Mi capita spesso di scrivere che la Internet libera, democratica e comunitaria di un tempo non esiste più (VERO!).
Oggi voglio aggiungere a questo mio “refrain” l’idea che Internet ha smesso anche di essere un media, ha perso la sua autorevolezza e reputazione, cedendo il controllo ad algoritmi, piattaforme e IA proprietarie che si sono impossessate e controllano dati e informazioni (altro che trasparenza), cosa mostrare e cosa non mostrare, in pratica riconfigurano tutto per finalità spesso oscure, mai trasparenti, e impossibili da conoscere per i più.
Da spazio di libertà e realtà vivibile come comunità, Internet si è trasformata in uno pseudo ambiente, artificiale e popolato da innumerevoli falsi profili e tanto data trash, di avatar dal linguaggio violento e brutale, di (fake) news non news, di spazi costruiti ad arte per soddisfare motori di ricerca e oggi IA voraci ritenute arbitrariamente intelligenti, per produrre contenuti generatori di click e semplici inutili interazioni, per catturare l’attenzione degli utenti sfruttando trappole emotive ed emozioni prodotte in modo artificiale (basti pensare ai dati sintetici generati per le IA), per manipolare e colonizzare l’immaginario di chi, grazie alle connessioni globali di Internet, abita gli spazi della rete.
Gli spazi fisici e digitali di Internet sono diventati semplici contenitori di dati e informazioni predisposti e/o inconsapevolmente prodotti e alimentati da chi frequenta li frequenta
Gli spazi fisici e digitali di Internet (depositati nei Cloud di Microfost, Amazon e Google – 70% di quelli esistenti e oggi operativi - che compongono la sua infrastruttura) sono diventati semplici contenitori di dati e informazioni predisposti e/o inconsapevolmente prodotti e alimentati da chi frequenta Internet. Dati e informazioni che vengono bulimicamente saccheggiati per alimentare le narrazioni dominanti e i consumi, per rappresentare l’immaginario di moltitudini di persone che il loro immaginario e la loro immaginazione hanno ormai regalato alle IA generative.
Internet ha perso la sua identità originaria, è diventato uno spazio abitato da luoghi non-luoghi
Internet ha perso la sua identità originaria, è un insieme di spazi pieni di contenuti ma non di senso, di luoghi diventati sempre più non luoghi (concetto introdotto da Marc Augè), spazi di transito, puro consumo e comunicazione, ma ormai incapaci di creare identità relazionali e relazioni.
Come in un centro commerciale, anche su Internet siamo in mezzo alla folla ma fondamentalmente soli, siamo insieme ma isolati (Sherry Turkle), abbiamo reti di contatti di migliaia di persone ma siamo soli e malati di solitudine. Essere su Internet oggi è come essere dovunque e da nessuna parte, non c’è convivialità e comunità, non c’è radicamento o memoria collettiva, non c’è socialità, ma solo consumo, interazione transitoria e veloce, di passaggio, tramite interfacce che mediano e filtrano qualsiasi forma di incontro, dialogo e condivisione di esperienze.
Molti sono convinti di poter usare le piattaforme social per crearsi una loro identità, visibilità sociale e reputazione, in realtà ormai su Internet si vive una crescente assenza di radicamento identitario. L’identità rimane un’entità instabile, artefatta, diversa da quella nella vita offlife. Si traduce raramente in una identità collettiva, perché in rete si è social ma non “sociali”, le relazioni nascono da interazioni causali ma difficilmente si consolidano in legami duraturi, con altri o con i “territori” (spazi) virtuali frequentati. Online l’identità associata a un profilo digitale non si consolida in stabilità, è sempre fluida, multiple, spesso fittizia se non inventata, sicuramente lontana e diversa da quella che ci si porta appresso e si costruisce in luoghi antropologici che permettono all’identità, alle relazioni, alla memoria e alla storia di intrecciarsi stabilmente.
A generare il diffuso malessere e l’incertezza di molte persone sono sicuramente le condizioni materiali e il disagio da loro sperimentato nella loro vita quotidiana, fatta in molti casi di povertà, disuguaglianze, precarietà, difficoltà esistenziale del vivere. L’Internet delle piattaforme ha ampliato questo malessere perché inganna le persone nel loro sentirsi parte di una collettività, di una comunità, di una massa che in realtà non esistono. Si è sempre più soli nella folla, perché la connessione, attraverso lo schermo di un dispositivo o di una interfaccia applicativa e algoritmica, è una connessione tecnologica, computazionale, non necessariamente (le eccezioni ci sono) umana. Ne deriva il paradosso che molti sperimentano sulla propria pelle: si hanno reti di contatti innumerevoli ma è come non averli.
Sposando la logica funzionale e utilitaristica indotta dalle piattaforme digitali, Internet è diventata un semplice spazio di transito e di consumo. L’approccio binario ormai introiettato dai più impedisce la lentezza che sempre aiuta la riflessione, il pensiero critico, la razionalità. A prevalere, aiutata in questo dalle logiche del software e alla “Intelligenza” degli algoritmi, sono la velocità con cui si scorre un testo o si sta dentro flussi (feed) di testi abilmente costruiti e gestiti, si legge superficialmente un messaggio, si accetta passivamente una promozione pubblicitaria, si salta da un sito a un altro (con le IA sarà una pratica meno di moda), da una App a un’altra, da un video all’altro, ecc. Non ci si ferma mai, è vietato sostare, si è in perpetuo transitare.
Transitare, correre, non rallentare mai è diventato una abitudine che descrive bene le nostre attività onlife. Questa abitudine, praticata in luoghi sempre più standardizzati, intercambiabili, uguali a sé stessi, è una causa e una conseguenza della difficoltà a coltivare la memoria.
Si vive dentro un presentismo continuo, un presente futuro che ha cancellato il passato, la storia, la memoria, ma anche l’immaginario. Tutto viene percepito e vissuto come effimero, volatile, frammentato, privato di quella continuità che crea significato, senso e appartenenza. L’effetto è l’assenza di storia e di memoria collettiva, sociale.
La diffusione delle Intelligenze Artificiali, determinata dall’accelerazione indotta dalle IA generative, ha accelerato anche la trasformazione di Internet.
La diffusione delle Intelligenze Artificiali, determinata dall’accelerazione indotta dalle IA generative, ha accelerato anche la trasformazione di Internet. I motori di ricerca che lo hanno caratterizzato sono ormai morti, da ripensare sono i modelli e le logiche di business che li facevano funzionare. Morti sono anche i siti web che agli occhi delle IA sono diventati semplici contenitori di dati, informazioni e conoscenze da saccheggiare e sempre meno destinazioni da suggerire e segnalare. Suggerimenti e segnalazioni che comunque verrebbero oggi ignorate da moltitudine di persone alla ricerca di semplici risposte e soluzioni dalle loro interazioni con le IA.
Resistere alla trasformazione in atto, che spinge verso una accelerata standardizzazione della vita dell’umano dentro pseudo-spazi artificiali e colonizzati, non è facile. Non lo è perché forse l’unica forma di resistenza vera comporterebbe la fuga, l’abbandono dei non-luoghi virtuali e digitali, il ritorno dentro il tessuto emozionale che sempre caratterizza gli spazi e le comunità degli umani, i loro affetti, i loro corpi a cui è legata buona parte del loro comunicare, le relazioni di prossimità e incarnate, fatte di sguardi e di volti, di carezze e di sorrisi, di coinvolgimenti e motivi e di compassione, di relazioni orizzontali.
La fuga come soluzione è certamente possibile, può essere frutto di una scelta, ma quanti oggi sono disposti a correre il rischio di scappare? Quanti, alienati, ibridati e colonizzati cognitivamente dalle tecnologie che utilizzano, hanno la forza di predisporre ciò che serve per tentare di uscire dal labirinto nel quale si sentono imprigionati?
La soluzione forse si potrebbe trovare in una fuga collettiva, solidale, consapevole dei rischi e della sua finalità, anche politica, di costruzione di un immaginario diverso, più umano, diverso, plurale, solidale.
Ma anche questo appare come una grande, forse inutile, Utopia!