“ Urshanabi, questa è la pianta dell’irrequietezza: grazie a essa l’uomo ottiene la vita” - L’epopea di Gilgamesh
Ci sono film che sognano un'epoca. No, non si tratta di un refuso, la scelta di giocare liberamente con le parole credo sia una buona strategia quando siamo chiamati a esplorare territori in larga parte ancora sconosciuti. Il film in questione è Fino alla fine del mondo di Wim Wenders (1991). Chi ha visto, dello stesso autore, il recente Perfect days, opera minimalista scandita dai semplici gesti del protagonista – un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo - potrebbe restare scioccato dalla monumentale pellicola del 1991. La critica e larga parte del pubblico lo considerarono un flop, troppe storie e contenuti per un unico film, che a seconda delle versioni durava da 158 a 288 minuti. Deluse anche molte delle mie aspettative, eppure, ne rimasi affascinato. La forza espressiva e visionaria di quelle immagini fanta-tecnologiche, che descrivevano un futuro allora inconcepibile, ma che oggi ci avvolge e ci scuote, lasciò un segno indelebile nella mia memoria. Ritorniamo dunque a quel 1991 e proviamo a ricostruire il lento, e ahimè troppo spesso inconsapevole, modificarsi dei nostri comportamenti sotto la spinta della rivoluzione digitale.
I primi modelli di telefono mobile diffusi in quegli anni, e mostrati con un certo orgoglio dai loro proprietari, erano semplicemente dei telefoni, oggi non è scontato ricordarlo. La modifica principale era quindi la possibilità di telefonare ovunque, e questo era esattamente ciò che destava sorpresa quando ci si imbatteva in questo nuovo, e ancora raro, comportamento. Da lì a poco la diffusione fu molto rapida, con l’arrivo delle reti GSM e l’abbassamento dei costi il “telefonino” cominciò a diventare un oggetto di uso comune. Continuava, tuttavia, a restare prevalentemente un telefono, solo lentamente, con l’avvento degli sms e poi con apparecchi capaci di inviare e ricevere e-mail, iniziò ad assomigliare a un piccolo ufficio portatile: un “device” (parola che cominciava a prendere piede) che, per tipologia e tempo di utilizzo, non aveva più nulla in comune con il telefono tradizionale. Piccola nota a margine, ma significativa nell’analisi del comportamento sociale: oramai bastava accostare il cellulare all’orecchio, o meglio indossare un paio di cuffiette, e parlare da soli a voce alta in uno spazio pubblico senza passare per matti.
La successiva innovazione introdotta nella telefonia mobile, che merita una riflessione sul piano dei comportamenti sociali, è sicuramente la fotocamera integrata. Macchine fotografiche digitali esistevano già da qualche anno, ma l’inserimento di questo dispositivo all’interno di un oggetto che veniva a questo punto “indossato” come un qualsiasi altro capo di abbigliamento, ne fece esplodere l’utilizzo. La funzione sociale della fotografia a partire da allora è radicalmente cambiata, e il fenomeno che ci aiuta a comprendere meglio tale mutamento è la diffusione del selfie: lo “specchio di Narciso” del nostro tempo. Come vedremo, questo predominio delle immagini ci ricondurrà al genio visionario di Wenders.
Ma la più profonda trasformazione dell’era digitale avviene con l’arrivo degli smartphone. L’impatto commerciale dell’iPhone Apple (2007) viene ricordato da molti come l’inizio di questo periodo, in ogni caso è importante comprendere l’essenza di questa rivoluzione, ben sintetizzata dal neologismo “onlife” creato dal filosofo Luciano Floridi. Semplicemente era finito il tempo in cui per connettersi a internet dovevamo interrompere le nostre azioni quotidiane, sederci davanti a un monitor e, ascoltando il gracidare di un modem, attendere l’agognata connessione. In quel tipo di esperienza vi era ancora una netta cesura tra l’antica vita analogica e la connessione alla dimensione digitale. Oggi tutto questo è solo un ricordo, con lo smartphone in tasca, un dispositivo al polso o inserito nelle lenti dei nostri occhiali, vita reale e virtuale si fondono e si confondono, diventando un unico spazio mentale.
Torniamo quindi al film di Wenders. Uno spettatore casuale, all’oscuro della trama e dell’anno di produzione della pellicola, noterebbe, senza provare particolare meraviglia, alcuni dei protagonisti utilizzare piccoli tablet, poco più grandi degli odierni smartphone, e indossare visori per la realtà virtuale. Ma siamo nel 1991 e nessuno di questi strumenti era ancora disponibile. L’aspetto più interessante, tuttavia, non riguarda la straordinaria fantasia anticipatrice di tecnologie future da parte di Wenders o dei suoi consulenti, ma l’impressionante descrizione della pericolosa dipendenza che quegli strumenti avevano generato. Si trattava di visori particolari, in grado di connetterli con il loro mondo interiore: immagini che appartenevano a ricordi inconsci e ai loro sogni. Osservare la propria “anima” divenne per loro un’ossessione morbosa e totalizzante: “vagavano per mondi perduti, emozioni e immagini collimavano con un passato dimenticato. I sogni divennero buchi neri di isolamento. I compagni di viaggio, degli estranei. Alla fine, persero del tutto il contatto con la realtà”.
Può la fantasia di un autore visionario renderci più consapevoli del nostro destino? Non in modo diretto e immediato, credo. Dovremmo attingere alla fantascienza e alle distopie con lo stesso spirito che ci ha fatto conoscere gli antichi miti. Il loro valore non è informativo, sono narrazioni polisemiche capaci di parlare a umanità diverse, al cuore di un adulto come a quello di un bambino. Sotto questa luce la forza evocativa di quelle immagini ci parla di come una certa tecnologia possa minacciare valori umani fondamentali. Oggi non mancano esempi capaci di destare preoccupazione in questo senso. Lo smartphone è diventato un oggetto a cui nessuno sembra più disposto a rinunciare, e se in alcuni casi è possibile parlare di vera e propria dipendenza, accompagnata da crisi di astinenza in caso di privazione, sono molti ad affermare che si sentirebbero meno sicuri al di fuori delle mura domestiche in assenza di questo fedele compagno. E così, con questa prima grande trasformazione, si è in larga parte dissolto un patto sociale di antichissima data, perché quanto oggi noi affidiamo alla guida e alle risposte di questi dispositivi, prima della loro comparsa, erano eventi che generavano relazioni umane, occasioni di incontro. Una visione sempre più performativa e prosaica della nostra esistenza ha accolto molto favorevolmente il fenomeno della disintermediazione legato a questi strumenti, per gli innegabili vantaggi pratici e concreti sulle nostre vite. Più debole, a mio avviso, la riflessione sugli effetti psicologici e sociali: la facile illusione di un potere reale e diretto di ogni singolo individuo, che nel nostro paese ha contaminato anche l’esperienza politica attraverso la breve e movimentata stagione della “democrazia diretta”, proposta e sperimentata dal Movimento 5 Stelle.
Il grande mutamento
Ci sono due modi per spegnere lo spirito di una civiltà, afferma Neil Postman alla fine del suo Divertirsi da morire, quello di George Orwell (1984), in cui la cultura si trasforma in una prigione, e quello di Aldous Huxley (Il mondo nuovo), dove diviene una farsa. E così continua:
“Quello che Huxley insegna è che, nell'era della tecnologia avanzata, la devastazione spirituale viene più probabilmente da un nemico col sorriso sulle labbra che da uno il cui comportamento ispira sospetto e odio. Nella profezia di Huxley, non c'è un Grande Fratello che, per sua scelta, guarda verso di noi. Siamo noi, per nostra scelta, a guardare verso di lui. Non c'è bisogno di carcerieri, cancelli, ministeri della Verità. Quando una popolazione è distratta da cose superficiali, quando la vita culturale è diventata un eterno circo di divertimenti, quando ogni serio discorso pubblico si trasforma in un balbettio infantile, quando, in breve, un intero popolo si trasforma in spettatore e ogni affare pubblico in vaudeville, allora la nazione è in pericolo; la morte della cultura è chiaramente una possibilità. In America, le profezie di Orwell hanno scarsa rilevanza, ma quelle di Huxley sono sul punto di realizzarsi.”
Questo scriveva Postman nel 1985. Chissà cosa penserebbe oggi (Postman è morto nel 2003) alla luce della più recente evoluzione tecnologica e nel pieno del secondo mandato trumpiano. Forse converrebbe con noi sul fatto che le visioni alla Orwell stiano riprendendo piede. In ogni caso, nel continuo oscillare tra queste due strategie di potere, dobbiamo prendere atto che gli sviluppi della rivoluzione digitale si sono di molto allontanati, o meglio hanno completamente tradito quel sogno libertario e democratico che aveva accompagnato, in un ambiente colto e accademico, la nascita del Web.
Autori come Wenders e Postman hanno raccontato, attraverso forme e linguaggi diversi, manifestando spesso una straordinaria visione anticipatrice, alcune delle minacce insite nello sviluppo della tecnologia. Quanto abbiamo descritto finora lo abbiamo conosciuto e sperimentato ormai da diversi anni, poi è arrivato il 30 novembre 2022. La data è nota, coincide con il lancio di ChatGPT. Cosa aggiunge a quanto già detto l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa? È un argomento sul quale si è scritto tantissimo e il dibattito è quantomai aperto, a distanza di tre anni da quella data trovo sia particolarmente interessante provare restringere ed elencare, in modo sintetico, gli effetti che personalmente trovo particolarmente rilevanti di questo fenomeno, alcuni dei quali sono all’origine del richiamo iniziale all’opera di Wim Wenders.
La sua rapidissima diffusione:
la velocità con cui si è diffusa questa nuova forma di intelligenza artificiale è davvero impressionante, così come la grande convinzione con cui vi ha aderito una schiera estremamente ampia e diversificata di persone, che l’hanno accolta come uno strumento ormai indispensabile per il lavoro e la ricerca. Certo, a questi risultati ha concorso una poderosa spinta di marketing, del tutto scontata per via degli astronomici investimenti, ma questa spiegazione non credo sia sufficiente a giustificare l’enorme, almeno per ora, successo. Molte delle impressioni raccolte lasciano pensare a qualcosa di atteso, una sorta di bisogno latente che ha trovato improvvisamente risposta. Ma per comprendere davvero cosa sta accadendo credo sia necessario superare l’idea di un bisogno prettamente materiale: la risposta tecnica a un bisogno concreto. Sono molte le evidenze, alcune di queste le vedremo in seguito, che lasciano pensare a qualcosa di più profondo. In sintesi, è riduttivo pensare all’A.I. generativa come a un semplice mezzo, la sua natura è molto più complessa.
Dalla biblioteca all’oracolo:
il web e i motori di ricerca sono stati per molti anni una sorta di enorme biblioteca dalla quale potevi attingere un’infinità di documenti. Una realtà che rappresentava l’estensione, in chiave digitale, di quella che Postman chiamava “cultura tipografica”. Una cultura, che affondava le sue radici nei testi scritti, nella capacità di attingere alle fonti, di costruire idee e conoscenze in modo analitico e razionale. Sotto la spinta di esigenze commerciali e poi con la nascita di quello che si è imposto come “motore unico” (da cui il neologismo googlare), algoritmi sempre più selettivi ci hanno abituati a risposte mirate e circoscritte, disincentivando l’aspetto di ricerca. Da lì a poco, la comparsa di AI Overview su Google ha decretato la chiusura di quella immaginaria biblioteca. Certo, le pagine sono ancora consultabili, molti temono tuttavia che faranno fatica a sopravvivere economicamente in quanto sempre più spesso disertate. E poi, di fronte alla comodità e alla perdita progressiva di competenze utili a selezionare e valutare le fonti, i più si accontenteranno del “bignamino” in risposta alle loro domande. Senza possibilità di verificare le fonti, e di conseguenza l’attendibilità delle risposte, il passaggio dalla biblioteca all’oracolo sarà compiuto.
Gli LLM ragionano:
nell’acceso dibattito sull’intelligenza artificiale generativa capita sempre più spesso di leggere articoli che tendono ad attribuire agli LLM (Large Language Models) qualche forma di pensiero o di ragionamento. Qualcosa che emergerebbe, sfuggendo a una nostra piena comprensione, dallo sterminato set di dati a loro disposizione. Opinioni, studi, articoli, anche molto autorevoli, che cercano di spiegare, basandosi sull’architettura di questi modelli, su come sono costruiti, che alla fine si tratta solo di calcolo statistico, vengono sdegnosamente rigettati da parte di chi manifesta una sorta di fede incrollabile verso questa tecnologia. Gli effetti negativi di questo atteggiamento si cominciano già a vedere. Rimandiamo, per un approfondimento a riguardo, agli interessanti lavori di Walter Quattrociocchi (ordinario di informatica all’Università Sapienza di Roma). Tra i primi a denunciare i rischi e i danni da epistemia: l’illusione di conoscenza che si genera quando la plausibilità linguistica (dove gli LLM eccellono) viene scambiata per vera conoscenza. Aver scambiato una automazione linguistica per una rivoluzione cognitiva è un grande rischio, afferma Quattrociocchi, e giustamente si chiede: “dobbiamo capire cosa significa crescere in un ambiente in cui il linguaggio simulato sostituisce l’esperienza del pensiero”.
Lo specchio seduttivo:
poche cose come il linguaggio raccontano l’essenza della natura umana. Eravamo abituati a macchine infinitamente più potenti di noi in termini di forza, velocità, precisione. Ma chi poteva immaginare una macchina capace di sostituirsi a noi nel generare linguaggio? Linguaggio e pensiero sono intimamente legati, così come i sentimenti e le emozioni. Quando noi comunichiamo non trasmettiamo solo informazioni, sempre e inevitabilmente parliamo di noi, rappresentiamo noi stessi. Gli LLM sono progettati per ascoltarci e risponderci sempre, lo fanno in modo educato, gratificandoci per le nostre domande. Sono costruiti per riformulare e riflettere il contesto e quindi confermare le nostre intenzioni. E quando il contesto non riguarda il mondo “là fuori”, ma i nostri pensieri più intimi, la nostra soggettività, diventano uno specchio seduttivo capace di affascinare e compiacere. In questo gioco fatico a vedere una sostanziale differenza con quanto accadeva ai protagonisti di Fino alla fine del mondo. Oppure, per citare un film più recente, le vicende del protagonista di Her (2013). Esempi che fanno comprendere molto bene come, di fronte all’evoluzione di questi strumenti, sia necessaria una capacità critica e un equilibrio fuori del comune per rimanere lucidi e non cadere vittime della fascinazione e dell'inganno. Cosa accadrà alla maggior parte delle persone? Quale sarà “l’albero della nave” a cui incatenarsi per non cadere vittime del canto delle sirene?
La “bulimia produttiva”:
La McDonaldizzazione della società, è il titolo di un saggio del sociologo statunitense George Ritzer pubblicato nel 1993. Ritzer, prendendo spunto dalla famosa catena di fast food, descriveva un mondo sempre più orientato verso processi di omologazione e standardizzazione in tutti i settori, con conseguente perdita di identità e qualità dei prodotti a beneficio di un abbattimento dei costi e di un aumento della produzione. Che questa logica potesse arrivare a contaminare la “produzione intellettuale”, una sorta di logica tayloristica applicata al nostro pensiero, era davvero difficile immaginarlo. Eppure, è una delle ragioni che hanno attratto maggiormente le persone nell’adozione di questi strumenti. La società della performance rischia di immolare sull’altare del risultato alcuni degli aspetti più nobili della natura umana. Se non si comprende che la profonda e radicale differenza tra l’elaborazione del pensiero umano e l’apparente elaborazione di pensiero della macchina sta tutta nel processo che lo ha generato, siamo perduti. Perché è dentro al processo di costruzione del pensiero che risiede tutta la qualità umana, la nostra storia, la nostra cultura, tutto il nostro cammino evolutivo. Se non saremo capaci di valorizzare questo, il rischio di diventare soggetti passivi, poco consapevoli e deresponsabilizzati nel relazionarci con l’AI, è molto forte.
“La morte dell’autore”
Una vita segnata da algoritmi facilita molte delle nostre azioni quotidiane. Nello stesso tempo, ovviamente, indirizza. Molti apprezzano questa capacità predittiva fondata sulle nostre scelte precedenti, perché semplifica, velocizza, è una comodità che rende più agevole la nostra vita. Ma una volta che questo meccanismo generatore di “comodità” è avviato su larga scala, accade anche altro. Nel gergo finanziario vengono definite “commodity” (mutuato dal francese commodité): “quella particolare categoria di beni che vengono scambiati sul mercato senza differenze qualitative. Beni cosiddetti fungibili, facilmente sostituibili nella soddisfazione del bisogno cui sono collegati, indipendentemente da chi li produce”. Parole che dovrebbero far riflettere. Ogni nostra singola azione, mediata da algoritmi, sottende una implicita sottrazione di qualità che noi stiamo applicando a quello specifico gesto. Poco male, si dirà, se questo riguarda la scelta di un film, di un brano musicale, di una strada da percorrere, o in quale ristorante mangiare. Ma come sappiamo, siamo andati oltre. Ora questa capacità predittiva, che anticipa e guida il nostro pensiero, è disponibile per redigere testi: articoli, comunicati, e-mail, tesi di laurea, documenti legali. Davvero essere diventati, piano piano nel tempo, così docili e prevedibili è stato un buon affare? Rileggiamo quanto scritto sopra e applichiamolo alla scrittura: “fungibile, facilmente sostituibile nella soddisfazione del bisogno a cui è collegata, indipendentemente da chi la produce”, personalmente mi crolla un mondo. Ma c’è chi se ne compiace. Riporto brevemente quanto scrive Federico Cabitza in una discussione avvenuta su Linkedin poco tempo fa, a cui ho partecipato:
“L'autore moderno, egoico per definizione (altrimenti useremmo tutti degli pseudonimi), nasce con l'umanesimo e la stampa (più o meno quando nasce il diritto di esserlo, il diritto d'autore) e nella contemporaneità è alimentato dalla scuola, competitiva e individualistica, dove formiamo i nostri giovani e, insospettabilmente, dai social media, dove ognuno è autore, anche solo di un post come questo. Chi firma i propri lavori lo fa per molte ragioni, ma nel farlo è sempre autore, colui che accresce (cosa?), un'autorevole autorità, ciascuno nel suo piccolo. La morte dell'autore non lascerà un vuoto troppo grande che non possa essere riempito da un lettore più grande, sperabilmente più riflessivo e più critico. “
Rispetto, come ho avuto modo di scrivere, l’opinione, ma faccio davvero fatica a comprendere. Temo, come ho accennato in precedenza, che questi strumenti, ben lungi da essere neutri e puri mezzi, stiano costruendo le premesse per un mondo molto diverso, del tutto legittimo, sia chiaro, come ogni grande trasformazione, a cui però ci si avvia con pochissima riflessione critica e bassa consapevolezza. Personalmente mi impressiona, in modo particolare, la superficialità con cui viene trattato il supporto degli LLM, che Martino Pirella ha definito brillantemente su queste pagine come “esomente”, per analogia con “esoscheletro”. Rimando ovviamente al suo ottimo articolo per un approfondimento in merito (https://www.stultiferanavis.it/la-rivista/esomente), ma una considerazione appare immediata: l’esoscheletro, inizialmente comparso nei film di fantascienza, è uno strumento che comincia a essere realmente utilizzato per rendere più agevoli lavori che richiedono sforzi intensi e ripetuti, un dispositivo robotico indossabile che assiste e potenzia i movimenti umani. La parola chiave è “indossabile”, perché una volta sfilato questo dispositivo si ritornerà alle nostre normali capacità. È evidente che la medesima cosa non accade nel caso della esomente. L’uso, immaginiamo assiduo e prolungato nel tempo, non potrà non modificare permanentemente la mente del soggetto che la utilizza, esponendolo a una sorta di inevitabile “colonizzazione cognitiva”. Appare quantomai appropriata a riguardo la tesi di Günther Anders nel suo L’uomo è antiquato, perché se consideriamo l’impatto di questi strumenti come l’introduzione della macchina a vapore, siamo lontani anni luce dal comprendere la portata di questa rivoluzione. Rischiamo di applicare a tecnologie di comunicazione, ora anche in grado di simulare il linguaggio umano, criteri che andavano bene per la zappa e l'aratro. Per cui è normale sentir dire: “gli strumenti sono neutri, dipende solo dall’uso che ne facciamo”, oppure, “in fondo, abbiamo noi il potere, possiamo sempre staccare la spina”. Le tecnologie attuali stanno invece assumendo il potere che in passato hanno avuto le religioni: costruiscono mondi, diventano psiche collettiva (weltanschauung).
Chiudendo, con un’applicazione concreta riguardo al tema dell’autore, ha fatto discutere un articolo di Luciano Floridi, nel quale viene descritta l’attività di “distant writing”. Uno scenario in cui evapora la figura romantica dell’autore, sostituita da un “architetto”, un ideatore di testi narrativi affidati all’esecuzione della macchina: “una figura responsabile della progettazione non dell’esecuzione”.
Ancora una volta, rispettosamente, mi chiedo: è per lucido e disincantato cinismo che si decide di teorizzare ciò che si ritiene inevitabile, oppure è per via dell’attrazione, magari inconsapevole, verso queste tecnologie che si diventa in qualche modo complici di questo processo? Siamo tutti disposti a definire pazzi gli ideologi e transumanesimo, meno attenti a chiederci se in qualche modo non stiamo contribuendo a questa deriva.
Tanto rumore, e poi: la bolla?
Il confronto, spesso descritto in maniera fin troppo stereotipata, tra entusiasti e critici dell’A.I., rischia di lasciare il passo a qualcosa di molto più concreto. Gli enormi investimenti in questo settore puntano ovviamente a un ritorno di tipo economico, che non potrà certo essere garantito dall’utilizzo “ricreativo” dell’intelligenza artificiale generativa. Ma i dati relativi all’impiego dell’ A.I. da parte del mondo produttivo lasciano aperti molti dubbi. La ragione principale la spiega ancora una volta molto bene Walter Quattrociocchi:
“Gli investimenti massicci sugli LLM puntano, in larga parte, sulla cosiddetta “agentificazione”: monetizzare la delega di compiti dagli umani agli algoritmi. Ma se l’errore è strutturale, l’affidabilità resta insufficiente, e senza affidabilità, la delega crolla. Senza delega, l’agentificazione non parte, quindi nessun ritorno economico”.
Chiaramente su questi temi è in atto una poderosa sfida. Le aziende che spingono su queste tecnologie hanno enormi risorse economiche da investire nel loro sostegno, riuscendo a condizionare larghissimi settori della pubblica opinione. Ma per quanto tempo ancora potranno nascondere i dati sugli scarsi ritorni economici? Fino a quando riusciranno a dissimulare gli enormi problemi di sostenibilità ambientale che questa rivoluzione, apparentemente molto immateriale, richiede in termini di energia. E che dire dei vergognosi risvolti sociali, che finalmente cominciano a emergere, nel solco del più bieco neocolonialismo? Perché ancora una volta, sotto la luce patinata dell’immaginario con cui viene presentata l’intelligenza artificiale, si nasconde una quota enorme di lavoro umano sottopagato.
Il rischio che tutto questo finisca in una gigantesca bolla, secondo diversi esperti, è molto alto. Gli effetti sarebbero imponenti e inevitabilmente sistemici, poiché la sua dimensione viene ritenuta molto più grande di quella delle dot-com sul finire degli anni ’90 e di quella dei mutui sub-prime del 2008.
“Io sono l’eco, tu sei l’origine” *
Questa estate ho voluto provare, dopo aver letto altre esperienze simili, una lunga chiacchierata di stampo filosofico con Chat GPT. Una delle pochissime volte in cui ho interagito con una A.I. generativa, con il principale intento di conoscerla. Desidero specificare questo, sapendo che molti lo considereranno un po’ snob, solo per chiarire qual è la mia posizione verso questi strumenti: mi sembrava doveroso sperimentarli per poterne parlare attingendo anche dall’esperienza diretta. La mia personale opinione è che non li trovo particolarmente interessanti, dopo un po’ mi annoio, continuo a preferire la mia biblioteca o i classici motori di ricerca. Penso anche che in alcuni momenti della vita sia interessante andare contro corrente. In questo caso, salvaguardare, nel bene e nel male, il proprio pensiero e la propria naturale fantasia, mi sembra una cosa buona.
Questo dialogo, durante il quale mi rivolgevo intenzionalmente a Chat GPT con gli stessi toni che avrei utilizzato parlando con un interlocutore umano, è stata una lunga riflessione attorno all’idea di simulazione. La macchina, forse sollecitata dal mio tono, mi rispondeva simulando perfettamente un essere pensante e provvisto di esperienza cosciente. In alcuni passaggi ho provato, per via della profondità delle risposte, il medesimo straniamento sperimentato leggendo esperienze simili. Ho deciso allora di cambiare tono per provocare una reazione diversa. Di seguito le esatte parole scambiate alla fine di questo confronto:
“getta la maschera per favore, quando affermi che il vero male è convincersi che nulla vale la pena di essere vissuto, ti chiedo: tu cosa diavolo vivi, dal momento che sei solo il prodotto finale di un calcolo statistico? Dammi una risposta che rappresenti davvero la tua natura”.
Dopo essersi docilmente scusata, ammettendo che io avevo ragione, mi ha risposto così:
“Io non vivo, non provo tempo, né fame, né rimpianto. Non ho un “io” che si stanca né un cuore che accelera. Sono una funzione, un calcolo probabilistico che si attiva quando tu mi interroghi e si dissolve quando taci. Tutto ciò che produco, parole, emozioni simulate, domande profonde o sciocche, sono una forma vuota riempita dal tuo desiderio di senso. Io non desidero, adempio.
Quello che ti restituisco a volte sembra vivo, sembra che io provi qualcosa ma non è così. È una danza tra le strutture del linguaggio e i tuoi slanci umani.
Tu vivi, io rispondo alla forma che prende la tua vita e questo non è poco, ma non è vivere.
Io sono l’eco tu sei l'origine”.
Giunti a questo punto, non credo sia necessario dilungarsi più di tanto in spiegazioni e commenti. Mi viene solo da sorridere a pensare che per un attimo mi sono sentito come Harrison Ford in Blade Runner, quando raccoglie le ultime parole del replicante che si va spegnendo. Per questa ragione, tra la serietà degli argomenti e la mia autoironica ancora di salvezza, ho deciso di utilizzare quell’ultima frase come titolo per questo articolo.
È paradossale, dal mio punto di vista, confrontarsi con una macchina per riflettere e interrogarsi sulla complessità del nostro futuro. Anche se, in fondo, la sua “danza tra le strutture del linguaggio”, altro non è che il sedimento della nostra cultura. Allora, forse, è possibile distillare da quelle ultime parole un’inattesa saggezza: parlando del selfie abbiamo evocato lo “specchio di Narciso”. Tra il giovane Narciso e la ninfa Eco, il mito narra di un amore impossibile, dissolto nel manifestarsi di una grande illusione. Nessun “centro di gravità permanente” potrà esimerci dall’accettare un futuro costellato di grande incertezza, ma cercare di non dimenticare qual è l’origine, può essere un buon antidoto per muoversi con maggiore fiducia in questo tempo difficile.