Qualche settimana fa, inizio settembre, il regista Werner Herzog ha ricevuto il premio alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia. In agosto ad Iquitos, in Perù, “base logistica” di uno dei suoi film più noti e celebrati, Fitzcarraldo (1982), girato nella selva amazzonica, ho visitato una nave - museo dell’epoca della “febbre della gomma” (tra fine 800 e inizio 900) con cui si arricchirono uomini d’affari che controllavano l’estrazione e la commercializzazione del lattice, riducendo in schiavitù la popolazione indigena locale. Quella nave-museo è molto simile alla Molly-Aida che il regista fece trascinare da un capo all’altro di un istmo montuoso tra due fiumi senza ricorrere ad alcun trucco, modellino o altra finzione cinematografica, perché voleva viverla e realizzarla davvero l’impresa del “barone della gomma” Carlos Fermín Fitzcarrald López.
Salgo a bordo di Stultifera Navis-Molly-Aida navigando con Werner Herzog che di viaggi ne ha fatti tanti, in luoghi e con persone veramente fuori dal comune, estreme e folli, mitiche e mistiche, note e sconosciute. Tutte straordinarie al suo sguardo. E invito con noi Anselm Kiefer, un artista che ho sempre collegato ad Herzog. Probabilmente accetterebbe: dall’unica intervista reperita in rete dove l’uno (Kiefer) cita l’altro (“il mio regista di cinema preferito, Werner Herzog”) ho scoperto che i due si conoscono e si stimano.
Fino a quando ho scelto di scrivere questo testo non sapevo il perché di questa mia personale connessione tra i due artisti coetanei e tedeschi (1942 Herzog, nato a Monaco; 1945 Kiefer nato a Donaueschingen, Germania del sud) che seguo con curiosità e “amicizia” da tanti anni. Altri dati biografici li collegano, oltre al paese e all’anno di nascita. Le rovine, le macerie, la ricostruzione e la povertà di chi cresceva in Germania alla fine della guerra e nel dopoguerra dopo la disfatta del regime nazista sono la cornice generazionale comune profonda, scritta nel corpo di questi due artisti creativi solitari. Né l’uno né l’altro si identificano e appartengono a nessun movimento collettivo (Herzog non si sente davvero parte del “nuovo cinema tedesco”, pur coltivando decennali rapporti di amicizia con diversi colleghi di quel gruppo come Edgar Reitz e Wim Wenders che nel 2023 ha girato un film su Kiefer ).
All’Accademia di Düsseldorf in quegli stessi anni Kiefer non aderisce a nessuna corrente, ma è profondamente influenzato da Joseph Beuys, il primo artista tedesco a fare riferimento esplicito all’Olocausto, a fare domande dirette sulla rimozione del periodo hitleriano e dei traumi della dittatura e della guerra, temi che Kiefer svilupperà nel corso di tutta la sua carriera. Indipendenti e creativi nel trovare modi per autofinanziarsi, sono stati entrambi capaci di intessere fruttuose relazioni con i mondi dell’arte in cui si muovono (dai musei alle case di produzione cinematografiche) e di trovare le risorse necessarie per i loro grandiosi progetti. Entrambi raccontano di aver contestato il sapere istituzionale degli anni di formazione scolastica.
Entrambi hanno avuto tre compagne/mogli (coincidenza sorprendente). Entrambi lasciano la Germania dopo molti anni di lavoro e dopo aver raggiunto una certa notorietà: dal 1992 Kiefer vive in Francia, a Barjac, prima, e a Croissy-sur-Seine (Paris) poi. Nel 2000 Herzog si trasferisce a Los Angeles. Lungi dall’essere una fuga da “artisti incompresi in patria” lasciano il paese d’origine alla ricerca di nuovi stimoli e contesti aperti alla loro creatività.
TRA ROVINE E FANTASMI
In modi assai diversi Herzog e Kiefer cercano di uscire dai fantasmi del nazismo che accomuna la loro generazione, studiano e ricercano le verità storiche che l’istituzione scolastica non è in grado di affrontare. Kiefer è consapevole del fatto che “l’occupazione nazista ha avuto perenni ripercussioni su tutti noi. Alcuni ne rimarranno occupati per sempre” ed è per questo che nelle sue opere giovanili si fa ritrarre mentre fa il saluto nazista davanti a monumenti storici, il che per lui è “una vera e propria elaborazione della storia tedesca. Bisogna starci dentro per superarla.” Approfondisce lo studio dell’antica cultura ebraica e non per senso di colpa per la persecuzione degli ebrei. Si tratta, piuttosto, di riassemblare, di ricucire quella che lui definisce “l’amputazione di metà della cultura tedesca di matrice giudaica”. La catastrofe, l’oscurità, le rovine sono una costante della sua poetica e delle sue opere che richiamano atmosfere e immagini post belliche(dai Sette Palazzi Celesti a Milano al sito labirintico La Ribaute di trenta ettari, dove ha costruito cinquantadue edifici collegati da ponti e tunnel, a Barjac, Francia del sud).
Rovine e catastrofi (del passato e del presente) costellano anche i film di Herzog che, a sua volta, non ha paura di guardare nella storia e nell’abisso dell’umano. Ha esplorato più volte situazioni estreme di follia mortale e mortifera sia nei film di finzione (come Aguirre furore di Dio) sia nei documentari (per esempio sul dittatore sanguinario Bokassa o sui condannati nel braccio della morte in Florida e in Texas). Pur non temendo di confrontarsi con la morte e pur avendo rischiato più volte la morte nei suoi film-imprese impossibili (soprattutto in Fitzcarraldo) Herzog ha un grande rispetto per lo spettatore, conosce il limite della pornografia dell’orrore, per esempio quando decide di non mostrarci la morte dell’uomo che si illudeva di poter essere “amico” degli orsi nelle scene finali del documentario Grizzly man.
L’APOCALISSE
Herzog nei suoi film ci porta dentro apocalissi naturali o sogni apocalittici di persone visionarie che rivendicano il diritto a tendere all’Assoluto e a non accontentarsi di nulla di meno di esso, nonostante limiti, fallimenti ed errori catastrofici.
Li vediamo mentre accadono, questi eventi apocalittici, vissuti da persone che tentano imprese impossibili, fenomeni naturali o di immaginazione. Per quanto le immagini o le storie siano davvero fuori dall’ordinario, Herzog non indulge mai nel visivo catastrofico holliwoodiano degli effetti speciali e nemmeno ci impressiona con un documentarismo-shock da reportage di guerra “insopportabile alla vista”.
Anche quando fa un montaggio di immagini girate da lui e da altri cineasti in Apocalisse nel deserto (1992), dove ci mostra i pozzi di petrolio del Kuwait dati alle fiamme dalle truppe irachene in ritirata, il suo resta uno sguardo distaccato, non retorico, né bellicista né pacifista. Sembra di vedere un film di fantascienza, perché “Il film si svolge come se l’intero pianeta fosse in fiamme e, dal momento che si sente musica per tutto il film, io definisco Apocalisse nel deserto [come] un requiem per un pianeta inabitabile”.
E infatti questo film è l’ennesima dimostrazione che il suo modo di trattare le immagini non è realistico, perché per lui è fondamentale la differenza “tra “fatto” e “verità”. La sua idea è che i fatti siano insufficienti per capire davvero il mondo: “se così fosse la guida del telefono di Manhattan sarebbe il libro più grande di sempre, perché contiene tutti fatti veri e incontestabili.”
Quella che lui cerca nel cinema è la “verità estatica” una forma poetica profonda, tragica, quasi trascendentale.
Kiefer, come Herzog, “diffida della realtà perché le opere d’arte sono un’illusione”. All’opposto del cineasta lui è alieno da ogni forma di presentismo e dall’azzeramento della storia tipico di alcune avanguardie artistiche. Apocalittico è il labirintico e gigantesco lavoro sulla memoria attraverso le rovine, un frugare nelle ferite e creare ferite, un colloquio aperto con le rovine del postbellico, dove nessuna fase della storia può dirsi inequivocabilmente finita. Nelle sue opere sono sempre presenti ricordi d’infanzia quando giocava con i mattoni delle rovine di edifici squarciati dalle bombe. La memoria transita tra le cose in modo imprevedibile e caotico e le macerie sono un punto di partenza, sono oggetto di transizione, di cambiamento e di trasformazione verso qualcosa di nuovo. Kiefer sceglie di sostare nell’eterno ritorno e combinazione tra le barriere del tempo, pensa la propria pratica artistica come interminabile elaborazione del passato, riscrittura ardita di ciò che già esiste, di ciò che è già stato fatto da altri artisti, poeti e letterati, patrimonio (e fardello) culturale di riferimento continuamente rielaborato secondo princìpi alchemici.
I LIBRI
Sia Herzog che Kiefer hanno un rapporto intenso e importante con i libri e con la scrittura.
Entrambi riempiono taccuini e quaderni di appunti, riflessioni, cronache di viaggio e sono autori di libri. Herzog ai giovani aspiranti registi raccomanda di “leggere, leggere, leggere” e nella sua autobiografia a più riprese cita testi per lui importanti e afferma che sull’isola deserta porterebbe l’Oxford English Dictionary (“una delle più grandi conquiste culturali dell’umanità”). Uomo d’azione, di cammino a piedi, di conoscenza diretta e corporea del mondo (la sua è veramente conoscenza incarnata, embodied) Herzog mantiene tuttavia una certa diffidenza nei confronti del sapere libresco, conserva l’abitudine a non dare nulla per scontato e mette continuamente alla prova i paradossi e i teoremi della conoscenza scientifica di cui è assai curioso.
Come racconta la madre:
“Quando andava a scuola, Werner non imparava niente. Non leggeva mai i libri che doveva leggere; non studiava mai. Sembrava che non sapesse mai quello che doveva sapere. Ma, in realtà, Werner sapeva sempre tutto. I suoi sensi erano molto vigili. Era in grado di sentire il suono più impercettibile, e di ricordarlo con precisione anche dieci anni dopo. Poi ne parlava e in un modo o nell’altro lo utilizzava. Ma è totalmente incapace di spiegare qualsiasi cosa. Sa, vede, comprende, ma non è in grado di spiegare nulla. Non è questa la sua natura. Assorbe tutto. Quando qualcosa riappare, riappare in modo diverso.”
Il regista usa i libri senza alcun timore reverenziale nei confronti del sapere costituito fino ad inventare citazioni inesistenti di classici della letteratura o della filosofia. Il suo fascino e la sua genialità sta proprio in questa capacità metamorfica irriverente di cui parla la madre, grazie alla quale arriva a produrre immagini di verità estatica a misura del mondo in cui viviamo.
Apparentemente più citazionista e molto più legato allo studio filosofico e letterario, Kiefer dipinge sulla tela parole che associa alle immagini create, si spinge spesso sulle vette dell’investigazione teoretica. Per lui arte e filosofia vanno sempre insieme sono indissolubilmente intrecciate anche se “la parola è sempre inadeguata rispetto al gesto pittorico. La scrittura è il tentativo di fissare un momento o un luogo, di suggerire una condizione immutabile, ma le immagini lo negano. Sono attive.” Così afferma Kiefer in una delle interviste raccolte nel libro Paesaggi celesti. Ma le citazioni, le parole scritte non sono rimandi da prendere alla lettera, non sono didascalie, non spiegano né accompagnano l’opera, restano a livello di segni da interpretare, poesie ermetiche. Rivelatori di questo rapporto ambivalente di Kiefer con i libri, con il sapere codificato sono i libri di piombo “ Non si possono leggere, Sono pesanti, il piombo non lascia passare niente, sono la mistificazione assoluta. È un’allusione alla dialettica dell’essere e del nulla. Quando facciamo qualcosa, la negazione è sempre contenuta al suo interno. Da questo punto di vista i libri di piombo sono totalmente paradossali. Non puoi sfogliarli, non puoi leggerli e non sai cosa contengono”. L’arte secondo Kiefer ha il dovere di cannibalizzare tanti bottini delle sue razzie.
E in questo, alla fine, a me non pare sostanzialmente diverso da Herzog.
Mentre in Herzog i libri, gli autori, le citazioni sono metamorfiche, in Kiefer sono oggetto di una trasformazione alchemica dove l’arte accelera la trasformazione del piombo in oro.
Rovine-Apocalisse-Libri: in viaggio sulla Stultifera navis con Herzog e Kiefer, meditando sull’apocalisse del presente dove l’arte possa trasformare il piombo in oro.
Biblio
Werner Herzog, Il crepuscolo del mondo, Feltrinelli Milano 2023
Werner Herzog, Ognuno per sé e Dio contro tutti, Feltrinelli Milano 2023
Werner Herzog, Il futuro della verità, Feltrinelli Milano 2025
Anselm Kiefer L’arte sopravviverà alle sue rovine Feltrinelli Milano 2018
Vincenzo Trione Prologo celeste Nell’atelier di Anselm Kiefer, Einaudi Torino 2023
Anselm Kiefer Paesaggi celesti, interviste Il Saggiatore Milano 2022