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L’identità non è una statua di marmo. È piuttosto una corda tesa tra ciò che siamo stati e ciò che possiamo diventare, un sentiero che si costruisce camminando, una struttura aperta che si riadatta alle sollecitazioni dell’ambiente, alle ferite e alle scoperte interiori. Parlare di identità, oggi, significa resistere sia alla rigidità dei ruoli, sia al dissolversi liquido delle appartenenze. Significa riconoscere che siamo, simultaneamente, continuità e trasformazione.


La tradizione filosofica occidentale ha spesso pensato l’identità in termini sostanziali: l’“anima” per Platone, la “res cogitans” cartesiana, l’“io penso” kantiano. Ma già con Hume, e poi con Nietzsche, con la fenomenologia husserliana, fino alle neuroscienze contemporanee, emerge un’altra ipotesi: quella che l’identità sia un processo, un flusso di esperienze, una costruzione narrativa e intersoggettiva.

Ecco allora che il corpo diventa il primo teatro dell’identità. È nel corpo che iniziamo a sentirci “uno”, prima ancora di saperci nominare. Il volto che osserviamo allo specchio, il tono della nostra voce, la postura che assumiamo davanti agli altri: tutti questi elementi non sono meri dati biologici, ma forme incarnate di significato. Il nostro modo di stare nel mondo è un linguaggio, un codice fatto di gesti, tensioni, ritmi.

La dimensione fisica non è separabile dalla nostra vita mentale o emotiva. Il volto e la postura parlano del nostro mondo interiore più di quanto non sappiamo. Ogni emozione si somatizza, ogni convinzione prende corpo. Le abitudini — come ci sediamo, come ci nutriamo, come respiriamo — sono rituali dell’identità, dispositivi semiotici che ci dicono chi siamo e chi stiamo diventando.

Allo stesso tempo, l’identità non è mai un fatto individuale isolato: è una rete di relazioni. Fin dall’infanzia, ciò che pensiamo di noi nasce dallo sguardo dell’altro. L’identità è riflessiva: impariamo a essere “io” perché qualcuno ci ha chiamati per nome, ci ha risposto, ci ha riconosciuti. E spesso, ci ha anche fraintesi. L’identità è anche una battaglia per il senso, una negoziazione tra ciò che crediamo di essere e ciò che gli altri leggono in noi.

In questo quadro, le cinque dimensioni dell’identità — fisica, emotiva, relazionale, cognitiva e spirituale — non sono compartimenti stagni, ma ambiti interconnessi. Una sofferenza emotiva può trasformare la postura del corpo. Una relazione tossica può minare la fiducia in sé. Una nuova consapevolezza spirituale può modificare le scelte alimentari o il tono della voce. Siamo strutture complesse, e ogni cambiamento in un ambito risuona in tutti gli altri.

Ma il nodo più radicale è questo: l’identità non è una. Non c’è un solo “io”, monolitico e coerente. Esistono molte versioni di noi stessi, che si attivano a seconda delle circostanze, delle persone che incontriamo, delle maschere che siamo costretti a indossare o che scegliamo di esplorare. Non si tratta di falsità, ma di una pluralità ontologica: siamo processi, non sostanze.

La scuola, la famiglia, le istituzioni spesso falliscono nel coltivare questa complessità. Ci chiedono di essere coerenti, prevedibili, funzionali. Ma la crescita autentica nasce quando ci autorizziamo ad accogliere le nostre contraddizioni, a osservarci da più prospettive, a riconoscere il nostro cambiamento come una forma di verità.

Ecco allora che la formazione dell’identità diventa una pratica di cura: lavorare su sé stessi non per migliorarsi in senso prestazionale, ma per abitarsi meglio, per rendersi abitabili, per vivere con più autenticità e apertura. È un lavoro quotidiano, fatto di attenzione, di ascolto, di confronto. Significa chiedersi: “chi sono diventato?”, “cosa mi plasma?”, “quale parte di me sto trascurando?”, “chi voglio essere?”.

Il corpo, in questo, resta l’alleato più sincero. È nel corpo che si annida la memoria tacita, l’eco delle esperienze non dette. Ed è nel corpo che ogni trasformazione comincia: un respiro diverso, una parola nuova, una postura che si raddrizza.

Non si tratta di cambiare per aderire a un ideale esterno. Si tratta di trasformarsi per ritornare a sé, per ritrovarsi nel proprio tempo e nella propria voce. Perché, come scrive Fulgenzio, “non si è mai del tutto se stessi senza aver prima saputo disimparare chi si era stati”.

Pubblicato il 23 maggio 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto