“Anche il collettivo è corporeo. E la physis, che nella tecnica si organizza ad esso, può essere generata secondo la sua realtà politica e fattuale soltanto in quello spazio iconico, che l’illuminazione profana ci rende familiare. Soltanto quando corpo e spazialità iconica si compenetrano con tale profondità, che tutta la tensione rivoluzionaria, le nervature collettive corporee del collettivo, tutte le nervature fisiche del collettivo giungono a scaricarsi nella rivoluzione, la realtà ha superato sè stessa.” - (Benjamin Aufsätze II, 1, 310)
“Cooperazione ha il senso di operare con. Il termine esprime una tendenza che interpreta una caratteristica principale della condizione umana: il bisogno dell’altro. Parliamo tanto di Io, ma non c’è mai un momento dell’esistenza in cui non vi sia bisogno dell’altro. Lo abbiamo espresso con il termine di fragilità, che implica il bisogno dell’altro e la spinta a unirsi all’altro.” - Vittorino Andreoli, Insieme si vince, Solferino RCS, Milan 2023, pag. 180
Viviamo tempi strani. Tempi nei quali parlare di collettività appare a molti come antiquato e anacronistico, spesso perché il termine viene fatto scivolare semanticamente dentro terminologie storicizzate come comunismo e collettivismo, che ne hanno caratterizzato la percezione negativa. Sono tempi che ci vedono divisi e divisivi, competitivi e conflittuali, in cerca di confini, distanza e separatezza, vissuti come elementi vitali per il nostro esistere individuale e soggettivo. Cognitivamente condizionati dalla decantata potenza delle reti social, siamo entrati in una fase psico-confusionale, abbiamo dimenticato di far parte di una comunità umana incarnata, strumento potente per superare l’individualismo corrente e ritornare alla “communitas” di cui tutti sentiamo inconsciamente un grande bisogno.
I nostri sono tempi di mondi sovrapposti, virtuali e fattuali, ma soprattutto tra loro disuguali, che non condividono alcun “mondo” comune perché a molti sfortunati è impedito di parteciparvi (ricordate il Titanic). Sono tempi accelerati dalla velocità che ci regala la tecnologia, tempi sempre in ritardo per le tante crisi e sfide di cambiamento che abbiamo di fronte e che non sappiamo come affrontare. Ci viene chiesto un costante e conformistico adattamento, ma percepiamo che anche adattarsi non sia più sufficiente.
Il ritardo è collettivo e interessa ambiti diversi, tutti in costante trasformazione e mutazione, come il benessere personale e sociale, l’economia e la crisi della globalizzazione, l’ecologia, la pace, la tecnologia. Ci percepiamo come incapaci di prevedere le conseguenze delle nostre azioni e di valutare gli effetti da esse generati, facciamo fatica a trovare le risposte tempestive che servono, sottovalutiamo l’urgenza dei cambiamenti necessari, continuiamo pigramente e colpevolmente a resistere a ogni forma di cambiamento. L’Italia ne è un esempio eclatante. Il disincanto sull’era neoliberista, che ci ha raccontato il paradiso terrestre sulla terra senza realizzarlo, è in crescita costante, anche se sempre represso, dentro narrazioni che ci raccontano che “tutto va bene” (basta avere ancora il coraggio di ascoltare i telegiornali nazionali e regionali). Sappiamo che non è così, percepiamo tutti che la scena è cambiata, siamo chiamati a nuove consapevolezze e responsabilità.
Sappiamo di vivere dentro un periodo pessimo, non solo per le continue crisi ma perché siamo alla fine di un’era e la nuova è ancora in via di formazione. Per emergere avrebbe bisogno del contributo di tutti, di un risveglio sociale e di un’azione collettiva, che al momento fanno fatica a palesarsi. Il disincanto è grande anche perché, nell’era dell’iperconnessione, delle reti dei contatti e delle conversazioni WhatsApp, la maggior parte delle persone vivono spazientite e preoccupate dentro prigioni di solitudine, per la carente o nulla conoscenza del mondo e dell’ambiente in cui abitano, soprattutto per le informazioni distorte che ricevono e per la loro stessa misinformazione. Con una visione deformata della realtà, sempre filtrata da media che hanno perso la loro autorevolezza e la loro vocazione a servire la comunità come mediatori di conoscenze, la rappresentazione della realtà risulta semplificata e omologata al pensiero dominante. Il risultato è un caos cognitivo dovuto alla disinformazione di massa, che genera una sensazione diffusa di privazione e di incertezza, non gestibile a livello individuale. La difficoltà che ne deriva per le persone è a valutare razionalmente i fatti, a elaborare pensieri critici utili a uscire dalle cornici mentali nelle quali si sono accomodate e sono state disciplinate, per provare a ricercare ciò che serve per mettere in discussione un presente contagiato dal mito dell’autonomia individuale e dal nichilismo.
Sono necessarie risposte rapide, incisive, dentro una nuova visione del futuro, anch’esse collettive. Difficili da realizzare in un mondo alienato dall’individualismo, dall’identarismo e dal nazionalismo, un mondo nel quale “gli “io,io,io” identitari desiderano la totale sparizione degli altri[1]”. L’esaltazione in atto dei vari nazionalismi che caratterizzano la nostra era tecno-liberista ci pone di fronte all’urgenza di provare a cambiare prospettiva, di ritornare a pensare al Noi, alla collettività. Ritornare a pensare collettivamente non è ritornare a ideologie del passato, è il riconoscimento del fallimento di narrazioni presenti tutte incentrate sul diritto individuale a fare a meno degli altri, a non fare niente che tenga conto della loro esistenza. Queste narrazioni hanno fallito, generando un grande disorientamento collettivo, che si manifesta nell’incertezza di molti nel guardare al futuro. Il disorientamento nasce dalla difficoltà a pensare di essere diventati così vulnerabili dall’aver bisogno di relazioni con uomini e donne in carne e ossa, dallo scoprire l’inutilità del rifugiarsi dentro doppi digitali in forma di profili, in modo da creare le condizioni per tornare a sperare nel futuro, ad agire con azioni pubbliche, che hanno bisogno degli altri per poter essere realizzate. Pur non avendo ancora alcuna idea precisa di cosa fare per creare nuove condizioni sociali di azione collettiva, il passaggio dall’Io al Noi è il primo passo per liberarsi dall’individualismo, che tanto caratterizza l’ideologia neoliberista e tecnocratica contemporanea.
Dentro una realtà di narrazioni autocelebrative che aspirano alla visibilità, prima ancora che alla lettura e alla comprensione, serve che ci impegniamo in nuove storie e nuove narrazioni, serve che esse possano ricevere l’ascolto degli Altri, dando ad esse una dimora, perché senza ascolto non c’è alcuna storia. Storie e narrazioni esistono dentro lo spazio tra noi e gli altri, “nella distanza tra la nostra bocca e l’orecchio di chi ascolta la nostra storia[2]”. Questa vicinanza incarnata, che può essere di molti, racconta l’esperienza di partecipazione di esseri umani dentro una collettività, di una comunità di cui si sente il bisogno, nella quale porre le proprie radici. Il collante di questa collettività è la presenza del corpo delle persone che la compongono, la sua performa(t)tività e apparizione dentro spazi analogici, di strada, in forme esperienziali che trovano nell’agire comune un obiettivo e uno strumento per affermare dei diritti o per richiederne il rispetto, per manifestare un dissenso contro le pratiche neoliberiste che sono all’origine delle crisi attuali.
Agire collettivamente è oggi l’unico modo per pratiche di resistenza umaniste, politiche e di solidarietà
L’unione dei corpi agisce, come nelle masse di Elias Canetti, attraverso i piedi, al loro ritmo, richiama le danze Maori di un tempo che, con il loro Haka, mescolavano l’intera comunità, fatta di uomini, donne, liberi e schiavi, senza considerazione per il loro rango sociale. I corpi, con le loro manifestazioni corporee, che mettono in azione mani e piedi, occhi, braccia e gambe, creano forze di movimento e azioni collettive, che acquistano potere dall’essere fisicamente a contatto, interconnessi pur non essendo necessariamente tecnologicamente connessi, uniti non da memi di moda o narrazioni separate dalla realtà, ma dalla consapevolezza condivisa del senso d’urgenza che spinge a voler affrontare problemi reali quali la precarietà, la vulnerabilità, la rivendicazione di una vita dignitosa e più vivibile, non importa quanto felice, l’esclusione dalla sfera pubblica. Agire collettivamente è oggi l’unico modo per pratiche di resistenza umaniste, politiche e di solidarietà, il solo modo per superare la frammentazione dell’era tecnologica e le sue illusioni di connessione senza legami, le disuguaglianze diffuse, provando a dettare le regole per una nuova etica di cui tutti sentono il bisogno. A dispetto dei pochi che preferiscono dedicarsi “cristianamente” all’(algo)etica dell’algoritmo e delle macchine mentre il loro pastore con le sue opere (Fratelli tutti, Laudato sì, Laudate deum) richiama sofferente e in pena a prestare attenzione agli esseri umani, soprattutto a quelli più poveri e sfruttati.
La collettività come espressione di corpi in azione, corpi alleati nell’agire collettivo finalizzato a obiettivi comuni e condivisi, evidenziano l’emergere di un sentire da tempo represso e sempre ben nascosto dalle narrazioni mediali, di un potere che, dopo le proteste collettive degli anni Sessanta e Settanta, ha imparato a proteggere le proprie zone privilegiate di conforto e le proprie prerogative classiste. Svanita la forza della narrazione digitale, compresa l’inutilità dell’uso delle piattaforme social per organizzare il dissenso, l’azione politica collettiva ritorna all’origine, si appoggia sui corpi delle persone, si organizza nelle strade, si dà appuntamenti in piazze dove montare tende per protestare contro gli affitti troppo alti delle città, in spazi pubblici nei quali potersi incontrare fisicamente, parlarsi e coordinare le azioni che servono, anche per garantirsi che spazi pubblici fisici continuino ad esistere, a essere liberi e praticabili. Pochi di questi esercizi collettivi hanno mostrato negli ultimi anni le loro possibilità di successo, anche per non essere mai stati fenomeni di massa, per essere stati sempre percepiti come meno interessanti delle vicende che trovano spazio online: Brand, influencer o gattini vari. Sono esercizi collettivi che sembrano non raggiungere mai una capacità attrattiva verso moltitudini ormai passivizzate, demoralizzate e forse psichicamente rassegnate. Tutti i movimenti emergenti sono stati medializzati, fagocitati, zittiti o repressi in tempi relativamente brevi assorbiti e sciolti dentro la melassa (il Blob) paludosa e debordante della narrazione dominante. Il loro ripresentarsi e le forme da essi espresse evidenziano sempre il bisogno di agire insieme e di parlarsi, di confrontarsi collettivamente. Queste esperienze non vanno perse, costituiscono e costruiscono il futuro come pavimentato di bisogni reali, alla ricerca di soddisfazione. Bisogna resistere alla nostalgia di un soggetto rivoluzionario emergente e capace di cambiare le cose, insistere nell’esprimere, attraverso i nostri comportamenti e le nostre pratiche, il bisogno di un cambiamento reale, agire in modo che si affermi come tale-
La collettività come espressione di corpi in azione, corpi alleati nell’agire collettivo finalizzato a obiettivi comuni e condivisi, evidenziano l’emergere di un sentire da tempo represso e sempre ben nascosto dalle narrazioni mediali
Nel momento in cui queste espressioni collettive si concretizzano, si comprende la forza di masse fisiche in movimento nel ridefinire attivamente gli spazi materiali nei quali si muovono, per riconfigurarli e rifunzionalizzarli, nel creare nuove opportunità di eventi, neppure immaginabili dentro gli spazi controllati dall’algoritmo, abitati in modo individualistico, privato, singolare e solo fintamente plurale. Finti (simulati, verosimili), da un punto di vista collettivo, sono gruppi, reti di contatti, comunità online, i cui membri passano il tempo dentro camere dell’eco nelle quali latita il pensiero e muoiono le spinte al cambiamento. I nuovi spazi fisici riconfigurati diventano essi stessi parte integrante dei movimenti dei corpi, che si muovono insieme, gli uni con gli altri, dentro spazi materiali nei quali l’apparire è ben diverso dalle forme di visibilità che si hanno online. I primi raccontano di persone che si parlano e agiscono insieme dentro spazi reali, i secondi di persone che agiscono individualmente ma attraverso avatar disincarnati, pur volendo far credere di far parte di moltitudini, di reti abitate da innumerevoli follower (Chi si è mai chiesto quanti dei follower (re)agiscono realmente ad un’azione online? Chi ne conosce la verità?). I primi possono diventare spazi politici nei quali corpi incarnati interagiscono con altri corpi incarnati, i secondi pubbliche arene nelle quali privatizzare gli spazi pubblici attraverso semplici profili, impossibilitati a creare azioni plurali, perché senza corpo e privati del suo potere nel determinare un’azione.
I tempi distratti e disastrati che stiamo vivendo richiedono una collettività di volontà. Una volontà individuale non basta, come è insufficiente una libertà individuale che non sia anche plurale. Nessuno ascolta più chi si permette un messaggio diverso, fuori dalle camere dell’eco. Non serve neppure una volontà unitaria. Ciò che serve veramente è una volontà collettiva, espressione di un’alleanza performativa fatta di uomini e di donne in tutte le manifestazioni possibili della loro fluidità di genere, un’alleanza creativa, capace di rimettere il tema della giustizia, dei diritti, dei beni comuni e della disuguaglianza al centro dell’attenzione, di ritornare in controllo della temporalità rubata dagli schermi, di recuperare i concetti di tempo e di spazio, aprendosi alla possibilità di riconfigurare il presente per dargli nuovi futuri possibili. Questa volontà, per trovare una sua espressione concreta, ha bisogno di corpi e del loro linguaggio, all’opera dentro il mondo del Nostroverso, usato in questo libro come metafora per rimarcare una distanza, anche materiale, con il Metaverso. La collettività che ci serve non è quella eterea, volatile, trasparente e disincarnata del digitale, vissuta come reale perché contigua e parallela a quella fattuale, ma quella nella quale gli sguardi vengono scambiati, le voci si sentono all’orecchio, i volti si appaiono vicendevolmente, le mani si toccano, i corpi occupano degli spazi e si lasciano influenzare gli uni dagli altri, dentro forme di reale e incarnata socialità. Dentro la collettività così concepita la prospettiva del nostro corpo si sposa con quella degli altri e con la loro alterità, assurgendo al ruolo di necessità, di bisogno da soddisfare, di diritto da difendere o rivendicare, di obiettivo e di azioni da realizzare insieme.
Abituati come siamo ad agire dentro gli spazi digitali, li abbiamo eletti a spazio pubblico nel quale intavolare discorsi e conversazioni, dimenticandoci che lo spazio pubblico ha bisogno di luoghi fisici nei quali si esercita l’agire collettivo e libero, di individui che, esercitando la loro cittadinanza attiva, si fanno portatori di istanze relazionalmente condivise, dentro una prospettiva globale e, per esprimersi alla Hannah Arendt, per realizzarsi come esseri umani che agiscono e comunicano pluralmente, in presenza, apparenza e concomitanza, per immettere qualcosa nel mondo e per cambiarlo. Un’esperienza molto diversa da quella privata e individualista a cui si dedica il nostro doppio digitale. Sempre visibile e senza pricacy, trasparente e “vetrinizzato” (Codeluppi), il nostro avatar digitale non agisce politicamente perché privo di corpo, disincarnato, legato a una cittadinanza onlife, al fare più che all’agire incarnato.
L’agire è per definizione collettivo, è prerogativa di un essere umano, avviene coinvolgendo individui diversi. Ogni azione ha come riferimento un’altra persona, un tu che costituisce il noi, di cui è composto l’io di ognuno. Online, l’altro è il destinatario di un messaggio, di un evento, di un’azione, offline l’altro è relazione, fondatore e co-creatore dell’identità individuale in contesti collettivi nei quali tutti siamo uguali. Come ha scritto Judith Butler nel suo libro Alleanza di corpi, pubblicato nel 2015: “[l’agire], questo esercizio performativo, accade solo “tra” corpi, in uno spazio che costituisce il vuoto tra il mio corpo e quello dell’altro. Di conseguenza, il mio corpo non agisce mai da solo quando agisce politicamente. L’azione emerge sempre dal “tra”, figura spaziale di una relazione che unisce e a un tempo diversifica[3]”. In questo spazio tra differenze, del “tra”, si colloca anche il Nostroverso, mai in assenza di corpo, sempre in presenza di un corpo vivente, che lo è perché mortale, vulnerabile, precarizzato, anche intellettualmente parlando, diverso dal suo doppio disincarnato online, celebrato come immortale, Homo deus che ha preso il posto del Dio della religione.
Se un’azione collettiva è oggi necessaria è quella che mette in primo piano l’urgenza di un superamento di modelli economici neoliberisti che hanno generato precarietà, disuguaglianza e povertà. Non bisogna operare il superamento in forma ideologica o retorica, ma realista, concreta, dando visibilità alle persone che si trovano a vivere esistenze precarie, povere, senza diritti e libertà, perché costrette dentro le gabbie dalla disuguaglianza. Dare visibilità a queste persone significa agire sulle narrazioni che le riguardano, per sbugiardarle, decostruirle, cambiarle, un piccolo contributo alla loro visibilità, oggi negata da chi governa le narrazioni e trae vantaggio dalle disuguaglianze che questa società ingiusta ha creato.
Cambiare narrazione significa allontanarsi dalle categorie dell’utile, dell’efficienza e del profitto
Cambiare narrazione significa allontanarsi dalle categorie dell’utile, dell’efficienza e del profitto, che tanto condizionano la nostra quotidianità così come molte scelte politiche e culturali, sul lavoro e sull’educazione. Comporta un allontanamento da pratiche consumistiche (abbiamo mai pensato che nel mondo capitalista attuale si consuma più di quanto si produca?), il cui obiettivo di consumare si traduce nella rovina di ciò che si tocca, con cui riempiamo frigoriferi e congelatori, ma che non ci aiutano ad avere cura di noi stessi, degli altri, del pianeta e del mondo. Alle folle ipnotizzate del centro commerciale, composte da individui che agiscono in solitudine, al capitalismo realista (definizione di Mark Fisher) corrente che agisce disgregando la società, controllandone i bisogni e i desideri, serve opporre una collettività di persone, capaci di formulare una riflessione critica, utile per ripensare l’economia, l’individuo e il contesto tecnologico nel quale è inserito e trattato come merce. Un primo effetto potrebbe consistere nel prendere le distanze dalle visioni e narrazioni correnti, nell’abbandono dell’individualismo e in azioni finalizzate ad alimentare maggiore uguaglianza, compassione e accoglienza, rispetto dei diritti e della dignità umana di cui molte persone sono oggi private. Si tratta di provare a definire una diversa condizione umana, fatta di interdipendenze e interconnessioni, di intersoggettività e correlazioni, di intrecci, nella consapevolezza che allontanandosi dalla ricerca dell’utile individuale, si pongono le basi per costruire nuove socialità, per diffondere una cultura del bene comune, fatto di tanti beni collettivi da gestire insieme, con consapevolezza e responsabilità, a partire dall’uso che ne facciamo.
Mettersi su questo cammino porta a valorizzare le esperienze del Noi, esperienze relazionali, declinabili nel concetto di “essere con” teorizzato dal filosofo Jean-Luc Nancy, investendo sul nostro stare insieme, sul nostro essere kantianamente uomini tra gli uomini, su cooperazione, autoregolazione, buone pratiche comunitarie e condivisione. Esperienze dal valore etico perché rivolte al bene dell’intero pianeta, prima ancora della comunità antropologica e antropocentrica di cui facciamo parte. Ciò che conta in questo contesto è la dimensione comunitaria dell’essere umano, estesa agli altri umani che ci circondano ma anche a tutti gli altri esseri che abitano la terra. Il solipsismo e nichilismo correnti sono frutti culturali, derive antropologiche indotte da pratiche individuali, superabili nel cercare, trovare e comprendere ciò che è comune tra gli umani, riscoprendo la dimensione generosa, intersoggettiva e non egoistica della collettività, provando a pensare mettendosi dal punto di vista degli altri, facendo propria la necessità di agire con loro. Esseri ragionevoli che condividono l’urgenza di superare l’egoismo e l’individualismo dei tempi correnti e di costruire scenari futuri nei quali la collettività ritrovi la sua cittadinanza e partecipazione, esercitando un influsso reale sulla realtà quotidiana di tutti.
Vissuta da molti come un lacciuolo, un vincolo insuperabile che ci lega agli altri di cui è composta, la collettività è al contrario uno strumento potente per il viaggio che stiamo facendo dentro le crisi che hanno inaugurato il Terzo Millennio e sembrano voler durare. Da queste crisi si uscirà solo insieme, nessun uomo può vivere da solo, tanto meno affrontare le crisi. Siamo per definizione interdipendenti, dentro comunità di senso e di destino, collettività di individui che condividono bisogni, rimedi e cure, facoltà come la mente, sempre legata all’agire collettivo, all’essere dentro comunità e contesti umani, all’immaginare.
Non ci resta che cooperare, agire collettivamente, esprimendosi esistenzialmente in nuovi stili di vita, cambiando comportamenti e linguaggi, andando alla ricerca di strumenti cooperativi e mettendo da parte quelli distruttivi che oggi, con la guerra in Ucraina e il suo potenziale rischio nucleare, stanno mettendo a rischio l’umanità intera e con essa l’intera vita degli altri esseri sulla terra.
NOTE
[1] Alain Badiou, Osservazioni sul disorientamento del mondo – Neri Pozza, Vicenza 2023, pag. 102
[2] Vittorio Lingiardi, Io, Tu, Noi – UTET, Torino 2019, pag. 21
[3] Judith Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano 2017