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Nel 1952, il matematico e ingegnere francese Louis Couffignal pubblicò un volume di dimensioni modeste ma dal titolo provocatorio: Les machines à penser. Un'espressione che, a distanza di oltre settant'anni, continua a interrogarci con rinnovata urgenza. Viviamo immersi in dispositivi che definiamo "intelligenti", eppure raramente ci soffermiamo a riflettere sul significato profondo del "pensare", né su quali aspetti di questa facoltà una macchina possa effettivamente replicare – o simulare.


La questione posta da Couffignal rimane sostanzialmente aperta. Non perché manchino risposte tecniche, ma perché manca spesso il contesto epistemologico necessario a formularle correttamente. Il contributo di Couffignal non si inserisce nella tradizione della computer science angloamericana, bensì in una genealogia propriamente continentale, dove la cibernetica non si riduce a pura computazione, ma si configura come riflessione filosofica, cautela metodologica e assunzione di responsabilità politica.

A differenza di Norbert Wiener – padre riconosciuto della cibernetica moderna e autore nel 1948 di Cybernetics: or Control and Communication in the Animal and the Machine – Couffignal non mira a costruire un linguaggio universale per il controllo dei sistemi. Non condivide neppure l'ottimismo programmatico di John von Neumann, per il quale la macchina logica rappresentava una naturale estensione dell'intelligenza umana. Couffignal si muove su un terreno epistemologicamente più accidentato: quello del pensiero come processo non interamente formalizzabile, come esperienza radicata in un contesto. Per lui, la macchina non sostituisce l'essere umano, ma funziona come uno specchio deformante che ci obbliga a interrogarci sulla natura stessa del pensiero.

Il volume Les machines à penser è rimasto ai margini del dibattito internazionale, anche per la sua matrice culturale ostinatamente francese. Scritto in una prosa tecnica ma pervasa di prudenza epistemica, privo dell'enfasi tipica della divulgazione anglosassone, non è diventato un manifesto. Proprio per questo, tuttavia, conserva un valore particolare. In un passaggio che merita di essere citato testualmente, Couffignal osserva che una macchina è uno instrument mental, ma non un être pensant. E insiste sul fatto che ogni automa viene costruito secondo finalità umane: il pensiero, in quanto tale, non è integralmente imitabile.

Couffignal sostiene che il calcolo automatico costituisce una forma di riduzione della complessità, ma non è mai neutro. Ogni macchina "pensa" nei limiti che le sue condizioni di progettazione le consentono. Questa sola affermazione è sufficiente a mettere in discussione gran parte del discorso contemporaneo sull'intelligenza artificiale, che oscilla ancora tra illusioni di neutralità e promesse di oggettività algoritmica.

Oggi si discute di intelligenza artificiale come se fosse una tecnologia tra le altre. Couffignal aveva però già intuito che non si tratta soltanto di strumenti, bensì di strutture cognitive rese operative: la macchina non è mai neutra perché riflette una visione del mondo, un'idea di ordine, una gerarchia implicita di valori. Questo valeva per i primi calcolatori analogici e digitali, ma vale ancor di più per i sistemi generativi attuali, che operano su modelli linguistici di grandi dimensioni e assumono – implicitamente – che il linguaggio possa essere trattato come calcolo e la conoscenza come correlazione statistica.

Nel rileggere Les machines à penser, emerge il bisogno di recuperare una forma di cibernetica che non si limiti a gestire segnali, ma si interroghi sul significato. Questo era, del resto, anche il progetto di Abraham Moles, figura anch'essa rimasta ai margini della tradizione dominante, che già negli anni Sessanta elaborava un'estetica dell'informazione, anticipando molte delle domande che oggi poniamo ai sistemi generativi. E questa era la direzione – più biologica che ingegneristica – in cui si muovevano Henri Atlan e Francisco Varela, quando elaboravano i concetti di auto-organizzazione, autopoiesi e complessità sistemica.

La riflessione che qui presento ha una genesi particolare. Per anni ho preso l'abitudine di scrivere quotidianamente, ovunque mi trovassi: sui treni, negli aeroporti, durante le attese. Centinaia di quaderni della Pigna, alcuni dei quali perduti nei traslochi, altri ancora conservati nella mia biblioteca. Questo articolo nasce proprio dalla rilettura di alcune di quelle pagine.

Viaggiavo frequentemente dalla Sicilia a Milano, per lavorare poche ore da una connessione remota, seduto in una postazione anonima all'interno di un edificio che ambiva, senza riuscirvi, a somigliare ai grattacieli londinesi, nella periferia del quartiere Lorenteggio. Avrei potuto svolgere il medesimo lavoro – con maggiore efficacia – da casa. Ma le grandi società di consulenza, ancora ancorate a un'idea di controllo fisico della forza lavoro, imponevano la presenza. Il risultato era un pendolarismo economicamente insostenibile e intellettualmente frustrante. Un compenso minimo, in pratica una "ciotola di riso", per alimentare un'architettura clientelare mascherata da efficienza manageriale. Un teatro post-industriale in cui il corpo doveva occupare lo spazio prescritto, indipendentemente dal senso dell'operazione.

Eppure, proprio in quegli interstizi – tra la partenza e l'arrivo, tra il codice informatico e la pagina scritta – prendeva forma una riflessione che oggi ritengo doveroso condividere. La cibernetica di Couffignal non è affatto un reperto da museo. È un invito a pensare insieme alle macchine, ma non come le macchine. A riconoscere che la nostra intelligenza non si esaurisce nella performance logica, e che il pensiero umano resta, per fortuna, imperfetto, situato, contraddittorio.

Questo tipo di consapevolezza epistemologica è ciò che manca a buona parte del dibattito pubblico odierno sull'intelligenza artificiale. Non servono previsioni più sofisticate, né modelli computazionali più performanti. Serve, piuttosto, un ritorno alla domanda fondamentale: che cosa stiamo delegando, quando deleghiamo alle macchine il compito di decidere, interpretare, valutare? Couffignal, senza enfasi né allarmismi, aveva già posto questa domanda. La sua "macchina pensante" non è un soggetto autonomo, ma una metafora instabile, un dispositivo critico.

Chi ha avuto modo di consultare Les machines à penser lo sa: è un testo di difficile reperibilità, spesso trascurato nei curricoli accademici, ma fondamentale per comprendere le radici europee di quella che oggi chiamiamo "intelligenza artificiale". Non tanto per ciò che afferma in termini di contenuti tecnici, quanto per il metodo con cui lo afferma: con misura, con dubbio metodico, con responsabilità intellettuale. Couffignal non è stato un visionario né un profeta, ma un pensatore rigoroso del suo tempo. E proprio per questo rappresenta un interlocutore prezioso per il nostro.

Rileggere oggi quel testo significa compiere una scelta controcorrente: privilegiare la profondità rispetto alla prestazione, la cautela epistemica rispetto all'entusiasmo acritico, il rigore metodologico rispetto alla moda intellettuale.


Bibliografia

Couffignal, Louis. Les machines à penser. Paris: Éditions de Minuit. Il volumepubblicato nel 1952 dalle Éditions de Minuit, non dispone di un codice ISBN, poiché questo sistema di identificazione internazionale è stato adottato solo a partire dal 1970. Per una consultazione accurata, si consiglia di fare riferimento alle collezioni specializzate delle biblioteche universitarie francesi o ai cataloghi antiquari specializzati in storia della cibernetica.

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Pubblicato il 15 agosto 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / etiam capillus unus habet umbram suam