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Esiste un paradosso al cuore dell'esperienza manageriale contemporanea che merita una riflessione più profonda di quella che solitamente gli riserviamo. Osservo da anni, nelle sale riunioni e nei corridoi delle aziende dove si decidono le sorti dei progetti, un fenomeno curioso: più informazioni accumuliamo, più sembriamo perdere la capacità di comprendere. Più strumenti di misurazione raffiniamo, più ci allontaniamo dalla sostanza di ciò che dovremmo misurare. Non si tratta della banale osservazione che "troppa informazione confonde" — questa sarebbe una critica superficiale che non coglie la natura più sottile del fenomeno. Si tratta piuttosto di riconoscere che l'ignoranza, in molti contesti organizzativi, non è un accidente ma una costruzione deliberata, una forma di sapienza mascherata che permette al sistema di funzionare secondo logiche che altrimenti entrerebbero in crisi.

La lezione di Socrate nell'era digitale

Quando Socrate dichiarava di sapere di non sapere, non stava facendo falsa modestia filosofica. Stava articolando una posizione epistemologica precisa: il riconoscimento dell'ignoranza come condizione necessaria per l'apprendimento. Ma c'è un aspetto di questa saggezza antica che sfugge spesso ai commentatori moderni: Socrate non praticava l'ignoranza in modo indiscriminato. La sua era un'ignoranza strategica, mirata, finalizzata a smascherare le false certezze dei suoi interlocutori.

Nelle organizzazioni contemporanee assistiamo a qualcosa di simile, ma capovolto.

Invece di usare l'ignoranza per smascherare le false certezze, la usiamo per proteggerle. Costruiamo elaborate architetture di non-sapere che ci permettono di continuare a credere che i nostri processi funzionino, che le nostre metriche abbiano senso, che le nostre trasformazioni stiano effettivamente trasformando qualcosa.

nelle organizzazioni usiamo l'ignoranza per proteggere le false credenze

L'esperienza delle metriche vuote

Ricordo distintamente una serie di riunioni che ho dovuto subire per mesi in un grande progetto di trasformazione digitale. Tre appuntamenti al giorno, un'ora ciascuno, per ripassare metodicamente ogni task su Jira. Il project manager — uno di quei consulenti da 1800 euro al giorno che le multinazionali di consulenza piazzano sui clienti come status symbol costoso — convocava l'intero team per farsi raccontare "cosa era successo" rispetto a tre ore prima. Come se il software non tracciasse già ogni modifica, ogni commit, ogni avanzamento.

Questi orpelli manageriali, venduti come "senior consultant" o "transformation leader", sono spesso la zavorra più pesante di qualsiasi progetto. Costano quanto un intero team di sviluppatori ma producono principalmente ritardi, burocrazia e frustrazione. La loro presenza è il segnale che qualcuno, da qualche parte, ha confuso il prezzo con il valore — credendo che pagare di più significhi automaticamente ottenere di più.

Non era incompetenza tecnica. Era qualcosa di più sottile: aveva costruito un sistema di controllo così perfetto da rendersi cieco alla realtà che pretendeva di governare. Ventiquattro persone bloccate in sala riunioni a recitare lo stato dei loro task mentre i problemi reali del progetto — la resistenza degli utenti finali, l'incompatibilità tra sistemi legacy, la frustrazione crescente del team — rimanevano nell'ombra, non misurati, quindi inesistenti.

Peter Burke, nel suo monumentale studio sull'ignoranza storica¹, ci ricorda che ogni epoca ha le sue forme caratteristiche di non-sapere, e spesso queste forme sono più rivelatrici delle conoscenze che una civiltà proclama di possedere. La nostra è l'epoca della cerimonia manageriale: rituali elaborati che simulano il controllo mentre producono sistematicamente ignoranza su tutto ciò che conta davvero.

Il nostro è un tempo che ha fatto dell'informazione una religione. Dashboard real-time, KPI colorati, algoritmi predittivi — tutto questo apparato tecnologico ci dà l'illusione di avere il controllo sulla complessità. Ma cosa succederebbe se iniziassimo a sospettare che questa stessa abbondanza di informazioni sia diventata il nostro modo più raffinato di evitare la conoscenza?

ogni epoca ha le sue forme caratteristiche di non-sapere, e spesso queste forme sono più rivelatrici delle conoscenze che una civiltà proclama di possedere (P. Burke)

L'arte antica del governare nell'incertezza

I romani avevano un concetto interessante: la prudentia. Non era semplicemente la prudenza nel senso moderno di cautela, ma una virtù più complessa che comprendeva la capacità di navigare nell'incertezza senza pretendere di eliminarla. Il prudens era colui che sapeva quando agire e quando aspettare, quando parlare e quando tacere, quando cercare informazioni e quando accettare di decidere senza di esse.

Questa virtù sembra essere andata perduta nel management contemporaneo. Abbiamo sostituito la prudentia con la procedura, la saggezza pratica con il processo standardizzato. E quando i processi falliscono — come inevitabilmente fanno di fronte alla complessità del reale — invece di interrogare i nostri presupposti, raffiniamo le procedure.

Le trasformazioni agili sono un esempio perfetto di questo meccanismo. Nascono dalla giusta intuizione che i modelli tradizionali di project management sono troppo rigidi per la complessità contemporanea. Ma cosa facciamo? Codifichiamo questa intuizione in nuovi framework, creiamo nuove certificazioni, moltiplichiamo le cerimonie. Trasformiamo una filosofia dell'adattabilità in una nuova ortodossia.

Ho visto progetti dove il team dedicava più energia alla pianificazione delle retrospettive che allo sviluppo del prodotto. Consulenti esterni da 1500 euro al giorno che organizzavano workshop su workshop per "evangelizzare" la metodologia, presentandosi puntualmente con la loro cassa dell'Ikea piena di palline rimbalzanti, post-it colorati e pennarelli che farebbero invidia a qualsiasi asilo nido. Tutto questo apparato ludico-ricreativo per adulti in età aziendale serviva principalmente a giustificare tariffe che un chirurgo cardiaco troverebbe eccessive, mentre gli sviluppatori recuperavano il lavoro reale nelle ore serali.

Il paradosso è che questi rituali nascono dalla paura dell'incertezza, ma finiscono per creare esattamente quello che vorrebbero evitare: perdita di controllo, inefficienza, frustrazione del team. È come se, non sapendo come governare la complessità, decidessimo di tenerla occupata in cerimonie continue.

Il paradosso della conoscenza organizzativa

C'è un momento, nella vita di ogni project manager esperto, in cui si rende conto che le cose più importanti che sa non può scriverle in un manuale.

Sa riconoscere quando un team sta per entrare in crisi non dai report formali, ma da segnali impercettibili: il tono di una email, la durata di una pausa, il modo in cui qualcuno evita lo sguardo durante una riunione. Sa quando un progetto è in difficoltà non dalle metriche ufficiali, ma da quella sensazione indefinibile che qualcosa non va.

A far la differenza nelle organizzazioni è la conoscenza tacita, vissuta, una forma di sapere più difficile da codificare, da trasferire e da misurare

Questa conoscenza tacita, vissuta, è ciò che davvero fa la differenza tra un manager efficace e uno che si limita a seguire le procedure. Ma è anche la forma di sapere più difficile da codificare, da trasferire, da misurare. E in un'epoca ossessionata dalla misurazione, ciò che non può essere misurato tende a diventare invisibile.

Così assistiamo al paradosso della conoscenza organizzativa: più sofisticati diventano i nostri strumenti di knowledge management, più perdiamo contatto con quello che davvero sappiamo. Creiamo sistemi sempre più elaborati per catturare e condividere informazioni, mentre la saggezza pratica che rende queste informazioni utili rimane relegata ai margini non codificabili dell'esperienza.

L'ignoranza come resistenza

Foucault ci ha insegnato che il potere opera anche attraverso la produzione di sapere². Ma forse dovremmo prestare più attenzione al meccanismo inverso: come il potere si mantiene anche attraverso la produzione strategica di ignoranza.

Nelle organizzazioni, mantenere certe cose nell'ombra non è sempre disfunzionale. A volte è necessario.

Ma c'è una differenza cruciale tra ignoranza protettiva e ignoranza difensiva. La prima preserva l'energia necessaria all'azione, la seconda evita la responsabilità del cambiamento. Quando un project manager convoca tre riunioni al giorno per ripassare task list, non sta cercando informazioni — le ha già tutte sui suoi dashboard. Sta costruendo un sistema di controllo sociale che gli permette di sentirsi indispensabile mentre evita di confrontarsi con i problemi reali.

È una forma sofisticata di ignoranza istituzionale: si produce una grande quantità di attività che simula la gestione mentre tiene tutti lontani dal lavoro effettivo. Il team viene trasformato in una corte di Re Sole, dove la presenza fisica alle cerimonie diventa più importante del contributo sostanziale.

Queste dinamiche si amplificano quando entrano in gioco le grandi firme globali del consulting. Ho visto organizzare "transformation office" che impiegavano più persone del progetto stesso. Il loro compito? Coordinare riunioni per pianificare altre riunioni, produrre report sui report, misurare l'efficacia delle misurazioni. Un'architettura barocca di controllo che serviva principalmente a giustificare la propria esistenza.

Verso una nuova epistemologia del management

Thomas Kuhn ci ha mostrato che la scienza progredisce non per accumulo graduale di conoscenze, ma attraverso salti paradigmatici che richiedono la capacità di vedere con occhi nuovi³. Nel management, forse abbiamo bisogno di un salto simile: dall'ossessione per l'informazione alla coltivazione della saggezza pratica.

Questo non significa abbandonare gli strumenti di misurazione, ma riconoscere i loro limiti costitutivi. Ogni metrica è una semplificazione della realtà, e ogni semplificazione comporta una perdita. Il problema non è la perdita in sé — è inevitabile — ma il dimenticare che c'è stata una perdita.

Forse dovremmo iniziare a chiederci non solo "cosa stiamo misurando?" ma anche "cosa stiamo scegliendo di non vedere?". Non solo "quali informazioni abbiamo?" ma anche "quale saggezza abbiamo dimenticato di coltivare?".

La pratica dell'ignoranza consapevole

C'è una differenza sostanziale tra non sapere per caso e non sapere per scelta. L'ignoranza consapevole è quella che deriva da una decisione deliberata di non cercare certe informazioni, di non misurare certi fenomeni, di non sapere certe cose — non per pigrizia o incompetenza, ma per saggezza strategica.

Il radioamatore che cerca di stabilire un collegamento in onde corte sa che le condizioni di propagazione dipendono da centinaia di variabili: attività solare, condizioni ionosferiche, interferenze atmosferiche, riflessioni troposferiche. Potrebbe passare ore a studiare le previsioni geofisiche, i bollettini solari, le mappe di propagazione. Invece, sceglie deliberatamente di ignorare la maggior parte di questi dati e si concentra su pochi segnali essenziali: la forza del segnale ricevuto, la chiarezza della comunicazione, il feedback dell'interlocutore. Non spreca energie cercando di prevedere ogni variabile atmosferica; si sintonizza sui segnali che davvero contano per stabilire il collegamento.

Questa è ignoranza attiva: sa che non può controllare la propagazione, ma può imparare a riconoscerla e a sfruttarla. Sceglie cosa non sapere per poter meglio utilizzare quello che sa. È una forma di economia dell'attenzione che ogni manager esperto riconosce istintivamente.

Nel project management potremmo imparare da questa saggezza. Invece di cercare di eliminare ogni incertezza attraverso pianificazioni sempre più dettagliate, potremmo sviluppare la capacità di navigare l'incertezza con eleganza. Invece di moltiplicare le metriche, potremmo affinare il giudizio per riconoscere quali metriche contano davvero in quale momento.

Ricordo un collega, manager esperto, che aveva sviluppato una regola personale: "Se devo guardare più di tre dashboard per capire come va un progetto, il problema non è nel progetto ma nei dashboard". Aveva imparato a ignorare il 90% delle informazioni disponibili per concentrarsi su quei segnali deboli ma significativi che anticipano i problemi reali: il tono delle email di un cliente, la frequenza delle richieste di chiarimento dal team, il modo in cui vengono formulate le domande durante le riunioni.

Il ritorno alla phronesis

Aristotele distingueva tre forme di conoscenza: episteme (conoscenza scientifica), techne (competenza tecnica) e phronesis (saggezza pratica). La phronesis è quella forma di sapere che ci permette di agire bene in situazioni concrete, irripetibili, complesse. Non è codificabile in regole generali perché deve sempre essere reinventata di fronte alla specificità del caso.

quello di cui abbiamo bisogno non è più informazione, ma più saggezza.

Il management contemporaneo ha privilegiato episteme e techne, trascurando la phronesis. Abbiamo cercato di trasformare l'arte del governare progetti in scienza esatta o in competenza tecnica standardizzabile. Ma i progetti non sono esperimenti di laboratorio né macchine da costruire secondo specifiche predefinite. Sono organismi viventi che richiedono quella forma di intelligenza pratica che Aristotele chiamava phronesis.

Recuperare questa dimensione non significa abbandonare rigore e metodo, ma riconoscere che rigore e metodo devono essere sempre temperati dal giudizio pratico. Significa accettare che la competenza manageriale più alta non consiste nel seguire procedure, ma nel saper improvisare intelligentemente quando le procedure non bastano.

Quando Socrate dichiarava di sapere di non sapere, stava articolando più di una posizione filosofica: stava tracciando una mappa per navigare l'incertezza senza perdere l'orientamento. La sua ignoranza non era vuoto, ma spazio attivo per l'apprendimento. Nel management contemporaneo, abbiamo dimenticato questa lezione fondamentale e l'abbiamo sostituita con l'illusione del controllo totale.

In fondo, quello di cui abbiamo bisogno non è più informazione, ma più saggezza. Non migliori strumenti di controllo, ma migliore capacità di giudizio. Non l'eliminazione dell'incertezza, ma l'arte di navigarla senza perdere l'equilibrio.

Il paradosso della nostra epoca è che abbiamo creato sistemi così sofisticati per produrre conoscenza che abbiamo dimenticato l'arte antica di riconoscere quando non sapere è più saggio del sapere. Forse è tempo di riscoprire che l'ignoranza consapevole non è il contrario della competenza, ma la sua forma più raffinata.

Postilla: il business delle certificazioni vuote

Tutto questo discorso sull'ignoranza costruita trova la sua manifestazione più grottesca nel proliferare delle certificazioni di project management. PMP, PRINCE2, SAFe, Scrum Master — sigle che ornano i curriculum e i profili LinkedIn come medaglie al valore, ma che spesso certificano esattamente il contrario di quello che promettono.

Ho visto multinazionali della consulenza comprare certificazioni "a un tanto al chilo", pagando gli enti certificatori per sfornare lotti di "project manager certificati" da piazzare sui clienti a tariffe maggiorate. Il meccanismo è semplice: più certificazioni hai, più puoi fatturare. Non importa se il possessore di tre certificazioni agili sia poi incapace di distinguere un problema reale da una metrica ben confezionata.

Ma il problema più grave è un altro: questi neo-certificati, freschi di due giorni di corso tra palline rimbalzanti e con le dita ancora macchiate dai pennarelli usati per i post-it, vengono catapultati sui progetti come "senior consultant" senza aver mai gestito nemmeno una release software. E chi paga il prezzo di questa ignoranza spacciata per competenza? I veri project manager, quelli che sanno effettivamente governare progetti complessi, che si ritrovano a dover gestire non solo le difficoltà tecniche del progetto, ma anche questi improvvisati esperti di management piazzati lato cliente.

È una situazione kafkiana: il professionista esperto deve insegnare il mestiere a chi teoricamente dovrebbe essere il suo pari grado — spesso pagato il doppio — tutto questo mentre mantiene la diplomazia necessaria per non compromettere la relazione commerciale con il cliente (che è stato evidentemente "fregato" dall'abile commerciale della multinazionale di consulenza di turno...). Il consulente certificato ma inesperiente diventa così un ulteriore problema da risolvere, un pesante e inutile masso da portare nello zaino, un ostacolo travestito da risorsa.

La certificazione diventa così una forma istituzionalizzata di ignoranza: garantisce la conoscenza delle procedure senza alcuna verifica della capacità di giudizio. Attesta la padronanza del framework ma è cieca alla phronesis. È possibile — anzi, è frequente — essere certificati in metodologie agili e contemporaneamente essere l'antitesi dell'agilità.

Il risultato è paradossale: le aziende pagano di più per avere consulenti "certificati" che spesso sono meno competenti di un senior developer senza titoli ma con anni di esperienza sul campo. Peggio ancora, questi sedicenti esperti diventano un fardello per chi lavora davvero, costringendo i professionisti veri a fare da mentori silenziosi a presunti specialisti che non sanno distinguere un backlog da un burndown chart.

È l'ultimo stadio dell'ignoranza strategica: aver trasformato la stessa idea di competenza in un prodotto commerciale, dove il possesso del titolo sostituisce la sostanza della conoscenza, e dove chi sa davvero fare il mestiere deve anche compensare l'inadeguatezza di chi non lo sa fare ma ha il certificato rilasciato da enti più attenti ai ricavi che alla sostanza. Socrate, che non aveva certificazioni ma sapeva di non sapere, oggi non passerebbe nemmeno il primo colloquio — ma almeno non avrebbe compromesso progetti altrui.


Note bibliografiche

¹ Peter Burke, Ignorance: A Global History, Yale University Press, New Haven 2023, ISBN 978-0-300-26595-8. Opera di sintesi che esamina le diverse forme di ignoranza dall'antichità all'età contemporanea, dimostrando come l'ignoranza non sia mai semplice assenza di conoscenza ma spesso costruzione sociale attiva. Burke documenta oltre quaranta tipologie di ignoranza, dall'ignoranza strategica (mantenere deliberatamente altri nell'ignoranza) all'ignoranza organizzativa (distribuzione disomogenea delle conoscenze all'interno delle istituzioni). Essenziale per comprendere come le società costruiscono e utilizzano il non-sapere.

² Michel Foucault, Discipline and Punish: The Birth of the Prison, trad. Alan Sheridan, Vintage Books, New York 1995, ISBN 978-0-679-75255-4. Titolo originale: Surveiller et punir: Naissance de la prison (1975). Analisi genealogica del sistema punitivo moderno che dimostra come il potere operi attraverso la produzione di saperi disciplinari (criminologia, psicologia, medicina). Foucault mostra come il controllo sociale si sia spostato dal corpo all'anima attraverso tecniche di sorveglianza e normalizzazione. Fondamentale per comprendere il rapporto tra sapere e potere nelle istituzioni moderne.

³ Thomas S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, Chicago 1962, ISBN 978-0-226-45807-6. Testo fondamentale dell'epistemologia contemporanea che introduce il concetto di "paradigma scientifico" e dimostra come il progresso della conoscenza avvenga attraverso discontinuità rivoluzionarie piuttosto che accumulo graduale. Kuhn mostra come ogni paradigma incorpori forme specifiche di ignoranza (anomalie non viste, problemi non posti) che diventano visibili solo al momento del cambiamento paradigmatico. Imprescindibile per comprendere le dinamiche del cambiamento nella conoscenza.

Pubblicato il 15 giugno 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto