“La catastrofe, come la dinamica che la guida, è morale prima di essere fisica […] i lupi, troppo umani, entrarono in [città] perché c’erano già, dato che la fratellanza aveva abbandonato la città. La violenza morale precede e alimenta la violenza fisica, ma soprattutto ci acceca e ci disarma di fronte alle minacce fisiche che l’ingresso nell’Antropocene annuncia” – Dominique Bourg (Autore prefazione), Un’altra fine del mondo è possibile – Treccani, Milano 2018
“Questa è la storia: emergenze e collassi, periodi di calma e cataclismi, biforcazioni, vortici, emergenze inaspettate. E a volte, anche nei periodi bui, appaiono semi di speranza. Imparare a pensarla così: questo è lo spirito della complessità.”– Edgar Morin
"Abbiamo due necessità sovrapposte. Nella nostra situazione, è necessario che accada una catastrofe globale, tutta la nostra storia si dirige verso di essa, e al contempo è necessario agire per impedirla. Nel collasso di queste due necessità sovrapposte, solo una si realizzerà: in ogni caso la storia sarà (sarà stata) necessaria.” - Slavoj Žižek, Libertà, una malattia incurabile – Ponte alle Grazie, Firenze 2023, Pag.373
Siamo dentro una crisi con tante minacce incombenti e problematiche che sembrano senza soluzione. Un mondo è finito, sta collassando, anche a causa della distruttività umana. Un altro mondo sta formandosi ed emergendo ma, non avendo consapevolezza del collasso, è come se fossimo impreparati ad accoglierlo, non lo vediamo neppure perché vittime della grande cecità di cui parla Amitav Ghosh: “Ci stiamo schierando sull’orlo di una nuova era in cui gran parte delle nostre abitudini passate, nel pensiero come nella pratica, sono diventate fonte di cecità, e sono un ostacolo nel farci percepire le realtà della nostra situazione attuale[1]”.
Siamo diventati ciechi? Sicuramente siamo affaticati, indifesi, impreparati, infragiliti, deboli!
È già successo in passato, oggi sembriamo affaticati e confusi, più indifesi, più impreparati, senza i saperi necessari, nell’impossibilità di agire perché diventati cognitivamente, emotivamente ed intellettualmente deboli, incapaci di farlo prima che sia troppo tardi. Abbiamo perduto il coraggio e la capacità di immaginare nuovi mondi possibili, dimenticato come muoverci collettivamente e solidaristicamente dentro una società capitalistica cannibale[2], che ha inglobato il mondo intero imponendo le sue logiche estrattive, di sfruttamento e di espropriazione.
Un mondo raccontato come smaterializzato, immateriale e digitale, nel quale il software tende a occultare la pesantezza materica di ciò che lo rende tale, sta consumando risorse, persone e lavoro così come democrazia, senso di comunità e il pianeta stesso (forse non è un caso che Elon Musk punti su Marte…). Interrogarsi sulla materialità dei media digitali, mettendone in discussione mitologie e bugie, non è sufficiente, chi ne ha la possibilità dovrebbe contribuire a realizzare una svolta metodologica fatta di consapevolezza, resa necessaria dall’ignoranza, sempre più diffusa nel mediascape contemporaneo, che coinvolge studiosi, persone istruite, che guardano al mondo digitale in prospettiva post-umanista e inorganica.
il fatto che il futuro sarà ecologicamente difficile è innegabile
Il risultato è palese a tutti coloro che volessero analizzare e capire, elaborando una critica del presente finalizzata a definire potenziali scenari futuri meno catastrofici e più umani, seppure ibridati, in compagnia di cyborg e simbionti vari. La critica non basta, bisogna trovare il modo di contrastare e opporsi alle nuove élite, perfettamente rappresentate da quelle tecnocratiche della Silicon Valley, il cui cinismo sfrenato, estrattivismo, egoismo, fame di dominio e di profitto ha fatto aumentare povertà e diseguaglianza, l’espropriazione di risorse naturali, autoritarismi e sovranismi vari, crisi ambientali diffuse.
Il bisogno di pensiero critico è grande perchè grande è il senso di impotenza che ci sentiamo dentro
La critica, ci chiama a uno stato di veglia sulla realtà. Non può essere solo individuale, ma elaborata insieme ad altri, dentro il Nostroverso, prima che collassi. I legami umani che sapremo costruire e l’immaginario futuro a cui saremo in grado di dare corpo servono, più che a evitare il collasso prossimo venturo, a comprenderne i tanti eventi anticipatori che lo stanno preparando, a cogliere l’inadeguatezza della percezione che ne abbiamo, l’insufficienza delle narrazioni mistificate che ne facciamo. L’elaborazione critica è tanto più necessaria quanto maggiore è l’impotenza che ci sentiamo dentro, a cui reagiamo con scetticismo e nichilismo o con incertezza, paura e insicurezza.
Il collasso in avvicinamento non riguarda solo gli umani, ma tutti gli esseri viventi e non viventi sulla terra, la stessa natura, l’ambiente per usare un eufemismo con cui l’abbiamo denominata. Nel provare a costruire un’alternativa possibile, identificabile in un nuovo umanesimo aggiornato, dobbiamo trovare forme di contatto e di condivisione, non solo antropocentriche, ecologiste, politiche, basate sulla consapevolezza che i problemi oggi emergenti sono tutti collegati e interdipendenti. Non servono nuove ideologie. Come ha scritto Giorgio Grossi, il “terrestre inforg” ha bisogno di cosmologie e cosmopolitismo. Dobbiamo usare la consapevolezza delle trasformazioni in corso per cambiare il nostro punto di vista, mettendo tutto in discussione, soprattutto le certezze. Nel dominio della tecnica attuale, in cui tutto è preordinato, automatizzato e programmato, non farlo mette a rischio l’evoluzione della nostra specie umana sulla Terra.
La consapevolezza serve a mettere in discussione il nostro rapporto malato con la tecnologia per intraprendere percorsi diversi, sia interiori sia nella società, onlife come offlife. Ripensare il modo con cui viviamo la tecnologia ha senso se si ripensa il mondo, il modo con cui lo vediamo e il nostro essere in questo mondo, capitalistico, tecnologico, globalizzato, dentro una crisi sistemica all’apparenza senza soluzione perché percepita come inestricabile, inevitabile.
La consapevolezza serve a mettere in discussione il nostro rapporto malato con la tecnologia
Elaborare una riflessione critica non basta, è necessario definire e adottare delle pratiche esistenziali(ste) e umaniste. Pratiche pensate in ottica resistenziale e propositiva, dentro un contesto predisposto per affrontare le molteplici sfide che aspettano tutti, ma in particolare attendono le nuove generazioni, sempre più coscienti e preoccupate per il loro futuro. A loro ho dedicato il mio libro NOSTROVERSO - Pratiche umaniste per resistere al Metaverso è principalmente dedicato affinché comprendano, anche con il mio aiuto, la gravità della situazione, l’inutilità della fuga e della negazione, la stupidità di molte narrazioni che si rifanno ancora al mito positivista del progresso senza fine, la necessità di dotarsi di strumenti cognitivi per superare gli shock a cui si sta andando incontro e per riuscire aformulare strategie in grado di superarli o evitarli.
Conoscere e comprendere sono due verbi transitivi che implicano la capacità di superare le molte emozioni/passioni tristi che dominano le menti e la psiche di milioni di individui. Più che l’incertezza, la paura, l’ansia e l’insicurezza, contano di più la tristezza, la collera e la paura, i sentimenti prevalenti di impotenza e di impossibilità a cambiare la propria esistenza, sia essa personale, lavorativa o professionale. Queste emozioni nascono dalla percezione che queste passioni tristi non siano solo individuali ma allargate a iperoggetti come l’ecologia, il riscaldamento globale, l’assenza di lavoro, la crisi del capitalismo, la guerra. Riguardano tutti coloro che con questi iperoggetti entrano in contatto/collisione, li riguarda da vicino perché, pur essendo percepiti come lontanissimi, gli iperpogetti sono connessi a ogni nostra attività. Le emozioni sono alla base delle rivelazioni della realtà che ci raccontano cosa non funziona più, del pensiero che serve per esplorarle, comprenderle e condividerle, in modo da sperimentare forme condivise di reazioni e di azioni.
dobbiamo andare oltre le passioni tristi per uscire dalla solitudine contemporanea e tornare alla creazione condivisa
Tenere nel dovuto conto le passioni tristi è un modo umanista per riconoscere la nostra umanità, fatta di imperfezioni, mortalità e fragilità. Tutto ciò che nella narrazione odierna viene negato o rifuggito perché non compatibile con le teorie felicitarie che caratterizzano molti ambiti virtuali da noi frequentati. Raccontarci di essere (artificialmente) felici non ci esime dal fare i conti con la realtà e il suo reale che ci raccontano il collasso in arrivo. Meglio forse elaborare il lutto, allontanarsi da false ideologie assolutiste, rinunciare alle promesse di felicità di un presente fuori tempo, prepararsi per percorsi lunghi e impegnativi, nella speranza di ritrovare la propria vita, investendo sulle sue componenti antifragili.
La speranza a cui faccio qui riferimento è quella descritta da Sartre nella sua ultima intervista, una speranza priva di ogni significato religioso o trascendente ma legata laicamente all’azione dell’atto, della scelta e del progetto. Più che adeguarci speranzosi all’idea che le cose possano andare meglio, serve praticare in modo esistenzialista il coraggio delle scelte e delle decisioni, le une e le altre capaci di tenerci in movimento e di aprirci a nuove possibilità.
Il coraggio è costruito sulla speranza che le nostre scelte abbiano una capacità realizzativa, è un modo per non dare partita vinta all’esistenza del tempo presente dominata dall’informatizzazione e digitalizzazione della realtà. Ci vuole molto coraggio per affrontare i tanti problemi spinosi che ci aspettano ma soprattutto per rompere la cappa (citazione dal libro di Marcello Veneziani) che ci avvolge tutti, impedendoci di cambiare punto di vista e prospettiva, di capire che la realtà non è binaria come molti vogliono farci credere, ma è dominata dalla complessità. Non è individuale, ma sempre situata e contestualizzata, dentro organismi ed ecosistemi più grandi, i cui molteplici elementi sono tutti intrecciati tra loro, si autoregolano e si trasformano in modo autonomo senza bisogno di algoritmi o intelligenze artificiali.
bisogna rompere la cappa determinata da un paesaggio sociale devastato dal neoliberismo, dominato dall'individualismo, dal narcisismo e dalla prestazione (Benasayag)
Nel proporre questa pratica mi sono ispirato al lavoro do Pablo Sevigne, Raphaël Stevens e Gauthier Chapelle che, nel loro libro Un’altra fine del mondo è possibile, hanno suggerito di vivere il collasso come se fosse già avvenuto, in modo da prepararsi ad affrontarne le conseguenze attraverso l’elaborazione di una nuova visione del mondo: una visione né apocalittica, né celebrativa ed euforica ma consapevole dei limiti della tecnologia e del ruolo attivo che l’essere umano può giocare nel determinarne direzioni ed evoluzioni future. Questa visione è molto vicina a quella che provo a descrivere qui, chiama alla consapevolezza e all’impegno, al coraggio e alla condivisione, all’azione collettiva e alla riscoperta del vissuto esistenziale di ognuno. Sempre dentro il Nostroverso, lontano dal Metaverso, pur riconoscendo sempre i vantaggi e le opportunità della tecnologia e nella consapevolezza di vivere dentro la complessità.
Scegliere questa visione aiuta a comprendere che i modelli attuali, costruiti sull’efficienza, sull’enhancement e sull’empowerement artificiali, sull’ottimizzazione, sulla produttività e sull’utilità, non sono più sufficienti a risolvere i problemi viscosi e intrecciati del mondo tecno-globalizzato. Bisogna affidarsi a visioni diverse, altre, non autistiche, democratiche e partecipate, aperte all’ascolto, alla reciprocità e al coinvolgimento empatico di altre persone, tenendo sempre presente la natura e l’ambiente in cui si è immersi, il loro essere habitat di tanti pluriversi destinati a vivere con noi l’esperienza del collasso che l’Antropocene ha preparato anche per loro. Noi non siamo individui profilati digitalmente, renderizzati e scansionati, modellizzati e valutati, semplici produttori di dati.
Noi siamo persone che condividono con altri uno stesso pianeta (diverso da qualsiasi piattaforma digitale), sempre in relazione con altre entità, di qualsiasi genere esse siano, anche protesizzate tecnologicamente, animali e non-umane. Noi non siamo i nostri doppi digitali, miniere di dati e corpi idealizzati. Noi siamo persone che, guardando a questi doppi come specchi, hanno scelto di non guardare, di non vedere con chiarezza il loro sé, gli altri, la realtà e il mondo, perché incatenati alla lucentezza dei loro schermi e alle loro identità sintetiche dentro realtà sempre artefatte, digitali. Tornare a vedere significherebbe delimitare il grande potere assegnato ai doppi digitali e rifocalizzare l’attenzione sui loro originali, composti da corpi in azione che si devono misurare con invecchiamento e guerre, sfruttamento del pianeta Terra e crisi climatiche. Dopo avere compreso l’abbaglio a cui il loro sguardo è esposto, le persone incarnate che noi siamo sono chiamate ad affrontare gli effetti che i loro corpi mortali hanno sul mondo.
Nel fare questo dovrebbero avere a cuore la soluzione dei problemi che oggi affliggono la terra, contribuendo con comportamenti e azioni alle trasformazioni cognitive, etiche e culturali necessarie per affrontarli, dentro una prospettiva umanista. Dentro una visione in grado di superare: la separazione creatasi nel tempo tra umani e natura; le disuguaglianze tra pochi ricchi e moltitudini di poveri; l’imbecillità crescente determinata dall’analfabetismo dei molti che non leggono e non studiano; di criticare e limitare la pretesa algocratica e algoretica delle macchine, in modo da meglio governare e indirizzare i progressi tecnologici, evitando che siano automatizzati.
Ciò che sta emergendo dalla crisi che stiamo vivendo è frutto del disincanto rispetto al disordine crescente e alle numerose promesse fallite, della consapevolezza che servano nuovi stili di vita e l’assunzione di una responsabilità grande, etica, verso gli altri, l’umanità (futura) e il mondo. Dal disincanto può nascere la capacità di nuove narrazioni, di immaginare futuri diversi e più umani, può emergere la voglia di abbandonare gli zombie che siamo diventati dentro piattaforme vampiresche finalizzate all’estrazione, di riflettere sulle false narrazioni che le tengono in vita, come quella del progresso, delle risorse infinite, della smaterializzazione del mondo, del soluzionismo tecnocratico, del potere democratico e libertario della tecnologia, che democratico non è ed è libertario perché anarchico e finalizzato alla uberizzazione della vita.
quando capiremo che le risorse non sono infinite, che il digitale non smaterializza ma appesantisce la terra, che il soluzionismo non è la soluzione?
Cambiare visione comporta l’abbandono dell’idea condivisa dai più che i problemi possano essere risolti attraverso una soluzione tecnica, compresa la fuga dal collasso attraverso migrazioni su Marte. Il passaggio a nuove narrazioni, miti e visioni sembra impossibile, eppure per cominciare basterebbe pensare al di fuori delle narrazioni e visioni presenti evitando di confonderle con la realtà[3]. Nuove visioni e narrazioni nascono ogni volta che si decide di rompere il legame tra finzione e realtà, politicizzando l’immaginazione, provando a costruire storie e azioni diverse. Lo stanno facendo moltitudini anche oggi in tutto il mondo, semplicemente non se ne parla. Ne sono testimonianza le recenti (inizio anno 2023) proteste di massa in Israele e Francia, le cui motivazioni si collegano alla percezione che non ci si può più accontentare di sopravvivere, ma si desidera tornare a vivere, agendo come creatori protagonisti delle proprie storie, costruttori di scenari futuri. A vivere anche la crisi e il collasso se necessario ma da soggetti, in prima persona, con coraggio, mettendosi in gioco e rischiando, da persone libere e consapevoli.
Nel tracciare nuovi orizzonti e nuovi percorsi la prospettiva di un nuovo umanesimo aiuta a collegare (il rilegare e ancora rilegare di Edgar Morin) intuizioni e pensieri, a far emergere nuovi valori e dare forza a nuove emozioni positive. Le pratiche umaniste servono a lasciare alle spalle le narrazioni del collasso per costruirne di nuove, improntate all’azione proiettata nel futuro, alla trasformazione interiore ed esteriore.
Molte vite sono oggi sprecate online, dentro videogiochi e metaversi vari, generando solitudini e isolamento, ansia e malinconia, soprattutto passività e malattie psichiche. La soluzione non obbliga alla perenne disconnessione, sta nel provare a risvegliarsi dal sonno digitale, a immergersi nella realtà fattuale, a entrare in risonanza empatica con molti altri, ad affrontare da persone consapevoli e responsabili l’epoca di crisi che stiamo sperimentando. Una crisi come quella della guerra in Ucraina che sembra non interessare nessuno, oppure come quella recessiva economica che in Italia colpisce milioni di persone e famiglie, ma non vede alcuna reazione sociale assimilabile a quelle che stanno avvenendo in Francia e Germania. Il risveglio fa riscoprire la pratica della cittadinanza e il ruolo degli individui, come cittadini nel determinare le proprie sorti e quelle comuni. La pratica della cittadinanza vale anche nei mondi online, permette di resistere alla dissacrazione quantitativa e algoritmica della vita umana, portata avanti da potentati tecnologici che ci isolano e ci trasformano in oggetti binari, da trattare come produttori di dati e come merci.
e se provassimo a risvegliarci dal sonno digitale, a immergersi nella realtà fattuale, a entrare in risonanza empatica con gli altri?
Le persone che adottano pratiche umaniste non lo fanno solo per resistere al dominio dei metaversi tecnologici, sanno di poterle usare per costruire legami, coltivare relazioni diverse da quelle dei social perché fondate sul mutuo appoggio e l’umana collaborazione, un capitale relazionale diverso dal capitale estrattivista e competitivo della cultura della Rete. Queste pratiche sono portatrici di nuovi valori quali la reciprocità, la fiducia, l’umiltà, la solidarietà e l’equità, ma anche un nuovo modo di vivere la memoria e il tempo, di recuperare la spiritualità perduta e il rapporto con la natura. Forti di questo carico valoriale il collasso già qui non dovrebbe più spaventare, ma essere strumento e veicolo di una maturazione necessaria per uscire dall’immaturità (infantilizzazione, “riduzione a un ruolo”, la chiamerebbe Francesco Varanini) che ci caratterizza tutti da anni, nell’avere delegato ad altri le sorti personali, quelle dell’umanità e del mondo intero.
Altri che hanno deciso di siliconizzare e digitalizzare il mondo ma le cui scelte non sono necessariamente accettabili nella loro inevitabilità. Per evitare il collasso bisogna investire sulla discontinuità, sulla possibilità, sull’intelligenza umana, sulla co-evoluzione, sulla collaborazione, sulle specificità umane. L’investimento non deve precludere forme di resistenza e di lotta. Le innovazioni tecnologiche sono qui per rimanere, l’intelligenza artificiale rappresenta un salto paradigmatico nell’evoluzione dell’Homo sapiens che con essa dovrà convivere da qui in avanti, con un cervello da essa mutato. La potenza di accelerazione delle nanotecnologie, delle biotecnologie, delle tecnologie dell’informazione e delle scienze cognitive ci ha portati tutti dentro il Tecnocene, che potrebbe essere l’ultima fase evolutiva dell’uomo sulla terra prima della singolarità delle macchine.
Per scoprire se e quanto saremo capaci di confrontarci con essa e per anticipare il collasso o la distopia che potrebbe rappresentare non rimane che intraprendere quella che Laurent Alexandre ha descritto in un suo libro come la guerra delle intelligenze. L’obiettivo non sono la sconfitta o la vittoria, che sempre caratterizza ogni guerra, ma la possibilità di intervenire correggendo le tendenze transumaniste della nostra fase storica di (neuro)capitalismo digitale, per evitare eventuali effetti domino, che potrebbero portare al collasso accelerato ecosistemi umani già oggi degradati e in sofferenza. Bisogna evitare scenari da tipping point, punti di non ritorno, capaci di provocare crisi e cambiamenti irreversibili. Vale per l’ambiente naturale, l’innalzamento della temperatura ma anche per gli ecosistemi biologici e umani, oggi sotto stress e degradati dalla loro informatizzazione e digitalizzazione accelerate.
Bisogna evitare scenari da tipping point, punti di non ritorno, capaci di provocare crisi e cambiamenti irreversibili.
Nel nostro rapporto con la natura forse abbiamo accumulato un ritardo tale da rendere vana ogni speranza di salvezza. Inutile affidarci alle tecnologie per compiere il miracolo a cui tutti aspiriamo, neppure per prevedere ciò che succederà. Sbagliato pensare che il collasso previsto da numerosi studiosi e scienziati, come gli autori già citati del libro Comment tout peut s’effondrer. Petit manuel de collapsologie à l’usage des générations présente, riguardi soltanto le generazioni future. Serve fin d’ora una presa di coscienza collettiva, il rifiuto di ogni discorso negazionista e individualista, la conoscenza su cosa significhi lo scioglimento del permafrost così come della innegabile potenza narrativa della tecnologia, che ci racconta di poter risolvere ogni problema e ogni crisi.
L’attesa passiva e rassegnata è vietata, la fuga nel Metaverso inutile, non ha senso aspettare che la politica si assuma le sue responsabilità, non ci si può limitare a elaborare in anticipo il lutto, bisogna fare luce dentro un annebbiamento intellettuale che sembra avere colpito moltitudini, bisogna reagire al negazionismo imperante e al masochismo con scelte e azioni concrete. Il futuro non è già scritto e non è necessariamente da Mad Max, ma per evitare futuri distopici o apocalittici serve ritrovare lo spirito che anima il Nostroverso, fatto di collaborazione e aiuto reciproco, che oggi coinvolge umani più o meno ibridati tecnologicamente e altri esseri umani sulla terra, quasi sempre esclusi dalla nostra visione antropocentrica del mondo.
per evitare futuri distopici o apocalittici serve ritrovare lo spirito che anima il Nostroverso
Note
[1] Amitav Ghosh, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, tradotto da Anna Nadotti e Norman Gobetti, Neri Pozza, Vicenza 2019
[2] Il termine di capitalismo cannibale è della filosofa americana Nancy Fraser che ha raccontato un sistema economico, politico e sociale a cui dobbiamo la crisi attuale.
[3] Cyril Dion, Petit manuel de resistance contemporaine. Recits et strategies pour transformer le monde, Actes Sud, Paris, 2018