVIS

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