America Latina, nei lontani anni settanta. Godevo della fortunata situazione dell'etnografo: svolgere un lavoro che consiste nell'apprendere. Gli abitanti dei villaggi che mi ospitavano erano i miei maestri.
Ma sentivo un bisogno di un metodo. C'è infatti ovviamente un metodo nell'apprendere, o meglio nello stare insieme come esseri umani in modo che lo stare insieme generi apprendimento.
Più che di un metodo preciso da adottare nel mio lavoro di etnografo, sentivo l'esigenza, molto più generale, di un modo di 'mettere ordine nelle cose'. Mi rivolsi dunque alla semiotica. Mi feci mandare il Trattato di semiotica generale di Umberto Eco. Ma poi di lì risalii ad un articolo citato in nota che -chissà come- mi apparve, per intuizione, importantissimo: "Le comunicazioni di massa in Italia: sguardo semiotico e malocchio della sociologia", di Paolo Fabbri, 1973.
Cosa c'entra, mi direte, la comunicazione di massa con l'etnografia? C'entra tantissimo. Non cercavo il 'buon selvaggio', non cercavo una cultura pura, incontaminata dalla modernità. Abitavo in villaggi di capanne raggiungibili solo in canoa, su per i fiumi, privi di ogni moderno comfort: elettricità, acqua corrente, servizi igienici, scuola elementare per i bambini. I mezzi di comunicazione accessibili consistevano esclusivamente nella stazione radio locale, la cui emittente aveva sede nel capoluogo della provincia.
Con tutto questo, mi rendevo conto che quali che fossero i temi apparenti delle ricerche che svolgevo: struttura elementare della parentela, distribuzione delle terre, alfabetizzazione, religiosità popolare, si trattava in ogni caso di apparenze. Perché nella sostanza il tema era uno solo: i rapporti tra metropoli e periferie.
Quali messaggi arrivavano nella periferia della quale ero ospite? In che modo? Con quali distorsioni?
Leggere l'articolo di Paolo Fabbri mi fu di grande aiuto.
Mi confermò, chiarendomene il senso, due mie supposizioni, tra di loro connesse.
La prima è questa: non esistono difficoltà, o mancanza di cognizioni di base, che impediscono di apprendere, ciò che conta è l'interesse ad apprendere. Perché imparare a leggere e a scrivere se la vita quotidiana si svolge benissimo senza saper leggere e scrivere.
La seconda è questa: non esistono deficit, ma solo differenze. Non è che chi vive nelle periferie del mondo 'capisca male' i messaggi diffusi dalle metropoli. Li capisce benissimo, ma a suo modo, in base a propri codici culturali.
Molti anni dopo, quando ormai la semiotica era passata di moda, e i semiologi erano più giustamente chiamati 'filosofi', mi fu raccontata la storia di quell'articolo leggendario. Paolo Fabbri, geniale pensatore, grande oratore, non era particolarmente propenso a scrivere. Fu spinto a scrivere l'articolo ed anche aiutato a scriverlo dallo stesso Eco e da altri.
Passarono ancora vari anni. All'inizio del nuovo secolo l'amico Bruno Bonsignore fondò Assoetica, e mi chiamò a condurre con lui le attività dell'associazione. Attività principale era organizzare annualmente un percorso formativo di Business Ethics rivolto a manager. Cercavamo pensatori di varia estrazione, capaci di illuminare da punti di vista diversi il concetto dell''etica'.
Ci sono due tipi di filosofi cinici: uno è povero e dice che gli uomini sono tutti disgraziati; uno è al potere e dice lo stesso. Quest'ultimo però ha il potere di cambiare la situazione, anzi ha il dovere e la responsabilità di cambiarla. Dice la verità, ma non deve dirla, deve cambiarla. Dire la verità non basta, se non quando è un invito a cambiare le cose. Siamo responsabili di fronte agli altri. Questa è l'etica.
Tra i docenti che vennero a tenere lezione ricordo Zygmunt Bauman, François Jullien, Serge Latouche. Dissi a Bruno: 'chiamiamo Paolo Fabbri'.
Concordammo con Paolo Fabbri il tema della sua lezione: la retorica.
La retorica in sé è una risorsa etica, perché è una alternativa alla guerra, perché il dibattito, il confronto attraverso le parole prende il posto dell'uso delle armi. Ma poi, entrati a guardare il modo di usare gli strumenti della retorica, ci si accorge di come sempre si sfiora un confine etico: dove termina il rispettoso tentativo di convincere l'altro, e dove comincia il subdolo tentativo di ingannarlo?
Rimasi sorpreso dal modo in cui Paolo Fabbri iniziò la sua lezione. Si agganciò a temi che avevo trattato nella lezione che io avevo appena concluso, di cui nell'attesa, dalla sala accanto, aveva ascoltato l'ultima parte.
Avevo parlato, facendo riferimento alla mi esperienza di etnografo, di come sia difficile stabilire cosa sia 'vero' quando si parla con persone di cultura diversa dalla nostra. In pratica, senza rendermene conto, avevo parlato di quello che, giovane etnografo, già pensavo per conto mio, ma che mi era risultato chiaro solo leggendo l'articolo di Paolo Fabbri.
Paolo Fabbri iniziò dunque la sua lezione parlando di come spesso chi vive nella metropoli svaluti i modi in cui gli abitanti delle periferie raccontano un fatto.
Le narrazioni vengono giudicate ingenue, erronee credenze, beliefs, dicerie, eppure sono del tutto sensate alla luce della cultura.
Se nessun abitante del villaggio ha mai visto un elicottero, il passaggio di un elicottero sul tetto del villaggio sarà preso come presenza magica. Non è un deficit, è una differenza.
Il primo passaggio, nella costruzione di una relazione etica, è rinunciare a vedere deficit e cercare di scorgere, e di rispettare, le differenze.
Così Paolo Fabbri introdusse il tema del rispetto dell'interlocutore, e si addentrò nell'argomento: la retorica.
La lezione, come era nel suo stile, era piena di domande.
Cosa ci vuole per persuadere gli altri?
Come organizzereste un bel discorso?
Quali sono le regole?
Perché le metafore hanno sempre affascinato tanto?
Perché le metafore per dire una cosa ne dicono un'altra?
Cosa vogliamo dire?
Andando verso la fine della lezione altre domande si aggiungevano e tutte le domande restavano aperte. Ma iniziava ad apparir chiaro che Paolo Fabbri indicava una direzione. Alla parola etica veniva affiancato un quasi sinonimo: responsabilità.
I politici sognano un esperto che dia loro risposte certe, per non prendersi responsabilità. I tecnici sognano che i politici regolino per legge l'uso di ciò che loro creano, per non prendersi responsabilità.
La lezione trova la sua sintesi, mi pare, in una narrazione, che allora Paolo Fabbri propose.
"Ci sono due tipi di filosofi cinici: uno è povero e dice che gli uomini sono tutti disgraziati; uno è al potere e dice lo stesso.
Quest'ultimo però ha il potere di cambiare la situazione, anzi ha il dovere e la responsabilità di cambiarla. Dice la verità, ma non dee dirla, deve cambiarla. Dire la verità non basta, se non quando è un invito a cambiare le cose. Siamo responsabili di fronte agli altri. Questa è l'etica."
Paolo Fabbri subito, per essere ancora più chiaro, aggiunse una precisazione e propose un esempio:
"Io devo rispondere dei miei atti, non mi devo nascondere.
I politici, per esempio, sognano un esperto che dia loro risposte certe, per non prendersi responsabilità".
Mi sembra che queste parole illuminino il nostro presente.
Ma mi sembra anche che oggi, all'esempio proposto da Paolo Fabbri, sia opportuno aggiungerne un altro:
"Io devo rispondere dei miei atti, non mi devo nascondere. I tecnici, per esempio, sognano che i politici regolino per legge l'uso di ciò che loro creano, per non prendersi responsabilità".
Nota.
La lezione di Paolo Fabbri 'Il confine etico della retorica', tenuta venerdì 31 marzo 2004, si trova trascritta nel libro: Bruno Bonsignore e Francesco Varanini ( a cura di), Un'etica per manager. Dieci lezioni magistrali, Guerini e Associati, 2010.
L'articolo di Paolo Fabbri 'Le comunicazioni di massa in Italia: sguardo semiotico e malocchio della sociologia' è apparso su Versus, Quaderni di studi semiotici, 5, IV, maggio-agosto 1973.