Non scrivo per esprimere ciò che già so. Se lo facessi, non avrei nulla di nuovo da dire alla fine della prima frase, e la frase rimarrebbe trascinata con la coda dietro di sé come un cane che non ha un posto dove andare. La scrittura, per me, inizia in uno stato di errore produttivo, meno rivelazione che armeggiare, una sorta di strizzare gli occhi intellettuali in direzione di qualcosa che non è ancora visibile, figuriamoci nominabile. La chiarezza inizia sempre con un vago disturbo, magari una frase che supera il bersaglio o una metafora che si rivela un po' troppo soddisfatta di se stessa. Questo è più che un draft. Questi primi passi falsi sono il modo in cui la prosa inizia a pensare: barcollando in avanti, correggendosi man mano che procede, raccogliendo significato come sbavature su un cappotto di lana. È nell'incapacità della frase di contenere le proprie intenzioni che appare per la prima volta qualcosa che assomiglia al pensiero. Vale a dire: dialettica nel registro inferiore.
Al giorno d'oggi, questa dialettica deve procedere in mezzo al basso ronzio e alla pressione atmosferica del linguaggio generativo, dove le frasi arrivano già metabolizzate in una sorta di approssimazione dolce, e ciò che una volta sembrava familiarità ora si registra come una sorta di acufene semantico: l'eco debole e ricorsiva dell'intenzione senza la sua densità. Per me, lo stile, in queste condizioni, è diventato meno un veicolo di espressione che una manovra difensiva: una serie di tic esagerati e svolazzi sintattici (come quelli che vedete qui) progettati non solo per distinguersi, ma per rimanere leggibili come pensiero in mezzo al ronzio della fluidità del non-pensiero.
Ho scoperto, un po' involontariamente, che la mia prosa ha cominciato a trasformarsi in una sorta di coreografia eccessiva, come se ogni paragrafo dovesse gesticolare due volte prima di essere creduto. Mentre una volta rivedevo l'ornamentale, ora mi ritrovo ad aggiungerlo di nuovo come una firma falsa, il passante di una "g" esagerato quel tanto che basta per suggerire che qualcuno ha ancora una mano sulla penna.
Il saggio linkato di seguito non è tanto una critica all'intelligenza artificiale quanto una lunga ripetizione di ciò che significa scrivere in seguito, dopo che la fluidità stilistica è stata disaccoppiata dalla difficoltà dialettica, e il lavoro del pensiero inizia ad assomigliare così da vicino alla sua imitazione che ora ci si deve appoggiare alla difficoltà, flettendo e spingendo il gioco retorico per rimanere percepibile. Riprendo, tra le altre cose, l'inerzia peculiare della prosa generativa: come simula il movimento dialettico in antitesi stilizzata – "non questo, ma quello" – e come, così facendo, rivela per negazione ciò che rende possibile la scrittura – almeno quella che zoppica verso il pensiero – in primo luogo.
Non offro risoluzioni, solo un'indagine performativa su ciò che accade quando la scrittura perde peso nella levigatezza della coerenza superficiale, e lo riacquista – se non del tutto – sotto la lenta pressione della difficoltà, dell'esitazione e della dissonanza dialettica che il pensiero lascia dietro di sé.
English original version
Writing, Not This Way, But That Way: Writing against AI's Syntactic Simulations of Dialectical Movement
I don’t write to express what I already know. If I did, I’d have nothing new to say by the end of the first clause, and the sentence would be left dragging its tail behind it like a dog with nowhere to go. Writing, for me, begins in a state of productive error—less revelation than fumbling, a kind of intellectual squinting in the direction of something not yet visible, let alone nameable. Clarify always begins with a vague disturbance, maybe a phrase that overshoots its target or a metaphor that turns out to be a little too pleased with itself. This is more than drafting. This early missteps are how prose begins to think—staggering forward, correcting itself as it goes, picking up meaning like burrs on a wool coat. It is in the failure of the sentence to contain its own intentions that something resembling thought first appears. Which is to say: dialectics in the lower register.
These days, this dialectic must proceed amid the low hum and atmospheric pressure of generative language—where sentences arrive already metabolized into a kind of smooth approximation, and what once felt like familiarity now registers as a kind of semantic tinnitus: the faint, recursive echo of intention without its density. For me, style, under these conditions has become less a vehicle for expression than a defensive maneuver—a series of exaggerated tics and syntactic flourishes (like those you see here) designed not merely to stand out but to remain legible as thought amid the hum of non-thinking fluency.
I have discovered, somewhat involuntarily, that my own prose has begun to morph into a kind of excessive choreography, as if each paragraph had to gesture twice before being believed. Where once I revised out the ornamental, I now find myself adding it back in like a forged signature, the loop of a ‘g’ exaggerated just enough to suggest that someone still has a hand on the pen.
The essay linked below is less a critique of artificial intelligence than a long rehearsal of what it means to write in its aftermath—after stylistic fluency has been decoupled from dialectical difficulty, and the work of thinking begins to resemble its imitation so closely that one must now lean into difficulty, flexing and plexing rhetorical play to remain perceptible. I take up, among other things, the peculiar inertia of generative prose: how it simulates dialectical motion in stylized antithesis—"not this, but that"–and how, in doing so, it reveals by negation what makes writing—at least the sort that limps toward thought—possible in the first place.
I offer no resolutions, only a performative inquiry into what happens when writing loses weight in the smoothness of surface coherence, and gains it back—if at all—under the slow pressure of difficulty, hesitation, and the dialectical dissonance that thinking leaves behind.