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Il nostro essere analogici ci aiuta ad entrare in relazione con gli altri, ad accettare l’estraneo sulla soglia, rifiutando e combattendo le logiche di esclusione populiste e sovraniste che mirano ad erigere muri e barriere dividendo popoli, lingue e culture. Aprirsi all’altro, rinunciando a percepirlo come estraneo o nemico, è una battaglia di civiltà, umanista e umanitaria, un modo per mettersi in discussione in un mondo digitale dominato, nelle sue narrazioni e comportamenti social, dalla paura e dall’ostilità verso chi è percepito come diverso, estraneo o nemico.  L’entrare in relazione è una battaglia coraggiosa per una identità contaminata, multipla, plurale, mossa dalla curiosità nei confronti dell’Altro, aperta alla sua alterità, estraneità e diversità.


Siamo un tutto, un nodo di relazioni che comprende anche i nostri rapporti con gli altri, i nostri desideri e le nostre fantasia. […] Conoscere sé stessi per uscire dal proprio io limitato vuol dire sciogliere – per esaminarlo e poi ricomporlo – il nodo di relazioni a partire dal quale siamo costruiti. Significa ricordarsi degli altri che sono in noi e che siamo noi. […] L’esame di quel che siamo diventati rivela la nostra natura plurale e ci permette di riconoscere il fatto che la nostra vita è essenzialmente solidale con quella degli altri.” – Remo Bodei, Immaginare altre vite – Realtà, progetti, desideri – Feltrinelli, Milano 2013, Pag. 27


Su un pianeta abitato da quasi otto miliardi di persone, testimone di flussi migratori inarrestabili che collegano realtà, nazioni e popolazioni di tutto il mondo, tutti siamo in qualche modo in relazione con qualcun altro. Siamo ontologicamente legati perché la vita umana non è mai personale. Noi umani siamo un groviglio di legami tra loro tutti interallacciati, anche se molti di essi ci appaiono illeggibili e incomprensibili. Forse per questo oggi sostituiti superficialmente da semplici contatti che, attraverso le nostre reti digitali, ci danno l’illusione di essere sempre in relazione con qualcuno, anche se in realtà non lo siamo. Cosa impossibile quando manca la conoscenza, il contatto fisico e il movimento di un corpo, l’esperienza comune, l’incontro esistenziale con l’Altro, nella sua diversità e alterità, e non come l’uguale che nella sua versione digitale questo qualcuno è diventato. Impossibile perché, in assenza di contatto fisico, l’appartenenza, il sentirsi legati affettivamente e relazionalmente agli altri, non si traduce in reale collaborazione e cooperazione.

in assenza di contatto fisico, l’appartenenza, il sentirsi legati affettivamente e relazionalmente agli altri non si traduce in reale collaborazione e cooperazione.

Vivendo ormai accatastati dentro città monstre come quelle cinesi, dentro metropoli che stanno attirando a sé milioni di persone da campagne e luoghi che si desertificano a causa della carenza di risorse idriche e per la mancanza di lavoro, abbiamo la possibilità di sperimentare in presa diretta un vivere civile fatto di socialità, umanità e comunità. Una sperimentazione non facile perché all’accatastamento cittadino preferiamo ormai quello renderizzato dei metaversi online, dentro infrastrutture e piattaforme governate dalla tecnologia, con le sue proprie declinazioni di ciò che significhi relazionarsi, fare comunità, evolvere come comunità umane. Dentro contesti virtuali che rendono ambigua la distinzione tra realtà e finzione, le relazioni vengono continuamente contaminate, appannate da sempre nuove esperienze simulate online. La simulazione le rende non propriamente reali ma dominate da situazioni, eventi, narrazioni, immagini, oggetti mediali vari che le rendono virtuali, irreali, fantastiche nel loro essere sognate e desiderate ma irrealizzate.

il mondo globalizzato ha portato alla crisi della relazione con l'Altro

Il mondo globalizzato, che con le sue molteplici connessioni dovrebbe facilitare incontro e relazione, ha portato alla crisi della relazione con l’Altro, all’isolamento solipsistico e a nuove solitudini, evidenziate dal numero crescente di persone, non solo anziane, che vivono da sole, da un diffuso nichilismo che anestetizza il sentimento di appartenenza a una totalità o comunità. L’uomo che si sente più potente grazie ai mezzi tecnologici di cui dispone si ritrova sempre più solo (“insieme ma soli” scriveva Sherry Turkle), separato nella casa angusta del proprio sé e isolato dagli altri, così come dalla natura di cui non comprende la sofferenza e i molteplici appelli che da tempo gli sta rivolgendo, appelli tutti finalizzati a una riconciliazione urgente e necessaria, da cui potrebbe nascere una nuova relazione improntata all’ospitalità reciproca.

La solitudine per molti sembra essere diventata l’unica forma di esistenza possibile, come lo fu per Robinson Crusoe, confinato su un’isola per dodici anni e la cui vita fu sconvolta dalla scoperta di impronte umane sulla sabbia di colui che poi avrebbe chiamato amichevolmente Venerdì. Incontrare (inciampare, urtare contro) qualcuno è sempre uno shock visivo: significa entrare in contatto, lasciarsi turbare dalla presenza, dal volto e dallo sguardo, cogliere le differenze che esistono tra noi e l’Altro, scoprire che non siamo monadi autosufficienti vaganti nell’universo ma siamo sempre parte di un patchwork fatto di una federazione di parti semi-indipendenti e non gerarchizzate, di tante differenze. Incontrare qualcuno comporta il prendere coscienza degli effetti e delle trasformazioni silenziose che dall’incontro verranno generate. Tutte esperienze alle quali sembriamo essere diventati refrattari e che non possono essere sostituite dalle forme simula(cra)te di incontro sperimentabili nella cosiddetta vita onlife.

Isolati su isole separate dal mondo, emuli di Robinson Crusoe, siamo spaventati dall’incontro con un altro essere umano

Isolati su isole separate dal mondo, emuli di Robinson Crusoe, siamo spaventati dall’incontro con un altro essere umano, pur percependo nell’anima di averne da sempre avuto un grande bisogno. A nulla è servita l’esperienza del distanziamento subito durante la pandemia, che ci ha costretto a stare lontano dagli altri, per metterci al riparo da un virus che ha sconvolto le nostre esistenze, oltre a mandarci un messaggio forte sulla necessità di rivedere il nostro modo di vivere e di stare insieme, di relazionarci. La separazione forzata ci ha disorientato, ma non ha cambiato nella sostanza e in profondità i comportamenti dei più. Ha solo permesso a molti di acquisire la consapevolezza che distanti, separati, lo erano già da tempo, ben prima della pandemia, che la socialità vissuta online e i comportamenti che la caratterizzano esprimono forme di isolamento e solitudine cristallizzate da tempo.

Chiusi in casa, molti si sono trovati a vivere una dimensione di vicinanza con familiari con i quali da tempo comunicavano attraverso WhatsApp, hanno ritrovato il piacere di accudire e insegnare ai bambini, senza affidarsi allo smartphone come babysitter, hanno ritrovato il piacere di conversare, hanno riscoperto l’importanza di una connessione incarnata, scevra da individualismo e voglia di isolamento, per riconnettersi con gli altri. Finita la tempesta, molti sono tornati alle vecchie abitudini, preferendo abitare i paesaggi disincarnati, devitalizzati e aridi della Rete invece di coltivare la relazione in presenza, a contatto con gli altri. Invece di approfittare della rottura, determinata dalla pandemia, per ritornare a forme di vita sostenibili, mescolate, hanno preferito la coincidenza, l’adeguamento al comportamento dei più, rinunciando allo scarto, alla propria libertà, ritornando alla mediazione del mezzo tecnico che sollecita all’automatismo del touch the screen e delle notifiche social.

siamo tutti testimoni, partecipi e complici di una metamorfosi tecnologica della nostra civiltà e realtà esistenziale

La metamorfosi antropologica in corso ad opera della tecnologia è in costante accelerazione, è diventata virale. Lo testimonia la trasformazione degli schermi (“tecnoprotesi corporee”) dei nostri dispositivi da semplici finestre sul virtuale in vere e proprie interfacce, che hanno vetrinizzato e reso obsoleta la realtà. Finestre in forma di cornice, testimoni e strumenti della nostra accresciuta ibridazione tecnologica, delle quali non riusciamo più a fare a meno nelle nostre relazioni sociali, così come nella vita di ogni giorno. Più del volto conta l’immagine, più dell’essere incarnato conta la sua vita da avatar virtuale online, più della vicinanza prossemica e sensoriale conta la distanza digitale che permette, come ha ben descritto Davide Sisto nel suo bel libro Porcospini Digitali, di evitare di percepire gli “effetti deleteri delle reciproche spine[1]”. Grazie ad uno schermo che si frappone tra noi e la realtà ci sentiamo schermati sulle nostre debolezze, protetti perché interconnessi ma distanti, tutti rinchiusi in loculi-caverne trasformate in eremitaggi dai quali giudicare gli altri e il mondo. Eremitaggi che, come la Tana della Tigre in Bhutan (Taktshang Goemba), arroccata su uno sperone roccioso, non sono facili da raggiungere, facilitano l’isolamento, reprimendo il bisogno sempre presente di stare vicino agli altri, soddisfacendo al tempo stesso quello di star loro lontani. Ma mentre il tempio buddista della Tana della Tigre è luogo di meditazione e isolamento, pensato per stare bene con sé stessi e fare pace con gli altri, in stretta concomitanza con altri, l’esaltazione della iperconnessione che ci fa vivere isolati dentro i nostri schermi ha portato milioni di persone “già devastate dalla solitudine, a scoprirsi sole, perché hanno le parole, i segni, le icone, ma hanno perso la carne delle parole, la sensazione, la condivisione, il dovere verso l’altro, la preoccupazione dell’altro […][2]”.

Dall’abitare la realtà siamo passati, in modo costante e inconsapevole, ad abitare la Rete e i suoi molteplici mezzi comunicazionali. Siamo scivolati pericolosamente dai legami ai contatti, dalle relazioni alle interazioni, dal guardarsi negli occhi al vedere. Il trasloco è avvenuto attraverso un piccolo giocattolo chiamato smartphone, una specie di comodo guscio di lumaca, nel quale ci siamo accomodati, dopo averlo trasformato nella nostra personale zona di conforto, una terra di mezzo tra lo spazio fisico e quello virtuale che ha ridotto ogni distanza tra i due. Con l’effetto collaterale di accrescere la distanza prossemica tra noi e gli altri dentro gli spazi fisici, contestuali, fattuali, temporali, evenemenziali e locali che frequentiamo. La digitalizzazione delle nostre vite fa sì che reali siano sia gli spazi fisici sia quelli virtuali, facendoci dimenticare che agire significa avventurarsi nel mondo fisico e fattuale, che un conto è viaggiare online, diverso è viaggiare per davvero, muovendosi e spostandosi fisicamente.

L’esperienza psicofisica della realtà materiale è incarnata, avviene in presenza di un corpo che comunica calore e gocciola sudore come quando ci si trova in una sauna in compagnia di altri sconosciuti. Interessa la pelle umana senza protezione, è contingente e imprevedibile. Questo non toglie valore all’esperienza di ognuno online, legata a un profilo digitale pur sempre in grado di rappresentare un vissuto esperienziale individuale. Il corpo trasferito online è ricco di informazioni, narrazioni, immagini e molto altro, racconta molto di noi, ma è un doppio disincarnato, senza un corpo fisico e carnale, un sacco pieno d’aria sempre alla ricerca di emozioni che la mancanza di corpo impedisce di provare. Un corpo che intristisce, si scoraggia o si ribella, ogni qualvolta i suoi sensi sono repressi e i suoi bisogni sensibili sono limitati.

Il corpo trasferito online è ricco di informazioni, narrazioni, immagini e molto altro, racconta molto di noi, ma è un doppio disincarnato, senza un corpo fisico e carnale, un sacco pieno d’aria 

Il corpo che si muove davanti allo schermo è assimilabile a quello che si mette in posa per una fotografia o per un selfie, si trasforma in immagine, costruisce una maschera con la quale tendiamo rapidamente a immedesimarci. Grazie alle nuove tecnologie digitali, come descriveva Pierre Levy, noi ci reinventiamo in continuazione attraverso le nostre narrazioni, ci reincarniamo online e ci moltiplichiamo. Sempre però in assenza di corpo. Il facsimile della carne vivente digitale, pieno “di significati, suggestioni e contenuti[3]”, online è pur sempre una simulazione, una semplice rappresentazione. Capace di influenzarci emotivamente, psicologicamente, culturalmente e socialmente ma incapace di andare oltre le informazioni (i corpi come agenti di informazione) per ancorarsi alle cose, agli oggetti, ai corpi, nel loro stare dentro ambienti nei quali l’essere umano, essendo un corpo e sapendo di possederne uno, li possa toccare con la mano nella loro concretezza, esperienzialità e fatticità.

Ci siamo ormai convinti dell’inevitabilità e veridicità di una narrazione conformistica mirante a un continuo adeguamento e adattamento che si stabilizzano nella conformità e nella coincidenza di tutti con tutti. Ci racconta una realtà fattasi digitale nella quale trova espressione tutto il nostro essere. A contare sono solo le informazioni che costantemente registriamo, cancellando le realtà da cui sono state originate e con le quali abbiamo perso il contatto, fisico e psichico, anche cognitivo. Noi stessi siamo diventati semplice informazione, merce sul mercato e da consumare. La comunicazione digitale, privata di corpo e di linguaggi non verbali, fa scomparire l’Altro nella sua corporeità, come sguardo e come volto, smantellando ogni possibilità di consolidare rapporti tra persone in carne e ossa, dentro comunità di persone in spazi fisici, entità comunitarie ben diverse dalle reti di contatti di cui tutti siamo dotati online e dalle piattaforme social che le ospitano. Abituati a comportarci come i topi degli esperimenti skinneriani, reagiamo in modo binario a tutti gli impulsi che riceviamo. Ci siamo regalati al Prometeo performante dimenticandoci di Epimeteo che invita a “riflettere in ritardo”, a prendere tempo, a pensare che poi è sempre un pensare in ritardo. Trasformati in entità numeriche e digitali, ci ritroviamo a obbedire senza capire, contenti per la nostra rapidità nella reazione e per il premio ottenuto, ma anche svuotati, usati, stupidi. Convinti dalla narrazione dominante di vivere esperienze sempre nuove e grandi cambiamenti, siamo in realtà vittime della serialità e ripetitività che ci ha trasformati in replicanti, imprigionati dentro acquari-mondo paludosi che ci illudono su una libertà di cui non possiamo usufruire.

In realtà mai come oggi abbiamo bisogno di entrare in relazione, di contatti fisici, di incontri faccia a faccia. Sentiamo tutti la necessità di riscoprire gesti dimenticati, che sembrano perduti per sempre, dentro profili che hanno cristallizzato l’identità e il sentire di molti all’interno di una corazza virtuale ma di acciaio. Il tutto senza lasciare spazi possibili per nuovi incontri portatori di nuove aspettative, utili per ridistribuire le carte, far nascere nuove storie, per sorprendere. Presi dalle mille sollecitazioni che ci vengono dal nostro essere iperconnessi, non siamo più curiosi di nulla, abbiamo perso la curiosità verso l’altro, la voglia di approfondirne la conoscenza e i legami che ci legano alle cose e alle persone, in particolare a quelle percepite come diverse da noi. Eppure “Incontrare qualcuno significa scoprire un mondo così vasto che probabilmente non riusciremo mai a girarlo tutto, avvertire dentro di noi una curiosità che non si esaurirà tanto presto, comprendere che non bastano certo pochi giorni[4]”. Per fare durare l’incontro, per assaporare il piacere della relazione che ne può nascere bisogna cambiar passo, rallentare e guardarsi intorno, aprirsi a nuovi campi di possibilità e opportunità.

mai come oggi abbiamo bisogno di entrare in relazione, di contatti fisici, di incontri faccia a faccia

La reazione binaria ci porta a immaginare il nostro pensiero come veloce, rapido, digitale. Nella realtà il nostro pensiero è analogico, richiede lentezza, indugio, riflessione e meditazione. Lo ha descritto molto bene Byung-Chul Han nel suo libro Le non cose: “Prima che [il pensiero] colga il mondo, è il mondo a toccarlo, a commuoverlo. L’aspetto emotivo è essenziale per il pensiero umano. La prima immagine del pensiero è la pelle d’oca[5]”. Lo ha raccontato ancora meglio Douglas Hofstadter in Superfici ed Essenze - L’analogia come cuore pulsante del pensiero. Un libro scritto con Emmanuel Sander per raccontare come senza analogie non ci sarebbero concetti. Un libro che aiuta a comprendere  la differenza tra come i dati dei Big Data vengono categorizzati e classificati rispetto a come lo fa in continuazione il nostro cervello, tra il motore pulsante del nostro cervello categorizzante e l’algoritmo. Lo aveva già capito Giordano Bruno quando ricordava che ogni attività umana è composta da tre elementi: ogni singola impresa deve essere meditata con saggezza prima di essere realizzata; dopo averla pensata e meditata deve essere realizzata per tempo e con prontezza; ciò che è stato meditato e compiuto deve essere serbato e difeso con coraggio[6].

il pensiero online ci conquista per la sua velocità digitale, il pensiero analogico richiede lentezza, indugio, riflessione, meditazione, concentrazione

Il riferimento all’analogia non è casuale. Mentre tutto volge al digitale (corpi, menti, essere e pensiero), ritenere che l’analogia pervada e costituisca il cuore del nostro pensiero ci descrive come macchine analogiche, non deterministiche ma flessibili, creative, fonte di metafore continue e capaci di stupire, sempre legate al passato e mai solo al presente, ben diverse da quelle digitali a cui molti vorrebbero farci assomigliare. Tutte le narrazioni sul successo delle macchine tendono a convincerci della loro ormai raggiunta superiorità. In termini di razionalità, affidabilità, infaticabilità e velocità probabilmente è vero, ma in termini di pensiero, le macchine sono ancora miseramente indietro e i robot possono apparire ancora dei primitivi, compresi quelli dotati di superpoteri della Marvel. Lo sono perché non dotati di meccanismi analogici come quelli di cui è dotato il nostro cervello. Per comprenderne l’evidenza è sufficiente interrogare un motore di ricerca o una ChatGPT qualsiasi. I nostri pensieri saranno lenti e vaghi, sempre però potenzialmente pertinenti e illuminanti. Quelli della ChatGPT saranno veloci e precisi, ma limitati dentro i confini dei dati di cui dispone, ambigui quanto basta per farceli piacere, mai sorprendenti.

Il nostro essere analogici ci aiuta ad entrare in relazione con gli altri, ad accettare l’estraneo sulla soglia[7], rifiutando e combattendo le logiche di esclusione populiste e sovraniste che mirano ad erigere muri e barriere dividendo popoli, lingue e culture. Aprirsi all’altro, rinunciando a percepirlo come estraneo o nemico, è una battaglia di civiltà, umanista e umanitaria, un modo per mettersi in discussione in un mondo digitale dominato, nelle sue narrazioni e comportamenti social, dalla paura e dall’ostilità verso chi è percepito come diverso, estraneo o nemico.  L’entrare in relazione è una battaglia coraggiosa per una identità contaminata, multipla, plurale, mossa dalla curiosità nei confronti dell’Altro, aperta alla sua alterità, estraneità e diversità. Il coraggio sta nella consapevolezza che con l’Altro si debba convivere, senza tregua o possibilità di fuga. Come raccontava Sartre nella sua opera teatrale A porte chiuse (1944), “L’enfer, c’est les autres”. Nessuna criminalizzazione dell’Altro ma semplice constatazione del non poterne fare a meno: “gli altri sono, in fondo, ciò che vi è di più importante in noi stessi, per la nostra propria conoscenza di noi stessi”. L’inferno si da ogni volta che i rapporti sono viziati o avvelenati, quando non lo sono si comprende quanto siano fondamentali, nel nostro conoscerci e riflettere su noi stessi, le conoscenze che gli altri hanno di noi, quanto conti il loro giudizio.

La curiosità può generare odio, ma anche portare alla consapevolezza che si è sempre in relazione con altri, che la propria singolarità è sempre inscindibile dalla pluralità (Jean-Luc Nancy) dei tanti di cui siamo sempre circondati, dentro il Nostroverso, che mai come oggi ha bisogno di pratiche condivise di esseri umani in relazione tra loro. Per affrontare le tante crisi emergenti bisogna riconoscere di essere coinvolti insieme ad altri, rifiutare ogni forma solidificata e cristallizzata di individualismo, per accettare il fatto che nessuno è padrone in casa propria, ma si vive sempre dentro contesti sociali, comunitari e democratici che richiedono la nostra cittadinanza attiva, finalizzata all’accoglienza dell’Altro che è in noi e all’ospitalità dell’Altro che bussa alla nostra porta.

Trasformare il Nostroverso (neologismo da me creato e titolo del mio libro) in un luogo che ha bandito la paura, da cui deriva ansia e insicurezza, e ha riconosciuto il fatto che la relazione è alla base della nostra stessa identità, è un modo concreto per trasformare la realtà, per andare contro le narrazioni predominanti, per creare le condizioni di un pensiero diverso, aperto e umanista.


Note

[1] Davide Sisto, Porcospini Digitali: “Più i porcospini si avvicinano più percepiscono gli effetti deleteri delle reciproche spine”, Bollati Boringhieri, Torino 2022, Pag. 23

[2] Julia Kristeva, da un articolo sul Corriere della sera del 27 marzo 2020

[3] Ibid, Pag. 55

[4] Charles Pépin, Filosofia dell’incontro – La ricoperta di un gesto dimenticato, Garzanti, Milano 2022, Pag.36-37

[5] Byung-Chul Han, Le non cose, Einaudi, Torino 2023, Pag. 49

[6] Giordano Bruno, Il sigillo dei sigilli, Mimesis, Milano 1995, Pag. 11

[7] Titolo di una pubblicazione di Antonio di Chiro: L’estraneo sulla soglia. Per una filosofia dell’ospitalità.

StultiferaBiblio

Pubblicato il 01 agosto 2025

Carlo Mazzucchelli

Carlo Mazzucchelli / ⛵⛵ Leggo, scrivo, viaggio, dialogo e mi ritengo fortunato nel poterlo fare – Co-fondatore di STULTIFERANAVIS

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