Seduto sul muretto che circondava la terrazza della sala da ballo, appoggiava il dorso a un pilastro. Sentiva sotto le cosce le maioliche umide, l’intonaco grezzo grattava un poco la schiena attraverso la giacca di lino scuro. Lo sfiorava il pensiero che la calce del muro potesse rovinare l’abito elegante, l’unico rimasto pulito per le ultime serate della stagione.
Cinquanta metri più sotto, la risacca della notte limava pazientemente la spiaggia con un sommesso scroscio di sassolini. All’orizzonte le luci dell’ultimo traghetto che lasciava l’isola si confondevano con le lampare che uscivano a pesca di totani.
Era solo. Passata la mezzanotte, si erano salutati a bassa voce gli ospiti dell’albergo, comitive di anziani stranieri venuti a godere gli ultimi tepori dell’estate mediterranea. Il pianista aveva chiuso con cura il coperchio del piano a coda, smuovendo un’ultima vibrazione nell’aria ferma.
Lui teneva ancora sulle ginocchia la chitarra: la melodia dell’ultimo valzer che avevano suonato si era impigliata tra le corde che sfiorava con le dita. Si guardò le unghie curate, la pelle delle mani lucida e coperta di chiazze marroni, le nocche appena deformate da un principio di artrite. Non gli impedivano di suonare con leggerezza. Non ancora.
Sotto la terrazza, sul primo gomito del vialetto che serpeggiava verso le spiagge, il gatto del cuoco rovistava tra i bidoni fiutando gli scarti della cucina. Era un grosso maschio color mattone, sempre all’erta; ad ogni suo movimento gli piantava addosso due occhi fosforescenti carichi di silenziosa tensione.
Quella mattina era andato ad aspettarla all’imbarcadero , in mezzo alla confusione dei turisti, scavalcando gli zainetti degli scolari in gita ,scansando coppie di pensionati in vacanza tutto compreso. Tra tante teste grigie, la sua. Esitava all’estremità del molo, aggrappata al manico del trolley: con una sola occhiata lui aveva notato quanto fosse fragile e stanca, e si era chiesto, con vago disagio, se dietro ai suoi occhi di anziana signora passasse lo stesso pensiero. Se anche lei stesse valutando con amarezza la sua testa grigia.
“ Ciao. Quanto tempo”
- “Già, è quasi un anno; sono stata impegnata, sai, i nipoti”
- “Stai bene?”-
-“Per ora si. E tu?”
- Anch’io. Certo. Per ora. Stasera suono. Dammi la valigia, vieni.”
-“Come vuoi, ma è un bagaglio leggero”
“Non rimani stasera?”
Cercò nello sguardo di lei la complicità di un tempo; invece vide passare un velo di tenerezza.
Lei si avviò con un sospiro, fece cenno di no. Due passi, ed ebbe bisogno di fermarsi per respirare. Lui chiamò un taxi, e la aiutò a salire.
Anche il gatto era diverso (quanti anni prima?). Allora c’era stata una gatta bianca e nera, col muso scavato e l’addome gonfio di gattini. Rovistava anche lei tra i rifiuti davanti alla cucina. Il vialetto non c’era ancora e per scendere in spiaggia bisognava scarpinare attraverso i ginepri della macchia. Quella domenica di luglio tirava scirocco. Tra i due promontori che chiudevano la baia un sipario di caligine pendeva dalle nuvole basse, una striscia di sole brillava sull’acciaio delle onde.
Lei era arrivata con una compagnia di ragazze in fuga dai riti della domenica in famiglia. Si erano accomodate a un tavolo vista mare. Le amiche ostentavano cosce generose in minigonne di pelle, scollature profonde sui seni strizzati nelle camicette di terital. Avevano chiesto le cozze alla marinara e una bottiglia di bianco, ed erano rimaste a lungo a succhiare le valve lucide con le punte delle dita rosse di sugo, in un tintinnare di bracciali e orecchini. Lei era diversa: esile e bionda, portava una gonna al ginocchio e una camicetta a fiori chiusa al collo da una lucertolina di pietre verdi. Quando le amiche si erano allontanate, era rimasta a lungo a guardare il mare, con i gomiti sulle piastrelle blu del muretto.
Lui l’aveva avvicinata con la solita scusa del tempo :“ Che caldo, oggi, vero signorina?”-
-“Già, e che scuro. Non si vede nemmeno la costa, potremmo essere soli, in mezzo al mare”-
Silenzio.
Le Marlboro morbide, altra risorsa scontata: “Fuma?”
-“No, grazie”.
Silenzio. Non restava che prendere la chitarra; appoggiò un piede ad una sedia, sollevò il ginocchio, accennò un accordo.
-“ Lei suona?”
-“Certo, nell’orchestrina. Stasera si balla: potreste rimanere, vedrà, il vento cambia, sarà una serata limpida.”
-“Devo rientrare con le mie amiche, mi spiace, mi aspettano a casa.”
“Peccato”-
Quella sera però, smentendo la sua delusione, lei non era rientrata: aveva chiesto una camera, e spedito via le amiche con una scusa. Quelle l’avevano salutata con un sorriso complice, sventolando borse cariche di souvenir. Si erano imbarcate ridendo e bisbigliando fitto dietro il palmo delle mani cariche di anellini.
Aveva cenato da sola al tavolo, godendosi la musica e lo sguardo ardente di lui. Finite le danze, dopo che gli ospiti si erano ritirati, il suo amico pianista aveva messo la sordina ai tasti, e suonato un valzer lento solo per loro due, stretti sulle piastrelle in uno spicchio di luna.
Il taxi li aveva lasciati davanti all’ingresso, il portiere aveva aperto lo sportello con annoiata deferenza. Lui l’aveva aiutata a scendere, e accompagnata in camera.
-“Riposati. Scendo ad accordare gli strumenti: ci vediamo a cena.”- Aveva chiuso la porta in fretta, perché non sbattesse alla brezza che gonfiava le tende del balconcino.
Prima dell’ora di cena, lei era comparsa alla porta dell’ascensore. Si era seduta al ristorante, aveva chiesto pesce bollito e del riso. Lui l’aveva raggiunta, e avevano diviso il piatto che lei non riusciva a finire.
“E’ la malattia, sai. Mi ha lasciata in pace per un po’ di anni, ma ora ritorna. Gli esami sono un disastro. Temo che questa volta non mi lascerà scampo”.
La prima sera che erano stati insieme, tanti anni prima, al tavolo del ristorante lui le aveva preso la mano: con disinvoltura , le aveva infilato un anellino d’oro, con un corallo rosa.
C’erano state molte altre sere. Molti incontri, negli alberghi dell’Isola. Lui aveva continuato a suonare, di stagione in stagione. Lei in città si era cucita una quotidianità rassicurante, casa, bambini, un marito che non amava.
Prima i piccoli da allevare, poi i genitori anziani da accudire. Ma non avevano mai smesso di vedersi. Bravissima a inventare ogni volta una scusa nuova, lei lo aveva raggiunto ovunque. E la discrezione impersonale delle camere d’albergo riaccendeva ogni volta la fiamma del desiderio.
“ Sono venuta per salutarti, non credo che riusciremo a vederci ancora”.
Lui le prese ancora la mano, sulle labbra una promessa di vicinanza.
-“No, non voglio. Tu hai il lavoro, io una famiglia che non ha mai saputo di noi. Non voglio turbarli adesso. Si prenderanno cura di me. Stasera ci salutiamo”.
Lei volle allungare le dita per una carezza; nel lasciarle la mano lui si trovò nel palmo l’anellino di corallo.
-Eh no, non penserai di riprendertelo ora!” Con rapido gesto lei raccolse l’anello e lo infilò di nuovo con un’ombra di civetteria. Sorrise.
- “Mi sta un po’ largo, già”-
-“Ci sentiremo ancora?”
-“Al cellulare. Finché potrò”.
Il traghetto era scomparso all’orizzonte. Uscì sul vialetto. Il battito lento della risacca arrivava attutito, coperto da uno scroscio di acqua corrente. Noel, il portiere di notte filippino, annaffiava con un tubo di gomma i vasi di agrumi all’ingresso. Lui accese una sigaretta, aspirò il fumo e l’aroma dei fiori d’arancio.
-“Mario, ho visto che signora è partita. Non avete mica litigato. Tanti anni vi conosco, ma questa è prima volta!”
-No, Noel, non abbiamo litigato. La signora ha problemi familiari”
“ Non grave, spero”
Tirò una boccata, lasciò fluire il fumo.
Sentì la sua voce che diceva” Nulla di grave, Noel, nulla di grave”.
( più che Tom Waits, sembra Jacques Brel de “ La canzone dei vecchi amanti”. La storia accenna velatamente ad una vicenda realmente accaduta… Prendetela così com’è, in fondo anche Tom Waits canta la tristezza dell’abbandono).