Il futuro è tecnologico, il futuro è morto, si è fatto presente continuo perché oggi tutto accade in tempo reale o non accade. È un futuro che per generazioni abbiamo immaginato, sognato, provato a anticipare e a prevedere e che oggi è qui, è arrivato, si è fatto presente, ha compresso il tempo, e ha colonizzato lo spazio.
L’utopia intesa come sogno, desiderio, invenzione, anarchia e viaggio immaginario si è spenta, è stata clonata in un grande BIG NOW! Il big now genera distopie, ben rappresentate e raccontate oggi dalle innumerevoli serie televisive di Netflix.
Per molte persone il futuro continua a essere parte del loro immaginario, ma la libertà di prefigurare (immaginare) futuri possibili è sempre più limitata dalla continua proposizione di futuri possibili, istituzionalizzati, predefiniti da aziende tecnologiche e dalle varie oligarchie delle numerose chiese tecnologiche della Silicon Valley. Oligarchie e aziende che, sfruttando la miriade di dati e di informazioni fornite dagli utilizzatori delle loro piattaforme e dai loro dispositivi, sono impegnate in campagne marketing pervasive e invasive per condizionarli nel prefigurare quei futuri nei quali vorrebbero farci (soprav)vivere.
Noi siamo tante personalità in una, noi viviamo nella molteplicità e nella differenziazione, anche temporale, noi immaginiamo futuri diversi. Le nuove tecnologie sono impegnate al contrario a costruire recinti, a definire confini, elettronici, sociali, esperienziali, a trasformarci in soggettività determinate da avatar (uno dei futuri prossimi venturi si chiamerà META) e profili digitali. Sono loro a prefigurare per noi il nostro futuro, nella forma da loro immaginata: consumistica, ordinata, obbediente, senza distinzioni tra fattuale (reale) e virtuale, conformista, ibridato dalle macchine e forse anche transumano.
Lo fanno creando un grande abbaglio nel quale ogni singolo individuo possa pensare e illudersi di avere una sua propria personalità. In realtà essa è svuotata e indebolita da un convenzionalismo (per alcuni semplice adattamento) tecnologico che punta a coltivare semplici caricature in forma di consumatori tra loro tutti uguali, nella loro disponibilità a essere psichicamente e linguisticamente influenzati, passivi e volontariamente complici nella produzione dei dati necessari al loro complice assoggettamento. Una forma di schiavitù nei confronti dei proprietari delle piattaforme tecnologiche (GAFAM più quelle cinesi) che aumenta in proporzione al ‘lavoro’ che si svolge su di esse. Più produciamo e più ci assoggettiamo, più allontaniamo nel tempo la possibilità di fuga dalle catene e di liberazione.
La rivoluzione tecnologica, oggi tanto decantata, rischia di avere conseguenze pesanti sulla vita umana, individuale e collettiva, personale e professionale delle persone. Un primo effetto è collegato alla celebrazione del cosiddetto Quantified Self, ossia la possibilità tecnologica di raccogliere dati e informazioni che rendano la vita misurabile, quantificabile. I dati possono essere scambiati e condivisi con altri attraverso i numerosi strumenti digitali disponibili. Servono a costruire individui, in realtà profili digitali, in modo utilitaristico e funzionale, declinati in forma di elementi misurabili come MiPiace, collegamenti, contatti, ecc. Servono a impadronirsi e a vivere le vite degli altri dimenticandosi della propria. L’effetto collaterale è la rinuncia a riflettere autonomamente su sé stessi, a ricercare una propria identità come individuo autonomo, libero, anche nel suo essere capace di fare delle scelte. Un altro effetto è collegato alla servitù volontaria alla quale si faceva riferimento nel paragrafo precedente. Come ha scritto Francesca Rigotti nel suo libro L’era del singolo, “La sindrome da auto-addomesticamento ci porta a cercare la leadership e a subordinarci al leader; a diminuire la responsabilità personale e a aumentare il grado di subordinazione verso le regole sociali; a non accettare risposte complesse ma a cercare soluzioni semplici e facili, a eseguire gli ordini senza farci troppe domande”.
Dentro un tempo algoritmico, non biologico, è sparita la distinzione tra passato, presente e futuro. Si vive un disorientamento temporale reale fatto di presentismo, di impulsi binari puramente funzionali (stimolo-risposta, causa-effetto), di tante distrazioni che ci impediscono di ancorare noi stessi a una attenzione profonda e perseverante, a ciò che ancora riteniamo stabile, che potrebbe servire da ancoraggio dentro porti umani sicuri, evitando di farci portare al largo da rimorchiatori potenti e sconosciuti.
L’idea di andare al largo che i rimorchiatori suggeriscono è attrattiva, quasi magnetica, in realtà è una grande finzione, una falsa verità, una trappola congegnata ad arte perché il mare delle piattaforme non è aperto e da scoprire ma è un mare chiuso dentro un acquario mondo le cui pareti assomigliano a quelle del Truman Show cinematografico. L’inganno è grande perché le pareti dell’acquario sono descritte da chi le ha create e percepite da chi vi è rinchiuso come elastiche, espandibili e in continua espansione. Ma in realtà queste pareti, pur essendo trasparenti, sono solide e rigide come qualsiasi altra parete di un acquario.
Ciò che colpisce di quanto stiamo sperimentando è che pochi ne siano consapevolmente allarmati. Nessun grido di allerta è in grado di raccogliere moltitudini, attirare attenzione e scatenare riflessioni critiche. Eppure i motivi per farlo ci sarebbero tutti: qualcuno sta colonizzando il nostro immaginario e, nel farlo, anche il nostro futuro. L’allarme non deve avere un carattere tecnofobico ma umano, capace di cavalcare cinismo e scetticismo e di porsi domande con l’obiettivo di una maggiore conoscenza utile a rendere più consapevoli le scelte e le decisioni.
La colonizzazione avviene nel modo più intelligente e subdolo possibile, passa attraverso i Big Data, i miliardi di dati che ogni congegno elettronico è oggi in grado di raccogliere, archiviare e analizzare. Questi dati sono usati per mille utilizzi marketing finalizzati a trasformarci in consumatori e merci, ma soprattutto per prevedere i nostri comportamenti futuri. La previsione, con l’applicazione di algoritmi predittivi sempre più intelligenti, computazionalmente potenti, psico-condizionanti e invasivi, non è più solo finalizzata a promuovere e a commercializzare meglio un prodotto ma a dare forma al futuro. Un futuro dentro Metaversi alla Second Life o alla Sansar, domani alla META (Metaverse) di Zuckerber, predeterminato nelle funzionalità rese disponibili, negli spazi allestibili e nelle attività rese possibili da chi avrà pensato e implementato l’applicazione.
Siamo quindi passati da futuri non prevedibili e solo immaginabili a futuri che altri hanno scelto e immaginato per noi e che noi, anche per opera delle molteplici azioni di convincimento a cui siamo costantemente sottoposti, accettiamo come nostri, anzi che facciamo nostri nella convinzione che siano stati immaginati da noi. Fortunatamente la pretesa e l’ambizione della tecnologia di costruire i nostri futuri saranno irrise dall’impossibilità di eliminare o sminuire i futuri possibili che sempre nasceranno dalla immaginazione umana, compresa quella praticata attraverso l’ibridazione con le macchine.
Per resistere alla pretesa della tecnologia presente e dei potentati che essa rappresenta bisogna per prima cosa decostruire le profezie che i numerosi sacerdoti (data scientist, esperti IA, ingegneri sociali, ecc.) della chiesa tecnologica continuano a diffondere. Decostruire, mettere in dubbio, analizzare interrogarsi, sempre con sguardi e occhi critici, è solo un primo passo resistenziale, che porta a non farsi agglutinare dall’ordine stabilito e dalle narrazioni che lo rappresentano e costituiscono.
Per resistere bisogna anche fare un passo ulteriore. Non ci si può limitare a decostruire, bisogna anche costruire, proporre, agire, fare. Continuando a essere umani, instillando il dubbio su ogni certezza, comprese quelle collegate ai futuri prossimi venturi, descritti come inevitabilmente digitali e tecnologici, forse transumani.
Bisogna resistere all’imposizione di risposte preconfezionate e continuare a porre(si) domande. Rifiutare il mantra di futuri anticipati e che confermano la loro probabilità come gli algoritmi vorrebbero farci credere.
Infine bisogna demistificare le magie della tecnologia e i suoi tentativi di costruire realtà, anche future, come se fossero semplici sistemi fisici di cui si conoscono tutte le regole e i meccanismi e che, per questo possono essere prevedibili, controllabili, orientabili e gestibili.
Prepariamoci comunque a futuri distopici e, in attesa, ritorniamo a leggere Philip Dick!